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illeopardi testo integrale, brano completo, citazione delle fonti, commedie opere storiche opere letterarie in prosa e in versi, operaomnia # [3095] Futuri del congiuntivo usati da' latini in vece di quelli dell'indicativo, del che altrove. Odero, meminero, credo anche coepero, novero. Forse ero coi composti potero, subero ec. furono originariamente futuri del congiuntivo. (5. Agosto. 1823.) Riprendono nell'Iliade la poca unità, l'interesse principale che i lettori prendono per Ettore, il doppio Eroe (Ettore ed Achille), e conchiudono che se Omero nelle parti è superiore agli altri poeti, nel tutto però preso insieme, nella condotta del poema, nella regolarità è inferiore agli altri epici, particolarmente a Virgilio. Certo se potessero esser vere regole di poesia quelle che si oppongono al buono e grande effetto della medesima e alla natura dell'uomo, io non disconverrei da queste sentenze. In proposito delle cose contenute nel séguito di questo pensiero, vedi la pag. 470. capoverso 2. Omero fu certamente anteriore alle regole del poema epico. Anzi esse da' suoi poemi furono cavate. Considerandole dunque come cavate e dedotte da' suoi poemi, e fondate sull'autorità di Omero, e principalmente dell'Iliade, dico che [3096] chi ne le trasse, prese abbaglio, e che d'allora in poi fino al dì d'oggi, s'ingannarono e s'ingannano tutti quelli che le seguirono o le sostennero, o le seguono o sostengono (ciò sono tutti i litteratores) come appoggiate sull'esempio di Omero: perchè quest'esempio non sussiste, e dalla forma della Iliade non nascevano e non si potevano cavar quelle regole. Considerandole poi come indipendenti da Omero, come sussistenti da se, e supponendo (il che non è vero) ch'elle sieno il parto della ragione e della specolazione assoluta, dico senza tergiversazione che Omero, siccome non le conobbe, così neanche le seguì, ma seguendo la natura, molto miglior maestra delle Poetiche e de' Dottori di Scuola e delle teorie, s'allontanò effettivamente da esse regole; ed aggiungo che queste sono errate da chiunque le immaginò, perchè incompatibili colla natura dell'uomo, perchè seguendole, il poema epico non può produrre il grande e forte e bello effetto ch'ei deve, o per lo meno [3097] non può produrre il maggiore e migliore effetto che gli sia d'altronde e in se stesso possibile; e che per conseguenza esse regole sono cattive e false. Nelle Iliade pertanto non v'è unità. Due sono realissimamente gli Eroi, Ettore e Achille. Due gl'interessi e diversi l'uno dall'altro: l'uno pel primo di questi Eroi e per la sua causa, l'altro pel secondo e per la causa de' greci. Interessi affatto contrarii che Omero volle espressamente destare e desta, volle alimentare e mantenere continuamente vivi ne' suoi lettori, e l'ottiene; volle far ciò dell'uno e dell'altro interesse ugualmente e come di compagnia, e così fece. È proprio degli uomini l'ammirar la fortuna e il buon successo delle intraprese, l'essere strascinati da questo e da quella alla lode, e per lo contrario dalla mala sorte e dal tristo esito al biasimo, l'esaltare chi ottenne quel che cercò, il deprimere chi non l'ottenne, lo stimar colui superiore al generale, costui uguale o inferiore, [3098] il credersi minor di quello e da lui superato, maggior di questo od uguale; in somma il distribuir la gloria secondo la fortuna. Questa proprietà degli uomini di tutti i tempi avea maggior luogo che mai negli antichi. L'esser fortunato era la somma lode appo loro. (V. fra l'altre la p. 3072. fine e p.3342.) E ciò per varie cagioni. Primieramente la fortuna non si stimava mai disgiunta dal merito, per modo ch'eziandio non conoscendo il merito, ma conoscendo la fortuna d'alcuno, si reputava aver bastante argomento per crederlo meritevole. Come negli stati liberi pochi avanzamenti si possono ottenere senz'alcuna sorta di merito reale, e come gli antichissimi popoli nella distribuzione degli onori, delle dignità, delle cariche, dei premi, avevano ordinariamente riguardo al merito sopra ogni altra cosa, così e conseguentemente stimavano che gli Dei non compartissero i loro favori, che la fortuna non si facesse amica, se non di quelli che n'erano degni: talmente che anche i doni naturali come la bellezza e la forza si stimavano compagni [3099] ed indizi de' pregi dell'animo e de' costumi, e la stessa ricchezza o nobiltà e l'altre felicità della nascita cadevano sotto questa categoria. Secondariamente, non supponendo gli antichi maggiori beni che quelli di questa vita, fino a credere che i morti, anche posti nell'Elisio, s'interessassero più della terra che dell'Averno, e che gli Dei fossero più solleciti delle cose terrene che delle celesti, ne seguiva che considerassero la felicità come principalissima parte di lode, perocchè il merito infelice come può giovare a se o agli altri? e come può parer buono e grande quello ch'è inutile? e se il merito era infelice, come poteva risplendere? e non risplendendo e non giovando in questa terra e per questa vita, dove, secondo le antiche opinioni, avrebbe acquistato luce e splendore? dove e a che cosa avrebbe giovato? Era dunque la felicità, principale ed essenzial cagione e parte di lode e di stima e di ammirazione e di gloria presso gli antichi, ancor [3100] più che presso i moderni; e massimamente appo gli antichissimi. Perocchè insomma ella è cosa naturale il pregiar sopra tutto la felicità, laonde egli è ben ragionevole ch'ella tanto più sia pregiata quanto i costumi, le opinioni e la vita degli uomini sono più vicini e conformi alla natura, quali erano in fatti nella più remota antichità. Omero dunque pigliando a esaltare un Eroe ed una nazione, e togliendoli per soggetto del suo canto e della sua lode, e facendo materia del suo poema l'elogio loro, si sarebbe fatto coscienza di sceglierli o di fingerli sfortunati, e tali che non avessero conseguito l'intento di quella impresa di ch'egli prendeva a cantare. Egli doveva dunque pigliare un Eroe fortunato. E tanto più quanto questo Eroe era un guerriero, e i suoi pregi eroici il coraggio e valor dell'animo, e l'impresa una guerra. Perocchè se ne' tempi moderni eziandio, poca o nulla è la gloria del vinto, e la lode di quella guerra [3101] che non è terminata dalla vittoria, molto più si deve stimare che così fosse appo gli antichi. Fra' quali effettivamente l'esser vinto si teneva per ignominia, e il vincere in qualsivoglia modo era gloria, non si considerando allora gran fatto altra giustizia che quella dell'armi, altro diritto che della forza. Oltre che volendo Omero nel suo poema (siccome poi vollero gli altri epici) adombrar quasi un modello o un tipo di uomo superiore al generale e maraviglioso, e scegliendo per tale effetto un guerriero, come poteva egli farlo superiore agli altri uomini e singolarmente mirabile per le virtù proprie della sua professione, s'ei non l'avesse fatto vittorioso? anzi tale che niuno gli potesse resistere? Come poteva egli fare che questo Eroe fosse vinto, cioè superato dagli altri in quelle virtù e qualità per le quali egli intendeva di mostrarlo a tutti superiore e fra tutti unico, affine di produrre la maraviglia, ed eseguire [3102] uel tipo di compiuto guerriero ch'ei si proponeva? Non è della guerra come d'altre molte imprese che possono venir fallite e mancare del loro intento a cagione di ostacoli insuperabili all'uomo e di forze superiori alle umane. Ma la guerra è dell'uomo coll'uomo, e quindi è forza il far vincitore colui che si vuol far superiore agli altri uomini e singolare nella sua specie per le virtù guerriere. Chi cede nella guerra, cede all'uomo, cosa che oggidì potrà essere scusata ma di rado lodata; fra gli antichissimi non che lodata, era pur di rado scusata, e generalmente spregiata com'effetto o di viltà o di debolezza, la quale, sebbene involontaria, era poco meno spregiata della viltà, come lo sono anche oggidì proporzionatamente e la debolezza e tanti altri difetti degl'individui o delle nazioni, esteriori o interiori, che non dipendono dalla volontà di chi n'è il soggetto. Dico che la guerra è [3103] dell'uomo coll'uomo, sebbene Omero c'intramette anche gli Dei. Ma questa finzione era per abbellire e non per alterare la natura della guerra eccetto in alcune parti poco essenziali. Come quando s'introduce Achille alle prese col Csanto. Nel qual caso, non essendo la battaglia d'uomo con uomo, ma colla superior potenza di un Dio, Omero non si fa scrupolo d'introdurre Achille chiedente aiuto e fuggente, nè stima che questo tolga alla sua superiorità, perch'ei lo vuol far superiore agli uomini non agli Dei, e vittorioso nella guerra de' mortali, non degli Eterni. E infatti l'intervento degli Dei, come non doveva (volendo conservare il buono effetto) alterare, così effettivamente non altera appresso Omero la sostanza della guerra umana. Conveniva dunque che l'Eroe e la nazione presa da Omero a celebrare fossero fortunati e vittoriosi, massimamente aggiungendosi alle [3104] predette considerazioni generali questa particolarità che l'Eroe da Omero celebrato era greco, e la nazione era la greca, cioè quella alla quale egli cantava e a cui egli apparteneva, e la guerra era stata contro i Barbari. Molto conveniente cosa, pigliare per soggetto del poema epico le lodi e le imprese della propria nazione e una guerra contro i perpetui e naturali nemici di lei, ciò erano i Barbari. Cosa che raddoppiava, anzi moltiplicava l'interesse del poema, siccome accade nella Lusiade, siccome ancora nell'Eneide ec. Onde Isocrate pensa che gran parte della celebrità di Omero e della grazia in che sempre furono i suoi poemi appo i greci, derivi dal patriotismo de' medesimi poemi e dalle battaglie e vittorie contro i Barbari, che in essi sono celebrate. (Vedilo nel Panegirico, ediz. del Battie Isocr. Oratt. 7. et epistt. Cantabrig. 1729. p. 175-6.). Or come poteva Omero fingere o narrar perditori [3105] la sua nazione e un Eroe della medesima, e ciò in una guerra contro i Barbari? Il che tra gli antichi sarebbe stato tanto più assurdo che tra i moderni, quando anche le lodi e l'interesse del poema fossero stati tutti per li greci, e quando anche, fingendoli sventurati, Omero avesse mosso le lagrime e i singhiozzi sopra le loro sciagure, sarebbe tuttavia riuscito assurdo di maniera, che sarebbe eziandio stato pericoloso al poeta. Frinico ateniese, gran tempo dopo Omero, fece suggetto di una tragedia la presa di Mileto fatta da Dario, e mosse gli uditori a pietà sopra quella sciagura dei greci per modo, che, secondo l'espressione di Longino (sect.24.) tutto il teatro si sciolse in lagrime. 3 Gli Ateniesi lo multarono in mille dramme (Plut. politic. praecept. Strabo l. 14. Schol. Aristoph. Vesp.) perch'egli avea rinfrescato la memoria delle domestiche calamità e ripostele sotto gli occhi rappresentandole al vivo (Herodot. l.6. c. 21.); [3106] di più vietarono con decreto che quella tragedia fosse più recata sulle scene (Tzetz. Chil. 8. (alibi reperio 7.) hist. 156.): anzi secondo Eliano (Var. l. 13. c. 17.), lagrimando, lo cacciarono dal teatro esso stesso che stava rappresentando la sua propria tragedia. (Vedi Fabric. B. G. in Catal. Tragicorum, Meurs. Bibl. Att. Bentley Diss. ad Ep. Phalar. p.256) V. p. 4078. Adunque per tutte queste cagioni doveva nell'Eroe di Omero e nella nazione da lui celebrata concorrere colla virtù la fortuna. Ed ecco l'uno degl'interessi che campeggiano nell'Iliade senza interruzione per tutto il corpo del poema: interesse il quale consiste nell'ammirazione ispirata dalla straordinaria e superiore virtù; al quale interesse e alla qual maraviglia, cioè al pieno effetto di tal virtù descritta e figurata nel poema, richiedevasi necessariamente la felicità e il buon successo, che in tutti i tempi, ma negli antichissimi principalmente, sono considerati come il compimento della virtù, anzi pure come indispensabile perfezione [3107] di lei, o come solo indizio che possa dimostrarla veramente perfetta e somma. Altra proprietà dell'uomo si è che laddove la superiorità, laddove la virtù congiunta colla fortuna non produce se non un interesse debole, cioè l'ammirazione; per lo contrario la sventura in qualunque caso, ma molto più la sventura congiunta colla virtù, produce un interesse vivissimo, durevole e dolcissimo. Perocchè l'uomo si compiace nel sentimento della compassione, perchè nulla sacrificando, ottiene con essa quel sentimento che in ogni cosa e in ogni occasione gli è gratissimo, cioè una quasi coscienza di proprio eroismo e nobiltà d'animo. La sventura è naturalmente cagione di dispregio e anche d'odio verso lo sventurato, perchè l'uomo per natura odia, come il dolore, così le idee dolorose. Mirando dunque, malgrado la sciagura, alla virtù dello sciagurato, e non abbominandolo nè disdegnandolo quantunque tale, e finalmente giungendo a compassionarlo, cioè a voler coll'animo entrare a parte de' suoi [3108] mali, pare all'uomo di fare uno sforzo sopra se stesso, di vincere la propria natura, di ottenere una prova della propria magnanimità, di avere un argomento con cui possa persuadere a se medesimo di esser dotato di un animo superiore all'ordinario; tanto più ch'essendo proprio dell'uomo l'egoismo, e il compassionevole interessandosi per altrui, stima con questo interesse che niun sacrifizio gli costa, mostrarsi a se stesso straordinariamente magnanimo, singolare, eroico, più che uomo, poichè può non essere egoista, e impegnarsi seco medesimo per altri che per se stesso. Veggansi le pagg. 3291-97. e 3480-2. L'uomo nel compatire s'insuperbisce e si compiace di se medesimo: quindi è ch'egli goda nel compatire, e ch'ei si compiaccia della compassione. L'atto della compassione è un atto d'orgoglio che l'uomo fa tra se stesso. Così anche la compassione che sembra l'affetto il più lontano, anzi il più contrario, all'amor proprio, e che sembra non potersi in nessun modo e per niuna parte ridurre o riferire a questo amore, non [3109] deriva in sostanza (come tutti gli altri affetti) se non da esso, anzi non è che amor proprio, ed atto di egoismo. Il quale arriva a prodursi e fabbricarsi un piacere col persuadersi di morire, o d'interrompere le sue funzioni, applicando l'interesse dell'individuo ad altrui. Sicchè l'egoismo si compiace perchè crede di aver cessato o sospeso il suo proprio essere di egoismo. V. p. 3167. Tornando al proposito, il primo dei detti interessi, cioè quello della maraviglia era rilevato in Omero dalla circostanza che l'ammirazione cadeva sopra la superiorità, la virtù e la felicità di un eroe e di un esercito nazionale, sopra un'impresa fatta dalla propria nazione e fatta contro i di lei naturali nemici. Questa circostanza rendeva non solamente possibile ma naturalissima la vivacità e la durata di tale interesse ne' lettori o uditori greci (per li quali scriveva Omero) in tutto il corso del poema. Tolta questa circostanza, il detto interesse non può esser nè molto vivo nè molto durevole. Il lettore non s'interessa gran fatto per coloro per cui vede continuamente interessarsi lo stesso poeta. L'interesse del lettore (nel senso in cui presentemente ci conviene intenderlo) è quasi una cura ch'egli si prende [3110] di quelle persone su cui l'interesse cade. Or dunque il lettore trova inutile il darsi gran pensiero di quelli a' quali vede aversi bastante cura da altri. Il poeta e la fortuna da lui narrata fanno quello che avrebbe a fare il lettore interessandosi; essi medesimi provveggono al fortunato: il lettore non ha dunque niuna cagione di farlo egli, ei non desidera quello che gli è spontaneamente dato, quello ch'egli ottiene già senza darsene briga e sollecitudine. Per queste cagioni accade che poco e poco durevolmente c'interessi il fortunato, massime ne' poemi epici e ne' drammatici. Ed effettivamente oggidì i lettori della stessa Iliade, non essendo greci, o non s'interessano mai vivamente per li greci, i quali sanno già dovere uscir vittoriosi, o presto lasciano d'interessarsene. (1) Ma non bisogna dall'effetto che l'Iliade fa in noi, misurar quello ch'ei faceva nei greci, ai quali essa era destinata, nè per conseguenza l'arte del poeta che la compose, nè il pregio e valore del poema. [3111] L'altro interesse, cioè quello della compassione, non poteva Omero introdurlo nel suo poema in modo ch'ei si riferisse ad Achille o ai greci; non poteva, dico, per le suddette ragioni. Solamente poteva fare che la compassione si riferisse pur talvolta ai greci o a qualcuno di loro, come a soggetti secondarii e accidentalmente (qual è p.e. Patroclo), non come a soggetto primario della compassione, al qual soggetto tendessero tutte le fila del poema. Questo soggetto ei lo prese nella parte contraria alla greca, in quella parte alla quale doveva appartener la sventura, se alla greca doveva appartener la felicità. Egli scelse o finse tra' nemici un Eroe per così dir, di sventura, il quale fosse opposto all'Eroe della fortuna, e l'interesse del quale dovesse perpetuamente bilanciare e contrastare e accompagnare l'interesse dell'altro nell'animo de' lettori. Questo Eroe sfortunato ei lo fece inferiore di forze ad Achille, ed anche ad Aiace e a Diomede, perchè la superiorita delle forze doveva [3112] esser l'attributo e la lode principale della parte greca (lode ch'era ai tempi eroici la più grande); ma oltre che di forze eziandio lo fe' superiore a tutti gli altri greci e troiani, di coraggio e magnanimità lo fece pari allo stesso Achille, e nel rimanente ornandolo di qualità diverse da quelle di costui, lo venne però a far tale che tanto pesasse egli quanto questi. Somma pietà verso gli Dei, verso la patria, verso i parenti, somma affabilità, giovanezza, e viril bellezza sopra ogni altra (giacchè quella di Paride non era virile) della sua parte. Di più accortezza e destrezza nel maneggio della guerra e nel governo delle battaglie, vigilanza, provvidenza, cura degli amici, pazienza delle fatiche, arte di parlare ne' consigli pubblici o a' soldati, disprezzo d'ogni pericolo, l'onore stimato sopra ogni cosa, come quando ei ricusa di entrare nella città vedendosi venir sopra Achille, e dopo l'onore, la patria; costanza ec. ec. In somma com'egli aveva fatto in Achille un uomo [3113] sommamente ammirabile, così fece e volle fare in Ettore un eroe sommamente amabile. E come la vittoria riportata da Achille sopra l'invincibile Ettore, porta al colmo l'ammirazione per colui, così la sventura di Ettore mette il colmo alla sua amabilità e volge l'amore in compassione, la quale cadendo sopra un oggetto amabile è il colmo per così dire del sentimento amoroso. Molte sventure e di greci e di troiani si narrano o fingono nella Iliade, ma quella di Ettore è lo scopo del poema, ad essa tendono tutte le fila del medesimo niente meno e del paro che alla vittoria di Achille, e sempre unitamente: in essa il poema si chiude. Alle quali cose mirando il nostro Cesarotti, e giudicando che Ettore fosse il principal soggetto dell'interesse nella Iliade, e la sua sventura per se medesima il principale scopo ed assunto del poema, prosuntuosamente ne volle cangiare il titolo e intitolarlo la morte d'Ettore, stimando che Omero non avesse bene inteso se [3114] stesso e la sua propria intenzione quando ne' primi versi della Iliade annunziò espressamente un altro assunto. Nel che s'ingannò grandemente, per non aver mirato alla natura umana, alle qualità di que' tempi, alle circostanze di Omero (giacchè se oggi nell'Iliade l'unico, non che principale, interesse è per Ettore, non così fu anticamente, nè tale fu l'intenzione di Omero scrivendo ai greci), e per avere avuto l'occhio alle moderne opinioni circa l'unità dell'interesse e del soggetto principale. Ma come nell'intenzione di Omero l'unico interesse non dovette esser quello di Achille, nè l'unico soggetto e scopo la sua vittoria per se medesima, altrimenti egli non gli avrebbe posto incontro un tal Eroe qual fa Ettore; così neanche l'interesse d'Ettore dovette esser l'unico, nè la sua sventura per se medesima l'unico soggetto e scopo del poema. Doppio dovette essere secondo l'intenzione di Omero, e doppio infatti riuscì [3115] a' lettori o uditori greci l'interesse, lo scopo, e l'Eroe del poema. E qui si deve considerare il maraviglioso artifizio di Omero. Non solevasi a' tempi eroici, cioè quasi selvaggi, stimar gran fatto il nemico. L'odio che gli portava la parte contraria, quell'odio il quale faceva che ciascun soldato considerasse l'esercito o la nazione opposta come nemici suoi personali, e con questo sentimento combattesse, non lasciava luogo alla stima. E quando anche s'avesse cagione di stimare il nemico, ciascuno, come si fa de' nemici personali, cercava a tutto potere di deprimerlo sì nella propria immaginazione che presso gli altri, e ricusava di riconoscere in lui alcuna virtù. Non prevaleva nè si conosceva allora quella sentenza che la gloria di chi fortemente combatte e di chi vince è tanto maggiore quanto più forte e stimabile è il nemico e il vinto. Ma sebbene allora [3116] ciascuno amasse e cercasse la gloria sopra ogni altra cosa ed assai più che al presente, niuno si curava di accrescerla a costo del proprio odio verso il nimico, niuno sosteneva di aggrandire a' propri occhi o agli altrui il pregio della propria vittoria col considerare e render giustizia al valore della resistenza; ognuno preferiva di tenere anzi l'inimico per vile e codardo e tale rappresentarlo agli altri, perchè l'odio e la vendetta più si soddisfa e gode disprezzando il nimico e privandolo d'ogni qualsivoglia stima, che sforzandolo e vincendolo, e quasi piuttosto eleggerebbe di soccombergli che di lodarlo. Una tal disposizione offriva poche risorse, poca varietà, poco campo di passioni al poema epico. Omero ebbe l'arte di fare che i greci si contentassero di stimare il nemico che avevano vinto; e fece loro provare il piacere, a quei tempi ignoto o rarissimo, di vantarsi e compiacersi [3117] di una vittoria riportata sopra un nemico nobile e valoroso. Questo piacere fu veramente Omero che lo concepì, Omero che lo produsse; ei non era proprio de' tempi, non nasceva dalla maniera di pensare e dalle disposizioni di quegli uomini, ma nacque dalla poesia d'Omero; Omero per dir così ne fu l'inventore. Questo gli diede campo di moltiplicare e intrecciar gl'interessi, di variar le passioni e gli effetti cagionati dal suo poema nell'animo de' lettori. Come la stima, così la compassione verso il nimico, ancorchè vinto e virtuoso era impropria di quei tempi. (Vedi quello che altrove ho detto in proposito d'un'azione d'Enea appo Virgilio, dopo morto Pallante). Gli animi naturali non provano nella vittoria altro piacere che quello della vendetta. La compassione, anche generalmente parlando (cioè quella ancora che cade sulle persone non inimiche) nasce bensì, come di sopra ho detto, [3118] dall'egoismo, ed è un piacere, ma non è già propria nè degli animali nè degli uomini in natura, nè anche, se non di rado e scarsamente, degli animi ancora quasi incolti (quali erano i più a' tempi eroici). Questo piacere ha bisogno di una delicatezza e mobilità di sentimento o facoltà sensitiva, di una raffinatezza e pieghevolezza di egoismo, per cui egli possa come un serpente ripiegarsi fino ad applicarsi ad altri oggetti e persuadersi che tutta la sua azione sia rivolta sopra di loro, benchè realmente essa riverberi tutta ed operi in se stesso e a fine di se stesso, cioè nell'individuo che compatisce. Quindi è che anche nei tempi moderni e civili la compassione non è propria se non degli animi colti e dei naturalmente delicati e sensibili, cioè fini e vivi. Nelle campagne dove gli uomini sono pur meno corrotti che nelle città, rara, e poco intima e viva, e di poca efficacia e durata è la compassione. Ma lo spirito di Omero era certamente [3119] vivissimo e mobilissimo, e il sentimento delicatissimo e pieghevolissimo. Quindi egli provò il piacere della compassione, lo trovò, qual egli è, sommamente poetico, perocch'egli, oltre alla dolcezza, induce nell'animo un sentimento di propria nobiltà e singolarità che l'innalza e l'aggrandisce a' suoi occhi, vero e proprio effetto della poesia. Veggasi la p. 3167-8. e 3291-7. Volle dunque introdurlo nel suo poema, anzi farne l'uno de' principali fini del medesimo, l'uno de' principali piaceri prodotti dalla sua poesia. Volle accompagnar questo piacere e questo affetto con quello della maraviglia, affetto appartenente all'immaginazione e non al cuore, che fino a quel tempo era forse stato l'unico o il principal effetto della poesia. Volle che il suo poema operasse continuamente del pari e sulla immaginazione e sul cuore, e dall'una e dall'altra sua facoltà volle trarlo, cioè da quella d'immaginare e da quella di sentire. Questo suo intento è manifestissimo [3120] nel suo poema, più manifesto che appo gli altri poeti greci venuti a tempi più colti, più eziandio che ne' tragici appo i quali il terrore e la maraviglia prevalgono ordinariamente alla pietà, e spesso son soli, sempre tengono il primo luogo. Vedesi apertamente che Omero si compiace nelle scene compassionevoli, che se il soggetto e l'occasione gliene offrono, egli immediatamente le accetta, che altre ne introduce a bella posta e cercatamente (come l'abboccamento d'Ettore e Andromaca a introdurre il quale, e non ad altro, è destinata e ordinata quella improvvisa venuta d'Ettore in Troia, nel maggior fuoco della battaglia, e in tempo che può veramente parere inopportuno intempestivo e imprudente), e che nell'une e nell'altre ei non trascorre, ma ci si ferma e ci si diletta, e raccoglie tutte le circostanze che possono eccitare e accrescere la compassione, e le sminuzza, e le rappresenta con grandissima arte e intelligenza del cuore umano. E il soggetto di tutte [3121] queste scene dove l'animo de' lettori è sommamente interessato non sono altri che quegli stessi che Omero ha tolto a deprimere, i nemici de' greci ch'egli ha preso ad esaltare. Nè pertanto egli s'astiene dal volere a ogni modo far piangere sopra i troiani, e deplorare ai medesimi greci quelle sventure ch'essi avevano cagionate, del che egli nel tempo stesso sommamente li celebra. Grande, caro, artifiziosissimo e poetichissimo effetto dell'Iliade, che Omero ottenne col duplicare espressamente e l'interesse e lo scopo e l'Eroe, che non si poteva ottenere altrimenti, che fu tutto invenzione ed opera di Omero, voglio dir l'unione e l'armonia di questi due interessi e fini contrarii, e il pensiero d'introdurli ambedue nel suo poema, e sostenerli congiuntamente fino all'ultimo, facendoli camminar sempre del pari. Con che oltre all'avere raddoppiato l'effetto del suo poema, interessando per l'una parte l'immaginazione, per l'altra il cuore; [3122] oltre all'aver potuto congiungere l'interesse che deriva dalla virtù felice con quello che deriva dalla virtù sventurata (il che non si poteva fare se non dividendo i soggetti dell'una e dell'altra, perocchè accumulando l'una e l'altra in un soggetto solo e facendo che di sventurato divenisse felice, o di felice terminasse nella sventura, l'uno e l'altro interesse sarebbe stato imperfettissimo e debolissimo, e distruttivo l'uno dell'altro, per modo che finita la lettura, l'un solo di essi sarebbe rimasto, come accade p.e. nelle così dette, assurde tragedie, di lieto fine); (2) oltre, dico, all'aver potuto mettere in moto nel suo poema ambedue quegl'interessi che fortissimamente operano nell'uomo, e grandissimo piacere gli recano, e sono poetichissimi, cioè la maraviglia della virtù superante ogni ostacolo ed ottenente il suo fine, interesse che in quei tempi principalmente era di gran forza, e la compassione della somma virtù caduta in somma e non medicabile nè consolabile calamità; [3123] oltre tutto questo Omero ottenne di potere introdurre nel suo poema, un perpetuo contrasto di passioni contrarie continuamente operanti ne' lettori, continuamente equilibrantisi l'una l'altra, continuamente sottentranti e implicantisi e mescolantisi l'una nell'altra. Contrasto nato dalla duplicazione dell'interesse dello scopo e della persona principale, la qual duplicazione in virtù di questo perpetuo e perpetuamente sensibile contrasto, non solo raddoppia ma moltiplica più volte l'effetto e l'energia dell'Iliade nell'animo de' lettori, e la vivacità delle sensazioni, e il commovimento e l'agitazione dello spirito, propria operazione della poesia. Tali si furono le intenzioni di Omero, tale il mezzo e l'arte da lui adoperati per conseguirle, tale la vera natura, il vero carattere, il vero andamento del suo poema, la vera forma ch'egli ha e che l'autore volle dargli. Vediamo ora gli altri poeti epici e i loro poemi, e [3124] le regole dell'epopea che dopo Omero furono concepute e insegnate e poste e seguite. Videro tutti la necessità di far che l'Eroe e la impresa principale che si prendesse a lodare e a narrare nell'epopea riuscissero felicemente. Ciò fu dato per regola, e questa regola fu seguita da tutti. Massimamente che dietro l'esempio dell'Iliade (benchè l'Odissea somministrasse pure un esempio diverso) non fu stimato proprio soggetto di poema epico altro che imprese guerriere, nè d'altro genere d'Eroe fu creduto che l'epopea dovesse rappresentare il modello, se non che del gran Capitano. Onde parve tanto più necessaria la felicità nell'Eroe del poema e nell'impresa che ne fosse il soggetto, non giudicandosi degno d'epopea un Capitano vinto da' nemici nè una guerra perduta. Sin qui andava bene: ma v'era il grandissimo inconveniente che l'interesse che i lettori possono prendere per li fortunati, ancorchè virtuosi, è scarso, debole e breve, e non [3125] si può reggere pel corso d'un lungo poema, nè tutto, per così dire, animarlo e vivificarlo, nè anche sufficientemente animarne una sola parte. Mancando il contrasto fra la virtù e la fortuna, oltre che ne scapita la verità dell'imitazione, essendo pur troppo il vero che questo contrasto sussiste nel mondo ed è perpetuo, onde un virtuoso fortunato è soggetto quasi romanzesco, e toglie quasi fede al poema, e impedisce l'illusione, (3) (massime a' moderni tempi, perchè a quelli d'Omero era altra cosa); ne seguiva anche il pessimo effetto della freddezza, perchè il lettore non ha che interessarsi per la virtù, vedendola felice, ed ottener già quello che le conviene. Quindi è che ne' poemi epici posteriori ad Omero, l'Eroe e l'impresa felice nulla avrebbero interessato i lettori, se desso eroe, dessa impresa, dessa felicità non fossero in qualche modo appartenuti ai lettori medesimi, come Achille ec. ai greci. In verità un [3126] poema epico di lieto fine richiede necessariamente la qualità di poema nazionale; e per ciò che spetta e mira a esso fine, un poema epico non nazionale non può interessar niuno; nazionale, non può mai produrre un interesse universale nè perpetuo, ma solo nella nazione e per certe circostanze. L'Eneide fu dunque poema nazionale, e lasciando star tutti gli episodi e tutte le parti e allusioni che spettano alla storia ed alla gloria de' Romani, l'Eneide anche pel suo proprio soggetto potè produr ne' Romani il primo di quegl'interessi che abbiamo distinto in Omero, perocchè i Romani si credevano troiani di origine, sicchè la vittoria d'Enea consideravasi o poteva considerarsi da essi come un successo e una gloria avita, e ad essi appartenente, e da essi ereditata. Il soggetto della Lusiade fu nazionale, e di più moderno. Egli non poteva esser più felice quanto al produrre quel primo interesse di cui ragioniamo. Il soggetto dell'Enriade è affatto nazionale e la memoria di quell'Eroe era particolarmente cara ai francesi, onde la scelta dell'argomento in genere fu molto giudiziosa, massime ch'e' non era nè troppo antico nè troppo moderno, anzi quasi forse a quella stessa o poco diversa distanza a cui fu la guerra troiana da' tempi d'Omero. Il soggetto e l'eroe [3127] della Gerusalemme furono anche più che nazionali, e quindi anche più degni; e furono attissimi ad interessare. Dico più che nazionali, perchè non appartennero a una nazione sola, ma a molte ridotte in una da una medesima opinione, da un medesimo spirito, da una medesima professione, da un medesimo interesse circa quello che fu il soggetto del Goffredo. Dico tanto più degni, perchè essendo d'interesse più generale, rendevano il poema più che nazionale, senza però renderlo d'interesse universale, il che, trattandosi di quello interesse di cui ora discorriamo, tanto sarebbe a dire quanto di niuno interesse. Dico attissimi a interessare perchè quantunque fosse spento in quel secolo il fervore delle Crociate, durava però ancora generalmente ne' Cristiani uno spirito di sensibile odio contro i Turchi, quasi contro nemici della propria lor professione, perchè in quel tempo i Cristiani, ancorchè corrottissimi ne' costumi e divisi tra loro nella fede, consideravano per anche la fede Cristiana [3128] come cosa propria, e i nemici di lei come propri nemici ciascuno; e quindi non solo con odio spirituale e per amor di Dio, ma con odio umano, con passione per così dir, carnale e sensibile, per proprio rispetto, e per inclinazione odiavano i maomettani non che il maomettanesimo. E la liberazione del sepolcro di Cristo era cosa di che allora tutti s'interessavano, siccome in questi ultimi tempi, della distruzione della pirateria Tunisina e Algerina, benchè questa e quella fossero più nel desiderio che nella speranza, o certo più desiderate che probabili: aggiunta però di più la differenza de' tempi, perocchè nel cinquecento le inclinazioni e le opinioni e i desiderii pubblici erano molto più manifesti, decisi, vivi, forti e costanti ch'e' non possono essere in questo secolo. Siccome nel 300 il Petrarca (Canz. O aspettata), così nel 500 tutti gli uomini dotti esercitavano il loro ingegno nell'esortare o con orazioni o con lettere o con poesie pubblicate per le stampe, le nazioni e i principi d'Europa [3129]a deporre le differenze scambievoli e collegarsi insieme per liberar da' cani (4) il Sepolcro, e distruggere il nemico de' Cristiani, e vendicar le ingiurie e i danni ricevutine. Questo era in quel secolo il voto generale così delle persone colte ancorchè non dotte, come ancora, se non de' gabinetti, certo di tutti i privati politici, che in quel secolo di molta libertà della voce e della stampa, massimamente in Italia, non eran pochi; (5) e di questo voto si faceva continuamente materia alle scritture e allusioni digressioni ec. e di quel progetto o sogno che vogliam dire si riscaldava l'immaginazione de' poeti e de' prosatori, e se ne traeva l'ispirazione dello scrivere. Niente meno che fosse nell'ultimo secolo della libertà della Grecia fino ad Alessandro, il desiderio, il voto, il progetto di tutti i savi greci la concordia di quelle repubbliche, l'alleanza loro e la guerra contro il gran re, e contro il barbaro impero persiano perpetuo nemico del nome greco. E come Isocrate [3130] per conseguir questo fine s'indirizzava colle sue studiatissime ed epidittiche, scritte e non recitate orazioni ora agli Ateniesi (nel Panegirico, e v. l'Oraz. a Filippo, ediz. sopra cit. p. 260-1.) ora a Filippo, secondo ch'ei giudicava questo o quelli più capaci di volerlo ascoltare, e più atti a concordare e pacificar la Grecia e capitanarla contro i Barbari, così nel 500. lo Speroni s'indirizzava pel detto effetto con una lavoratissima orazione stampata e non recitata nè da recitarsi, a Filippo II di Spagna, ed altri ad altri, secondo i tempi e le occasioni. Ma tutto indarno, non come accadde ai greci, il cui voto fu adempiuto da Alessandro, mosso fra l'altre cose, come è fama (v. Eliano Var. l.13. e ὑπόϑες. τοῦ πρὸς Φίλιπ. λόγου), dall'orazione appunto che Isocrate n'avea scritto a Filippo suo padre, l'uno e l'altro già morti. Or considerate queste circostanze si trova veramente savissima, opportunissima, nobilissima la scelta fatta dal Tasso, e degna di quel grand'animo, che seppe concepire nientemeno [3131]che un poema europeo (qual fu il Goffredo non meno per l'argomento che per gli altri pregi), dove la generalità dell'interesse non pregiudicasse (ch'è pur sì difficile e raro) alla vivacità e forza del medesimo. (6) E in vero se dalla estensione dell'interesse si deve misurare, almeno in qualche parte, il pregio d'un poema, anzi d'ogni scrittura, niun poema epico in questa parte nè vinse nè agguagliò la Gerusalemme; siccome ancora, secondo le opinioni di que' tempi, ne' quali ci dobbiamo riporre coll'intelletto, niun poeta epico si propose mai scopo più nobile nè più degno nè più magnanimo che il Tasso, il quale intese col suo poema di contribuir più che tutti gli altri scrittori insieme, ad eccitare i principi Cristiani a quella sacra e generosa guerra ec. coll'esempio e la lode di quelli che l'avevano intrapresa e valorosamente operata e felicemente terminata. (Puoi vedere per meglio conoscere le opinioni e i sentimenti [3132] dell'Europa cristiana verso l'impero turco nel 500, la B. G. del Fabricio, t. 13., p. 500-6.) (7) Molto ragionevolmente adunque i sopraddetti poeti (per non parlare degli altri, come di Voltaire e di Ercilla autore dell'Araucana, e del Trissino ec.) scelsero ai loro poemi argomento nazionale, senza la qual circostanza (largamente però intendendo la parola nazionale, come p.e. circa la Gerusalemme) è assolutamente impossibile dare alcuno interesse a un poema epico che abbia e serbi la unità, com'ella oggi s'intende. Ed è perciò ben poco lodevole l'assunto di quel moderno che volle dare all'Italia una nuova Gerusalemme. (Arici, Gerusal. distrutta). Ma l'interesse che nasce dalla virtù felice è, come ho detto, sempre debole anche in un soggetto nazionale, e soffre moltissimi inconvenienti, massime in tempi così diversi da quelli di Omero, come sono i moderni, e come furono quei di Virgilio che in molte parti si rassomigliano ai presenti. 1. Tutte quelle speciali circostanze che ne' tempi antichissimi rendevano singolarmente pregevole [3133] la felicità, e cagione di stima per se medesima, perirono ben tosto, ed altre contrarie ne sottentrarono che produssero e producono contrario effetto, e sempre lo produrranno, perchè queste seconde circostanze non sono per passar mai. 2. È così falso, (8) o per lo meno straordinario, che la virtù sia compagna della fortuna, che un virtuoso fortunato, un meritevole che ottiene il suo merito (e tanto più s'egli è straordinariamente meritevole, se la sua virtù è veramente singolare, il che oggi sommamente nuoce) eccede quasi quel grado di singolarità e rarità che è compatibile colla credibilità, colla illusione, coll'immedesimarsi che dee fare il lettore ne' casi e ne' personaggi narrati dal poeta, con quella cotal somiglianza che il lettore dee pur trovare tra quei casi e i presenti, tra quelle persone e se stesso; deve, dico, trovarla per qualche parte, a voler ch'ei ci provi interesse. Di questo inconveniente ho già detto di sopra. (9) Esso ancora non è mai per passare, anzi cresce e crescerà, si conferma e confermerassi ogni dì maggiormente. [3134] 3. E ciò tanto più, quanto l'idea che noi abbiamo della virtù è ben diversa da quella che s'aveva a' tempi d'Omero. La virtù qual suol essere concepita dai moderni ha la fortuna assai più nemica, che non quella virtù concepita dagli antichissimi, la quale consisteva quasi tutta o principalmente nella forza e nel coraggio; qualità che, se non sempre, certo assai spesso son seguite (anche oggidì) dalla fortuna, e molto giovano a conseguirla. Ond'era tanto più ragionevole e conveniente che a quei tempi l'eroe del poema epico, il quale dev'esser sommamente virtuoso, si scegliesse felice, perchè quella virtù in ch'ei si doveva rappresentare eccellente, conduce infatti alla felicità, e il mostrar ch'ella non avesse conseguito il proprio intento, l'avrebbe mostrata imperfetta, come quella che non era bastata a produrre quel ch'ella suole, e a che ella naturalmente serve e conduce. Massime che gli uomini sogliono giudicar dai successi, [3135] ed estimare assolutamente la natura, le qualità, il grado, il valore e la propria bontà delle cose dai loro effetti. Ma la virtù modernamente considerata, è per sua stessa natura, non solo non conducente, ma pregiudizievole alla fortuna. Questo discorso ha massimamente luogo ne' tempi più moderni, in che l'idee morali, e per cagione del Cristianesimo e per altro, sono più raffinate, e sempre più tanto si raffinano quanto più divengono inutili, e tanto si perfezionano e sottilizzano in teoria, quanto si vanno segregando affatto dalla pratica. Ma proporzionatamente le dette considerazioni sono anche applicabilissime ai tempi di Virgilio; e in fatti la virtù di Enea è immensamente diversa da quella di Achille, e il tipo di perfetto eroe concepito e voluto esprimere da Virgilio fu diversissimo, e in buona parte contrario, a quello di Omero. 4. Oggi l'amor patrio e nazionale è quasi nullo. Anche ne' romani al tempo di [3136] Virgilio esso era abbastanza raffreddato perchè quasi niun di loro considerasse più la sua patria come cosa individualmente sua propria. Il che appunto facevano i più antichi, e come questo cagionava l'entusiasmo che ciascun d'essi manifestava nell'operare per la patria, così produceva il grande interesse che ciascuno pigliava alle glorie d'essa patria cantate dai poeti. Questo spirito non si trovava più ne' Romani, e però non potè essere se non mediocre in esso loro l'interesse verso le vittorie e le lodi di remotissimi loro antenati, che oltracciò portarono un nome diverso dal loro. (troiani). Omero cantò ai greci liberi, e Virgilio ai Romani, dopo lunghissima e ferocissima libertà fatti sudditi, e di più pacificamente tiranneggiati, perchè quello fu quasi il più pacifico tempo dell'imperio romano, e in ch'essi meno pensarono a libertà e meno si dolsero del giogo. Delle nazioni moderne poi, nulla dirò. Parlino i fatti; e se ne deduca quanto vivo e [3137] durabile interesse possa cagionare in un'epopea la nazionalità dell'impresa e dell'Eroe. Quando non esiste quasi nazionalità nelle nazioni. Ciò vale sopra tutto per l'Italia. 5. Finalmente l'interesse che può produrre in un poema epico un Eroe ed un'impresa nazionale felice, nè può, come è chiaro, riuscire universale, nè anche può essere perpetuo, come più sotto si mostrerà cogli esempi. Unico interesse che possa in un'epopea riuscire universale e per luogo e per tempo, cioè comune a tutte le nazioni e a tutti i secoli, si è quello che nasce dalla sventura, e più dalla virtù sventurata, dalla beltà, dalla giovanezza e anche dal valor militare personale sventurato. E questo altresì può solo esser vivissimo, e durare in chi legge per tutto il corso della lettura, e perseverare nel suo animo lungo tempo di poi, come pungolo lasciato nella piaga. Ma l'unico modo che v'aveva d'introdurre questo interesse nel poema epico, quello, dico, usato da Omero nell'Iliade, cioè di duplicare onninamente l'Eroe, l'interesse e lo scopo poetico di tutta l'epopea, non solamente [3138] dagli Epici posteriori ad Omero non fu voluto abbracciare, ma fu sopra tutte l'altre cose fuggito, come quello che dirittamente avrebbe esclusa quella unità d'interesse, di scopo e d'Eroe, che quei poeti e i Dottori de' loro tempi e de' nostri, davano per primaria e supremamente indispensabile qualità del poema epico: la unità, dico, non quale è quella della Iliade, dalla quale pur furono tratte le regole, le norme e il tipo dell'epopea, ma quale i posteriori ingegni metafisicamente sottilizzando, e troppo artisticamente e strettamente considerando, la concepirono, determinarono e prescrissero. Ond'è che quantunque in ciascuno de' nominati poemi epici v'abbiano molte sventure cantate, ed avendovi una parte vittoriosa e felice, v'abbia altresì necessariamente una parte soccombente e sfortunata, si guardarono però bene tutti i detti poeti di farci piangere sopra questa sventura, come aveva fatto Omero; e di condurre il poema in modo che [3139] all'ultimo la vittoria della parte avventurosa, benchè sempre desiderata e allora applaudita dal lettore, fosse nel tempo medesimo cordialmente da lui pianta e lagrimata, destandosi così nel suo animo sì pel corso del poema, sì massimamente nel fine, e durando in esso dopo la lettura quel vivo contrasto di passioni e di sentimenti, quella mescolanza di dolore e di gioia e d'altri similmente contrarii affetti che dà sommo risalto agli uni e agli altri, e ne moltiplica le forze, e cagiona nell'animo de' lettori una tempesta, un impeto, un quasi gorgogliamento di passioni che lascia durevoli vestigi di se, e in cui principalmente consiste il diletto che si riceve dalla poesia, la quale ci dee sommamente muovere e agitare e non già lasciar l'animo nostro in riposo e in calma. Questi mirabili effetti li produsse divinamente la Iliade, costringendo gli uditori greci a piangere sulla morte e sui funerali di Ettore ucciso dalle armi de' loro [3140] maggiori, in guerra, per loro, giusta, e con giusta causa (cioè la vendetta di Patroclo), e a mescolare i loro lamenti con quelli di Andromaca e della desolata città nemica, già vicina all'ultima calamità, che, per così dire, le loro proprie armi o i loro proprii eserciti gli avevano infatti recata. Sublimissimo effetto concepito, disegnato e prodotto da Omero in tempi feroci e semibarbari, e non saputo concepire nè produrre da verun altro epico in tempi civili. Perocchè temendo di raddoppiar l'interesse, (ch'era appunto ciò che avevano a fare, e senza il che non era possibile quel divino effetto), evitarono espressamente e studiosamente di fare in modo che la parte nemica o alcun personaggio di essa riuscisse più che tanto virtuoso o per qualunque lato interessante sino al fine. E maggiormente si guardarono di sempre ugualmente condurre e in ultimo annodare le fila della loro epopea tanto all'esito [3141] dell'Eroe vittorioso quanto a quello di un altro Eroe a lui per molti lati pari e seco lui compensabile e comparabile ma soccombente. Come fece Omero, perchè nell'Iliade Ettore è, e fu voluto rappresentare, espressamente comparabile ad Achille. Turno non occupa se non pochissima parte dell'Eneide, e riesce così poco interessante che certo la sua sventura e morte non ha mai tratto ad alcuno un sospiro. Gli Eroi de' Barbari nella Gerusalemme sono appostatamente più d'uno e di ugualissimo pregio, (10) sicchè l'interesse non si determina per alcuno di loro, nè della loro morte o calamità niuno si compiange, nè a veruna di queste morti o calamità tendono le fila del poema. Di più il Tasso, stante lo spirito del suo tempo, e stante che in quel caso pareva che la Religione interdicesse, come suole, e confondesse colla empietà l'imparzialità, non potè a meno di rappresentare con tratti odiosi (in alcuno più in altri manco, ma generalmente, e massime in Solimano ed Argante, odiosi), i nemici de' Cristiani. Quindi nella presa di Gerusalemme niuno sente per niun modo la sventura e il disastro di quella città infedele, nè [3142]la presa è descritta o narrata con intenzione di muovere a compatimento, nè in maniera da poterne mai cagionare nè meno a caso. Altrettanto dicasi delle sconfitte degli eserciti maomettani o pagani. E similmente si discorra dell'altre moderne epopee. Non è già che Virgilio e gli altri volessero e intendessero spogliare affatto d'ogni valore, d'ogni virtù, d'ogni pregio la parte contraria alla vincitrice. Anzi intendendosi a' tempi loro meglio che a' tempi d'Omero, che tanto più si loda colui che vince non per caso ma per virtù, quanto s'amplifica quella del vinto, non lasciarono di volere espressamente rappresentare virtuosi in molte parti e degni di stima e lodevoli anche i nemici, sì tutti insieme, come parecchi distinti personaggi del loro numero. Ma ciò facendo, intentissimamente evitarono che l'interesse pe' nemici o per alcuno de' medesimi non giungesse di gran lunga a pareggiare quello che volevano ispirare ai lettori verso la parte e l'Eroe vittoriosi. Nel che riuscirono ottimamente, anzi al di là della loro intenzione, perchè laddove essi vollero pur [3143] comunicare alcun poco d'interesse a questo o quel personaggio nemico o alla parte inimica, niuno gliene comunicarono. Queste sono le forme di poema epico, e queste le regole e il processo seguiti e adoperati dall'una parte da Omero, dall'altra parte dai poeti epici che, per dir così, da lui nacquero. Comparate così le forme, l'idea, e se così vogliamo dire, le cagioni, e le intenzioni de' poeti, consideriamo ora generalmente e paragoniamo i rispettivi effetti. Nell'Iliade oggidì l'interesse per Achille e per li greci, come ho detto, è poco o niuno, perchè i suoi lettori non sono più greci. Nondimeno l'interesse nell'Iliade è vivissimo continuo e durevole eziandio dopo la lettura. Esso è per Ettore e per li troiani. I lettori di qualsivoglia nazione, dopo tanti secoli, dopo tanti cangiamenti sofferti dallo spirito umano, tutti efficacemente e continuamente s'interessano leggendo la Iliade. E tutti non per altri che per li troiani e per Ettore, cioè per la sventura; e questo interesse [3144] si riduce principalmente e come a suo capo alla compassione. Questa cioè è quel sentimento dominante e finale, che noi nella Iliade provando, chiamiamo interesse della medesima. Le quali cose mossero il Cesarotti a intitolar quel poema, come ho detto, La Morte d'Ettore, misurando l'indole e l'intento primitivo, proprio e vero del poema dall'effetto ch'ei produce sopra di noi in tanta diversità e lontananza di tempo, di nazione, di opinioni, di carattere e di costumi. Nell'Eneide l'interesse della compassione non v'è. Dico non v'è, come interesse finale. Quello che si concepisce per Didone, quello per Niso ed Eurialo sono interessi episodici che non ci accompagnano se non per piccola parte del poema, nè hanno che fare colla sostanza e collo scopo di esso, talmente che possono affatto risecarsi senza che la testura nè il principale e finale effetto del poema per nulla se ne risentano o ne siano cangiati. L'interesse per l'Eroe felice, cioè per Enea, e per la parte felice, cioè per li troiani, dovette esser mediocre anche a principio, [3145] come di sopra ho mostrato, ed ora è più che mediocre. E ciò, non ostante che il lettore di Virgilio non possa quasi a meno di trasferire o di continuare ne' fortunati troiani dell'Eneide quell'interesse ch'egli ha conceputo per gli sfortunati e vinti troiani della Iliade. Perocchè egli è certissimo che l'Iliade oltre all'aver partorito l'Eneide, oltre all'averla nutrita e cresciuta, per dir così, del suo proprio latte, (voglio dire averle somministrato l'argomento e i materiali in gran parte, o datogliene l'occasione, e d'altronde averle porto i mezzi e i modi di trattarla, e gli ornamenti ec. cioè il modello, e le immagini, e le forme delle invenzioni, dell'ordine, dello stile poetico ec.) la sostiene e l'aiuta anche oggidì, comunicandole parte del suo proprio interesse, riscaldandola del suo fuoco, e riverberandosi sulla Eneide e in essa influendo e derivandosi e quasi irrigandola gli affetti che la lettura o la notizia della Iliade inspirò. Laonde se la Eneide, quanto al suo principal soggetto ispira alcuno interesse, egli è pur da notare che grande e forse la massima parte di esso, non a lei propriamente appartiene, ma le vien di fuori, e l'è totalmente accidentale ed estrinseco, non interiore ed essenziale, nè in essa [3146] nasce ma altrove ed anteriormente nacque. Il che non si deve confondere col proprio e nativo interesse dell'Eneide. (11) La Lusiade avrà certo interessato ed interesserà forse anche oggidì i lettori portoghesi, nè si può bastantemente lodare lo sfortunato Camoens per l'avere scelto un soggetto così strettamente nazionale, e di più per l'aver saputo adattare e far materia di poema epico un argomento allora modernissimo, qualità che per l'una parte produce estreme difficoltà le quali a molti sono sembrate in un poema epico insuperabili, e per l'altra sommamente contribuirebbe a produrre o singolarmente accrescere l'interesse d'un'epopea, come ancora di un dramma e di qualsivoglia poesia. Ma per li lettori dell'altre nazioni non so quanto nella Lusiade possa essere l'interesse, nè se ne' medesimi portoghesi, mancata la recente memoria di quelle imprese, e raffreddato, come per tutta l'Europa, l'amor nazionale e gli altri sentimenti magnanimi, la Lusiade produca per ancora un interesse abbastanza [3147] vivo, continuo e durabile. Quello spirito dell'Italia e dell'Europa Cristiana verso gl'infedeli (e, diciamolo ancora, verso il Cristianesimo) che disopra ho descritto, che regnò al tempo del Tasso e ne' precedenti, che in lui ancora grandemente potè, che ispirò e produsse la Gerusalemme, è totalmente sparito e perduto, e le nostre condizioni a questo riguardo sono affatto cangiate in tutta l'Europa. Nullo è dunque oggidì l'interesse della Gerusalemme. Dico che la Gerusalemme non ha più realmente veruno interesse finale e principale, cioè non ispira più quell'interesse ch'ella principalmente e per istituto si propone d'ispirare; perocchè esso non ha più luogo negli animi de' lettori, affatto cangiati come sono, nè può più nascere in alcuno quell'interesse, essendo mutate e quasi volte in contrario le circostanze. Benchè certo la Gerusalemme al suo tempo ispirò moltissimo interesse, e forse maggiore che l'Eneide al tempo suo, ed oltre di questo universale nelle colte nazioni, [3148] dove quello dell'Eneide non potè esser che nazionale. Nè certo la Gerusalemme mancò del suo fine. Ma ora non per tanto non può più produrlo. Interessi però episodici e non finali ve n'hanno molti nella Gerusalemme. V'ha quello di Olindo e Sofronia e nasce dalla sventura. V'ha quello di Erminia, quello di Clorinda, e nascono dalla sventura. V'ha quello del Danese, e nasce dalla sventura, e, quel ch'è notabile, da sventura toccante alla stessa parte che aveva a riuscir vittoriosa e fortunata, cioè a dire alla Cristiana. Colla quale occasione è da considerare la bella e straordinaria facoltà che concedeva al Tasso lo spirito del suo tempo, cioè di congiungere la compassione alla felicità, di far nascere questa da quella, di salvar l'estrema unità che si esigeva ne' poemi epici pigliando un Eroe felice e facendolo non per tanto compassionevole. Alleanza impossibile anticamente, difficile e di poco buono effetto oggidì. Ma le opinioni Cristiane (che al suo tempo fiorivano) riponendo [3149] la felicità propria dell'uomo nell'altra vita, facendola indipendente da quella di questo mondo, considerando le sventure temporali come vantaggi e reali fortune, insegnando massimamente esser felicissimo chi soffre per la giustizia e per la fede e per Dio, e più chi muore per loro amore e cagione, davano luogo al Tasso di rappresentare come felice e come giunto al suo desiderio e scopo un personaggio, il quale, facendolo temporalmente sventurato e nelle sventure magnanimo ec., poteva pur fare sommamente compassionevole e tenero. Nè altrimenti egli si governò circa il Danese, il quale ei non diede già per infelice, ma per felicissimo veramente, essendo morto, e generosamente morto per Dio, e nel tempo stesso il volle fare e il fece oggetto di compassione e di tenerezza per la temporale sventura e per questa morte fortemente incontrata e sostenuta. Ma ei non si volle prevalere di tal facoltà nè di tali opinioni e disposizioni del suo tempo, se non quanto a personaggi secondarii (come questo e Dudone) [3150] e in episodii; e l'eroe principale volle farlo felice non solo eternamente ma temporalmente altresì, e la principale impresa volle che bene uscisse non pure secondo il cielo, ma eziandio secondo la terra. Nel che non m'ardisco però di riprendere il suo giudizio, nè so biasimarlo s'ei credette che i dogmi metafisici (e poco conformi, anzi contrarii alla natura e che troppa forza le fanno) non dovessero gran fatto influire sulla poesia, nè potessero molto giovare a produr con essa un buono, bello e splendido effetto. Siccome essi poco veramente influivano, anche al suo tempo, sopra le azioni e le quasi secondarie opinioni degli uomini; nè valsero in alcun tempo a cangiare la natura umana, alla quale dee mirare in ogni tempo il poeta. In verità due sorti di opinioni e di dogmi, l'una dall'altra distinta, e che quasi nulla comunicavano insieme, tenevano all'età del Tasso e ne' secoli a lei precedenti gl'intelletti degli uomini. L'una Cristiana, l'altra naturale; quella quasi del tutto inefficace [3151] e inattiva, la cui forza non si stendeva fuori dell'intelletto e ne' termini di questo si restringeva la sua esistenza; l'altra efficace attiva che dall'intelletto stendevasi a influire e muovere la volontà, e governare le operazioni e la vita. Perocchè gli uomini sono sempre mossi dalle opinioni, nè altro che le opinioni può cagionare le loro azioni volontarie, nè v'ha opera umana volontaria che dalla opinione, ossia giudizio dell'intelletto, non derivi. Ma l'intelletto umano è capace di contenere al tempo stesso opinioni e dogmi dirittamente fra se contrarii, e di contenerli conoscendone la scambievole, inconciliabile contrarietà, come accadeva ai detti tempi. Ben diversi dalla primissima età del Cristianesimo, quando un solo genere di opinioni regnava negli animi, cioè quelle della religione, ed era efficace, e stendevasi alla volontà ed al reggimento delle azioni interiori ed esteriori, e della vita. Ma questo durò assai meno di quel che può credere [3152] chi non conosce la storia ecclesiastica, o chi non ci ha riflettuto, o chi in essa si lascia imporre dai nomi, e dal linguaggio tenuto in narrarla. Durò pochissimo, o, se non altro, divenne in breve assai raro. Del resto egli è duopo distinguere in ciascuna età, nazione, individuo le opinioni efficaci dalle inefficaci che nell'intelletto puramente si restringono. Quelle talor possono servire alla poesia, talora non possono (come le presenti, e vedi la pag. 2944-6.), talor più, talora meno; queste sempre pochissimo o nulla. Parlo delle opinioni che in se hanno relazione alla pratica e al governo della vita, non dell'altre, che son fuori del mio discorso. P.e. quelle opinioni, illusioni ec. antiche o moderne che derivando dalla immaginazione o dall'esperienza ec. persuasero e occuparono, o persuadono ec. l'intelletto, e nondimeno, non avendo nulla che far colla pratica della vita per lor natura, non influiscono sulla volontà, e sono inefficaci, e queste possono però, ed anche grandemente, servire alla poesia. Da questa digressione, non aliena, cred'io, dal proposito, tornando in via, ci resta a considerare come sia strano e quasi assurdo che Omero in tempi feroci abbia tanto fatto giuocare la compassione nel suo poema, n'abbia fatto un interesse principale e finale, abbia seguito e ottenuto il suo intento in modo che anche oggidì, mancato l'altro interesse all'Iliade, non si può forse tuttavia legger cosa che [3153] tanto interessi, non avesse riguardo di far cadere ed esaggerare la compassione quasi unicamente sopra i nemici de' greci suoi compatriotti, a' quali scriveva, i quali non istimavano gran fatto la generosità verso il nemico, anzi apprezzavano la qualità opposta; e che i poeti moderni abbiano fatto ed espressamente esclusa la compassione dal grado d'interesse finale, abbiano per lo più evitato di farne cader più che tanta sopra i nemici della parte e dell'Eroe da lor presi a lodare (la compassione per Clorinda nella Gerusalemme non dava scrupolo al Tasso perch'ei la fa morir convertita, e nel medesimo canto la scuopre per cristiana di genitori e di nazione; sì ch'ella cade in ultimo, secondo l'intenzione finale del poeta, sopra una Cristiana), ec. ec. In verità egli sarebbe stato credibile, e certo egli avrebbe dovuto accadere, tutto l'opposto. 1. Quella raffinatezza dell'amor proprio e della facoltà di sentire, la quale è necessaria perchè la compassione trovi luogo nell'animo umano, [3154] la produce, e seco il piacere ch'altri ne gusta non fu in alcun modo propria de' tempi d'Omero, e proprissima di quelli di Virgilio e de' moderni, perocch'ella nasce dalla civiltà. Parlo qui della compassione inefficace, qual è quella che si prova leggendo un poema, e che spesso e facilmente ha luogo negli animi civili, massime destandovela lo charme e l'artifizio della poesia, e degli abili prosatori. La compassione efficace la qual ci muove a sovvenire alle miserie altrui, nasce anch'essa dalla detta raffinatezza, e quindi dalla civiltà, ma richiede una raffinatezza maggiore di quella che la civiltà soglia ordinariamente produrre e produca nel comune degli uomini, e una facoltà naturale di sentire maggior dell'ordinaria, e quindi ella è e fu in ogni tempo ben rara. 2. Poco ai tempi d'Omero valeva ed operava quello che negli uomini si chiama cuore, moltissimo l'immaginazione. Oggi per lo contrario (e così a' tempi di Virgilio) l'immaginazione [3155] è generalmente sopita, agghiacciata, intorpidita, estinta; difficilissimo è ravvivarla anche al gran poeta, il quale altresì difficilmente può esser oggi gagliardamente ispirato dalla immaginativa, ed esser grande per quella parte che propriamente spetta all'immaginazione e per ciò che da lei deriva, come furono Omero e Dante. Se l'animo degli uomini colti è ancor capace d'alcuna impressione, d'alcun sentimento vivo, sublime e poetico, questo appartien propriamente al cuore. Ed infatti oggidì appresso gli altri poeti di verso e di prosa, il cuore è sottentrato universalmente e quasi del tutto all'immaginazione, quello gl'ispira, quello essi mirano a commuovere, e su quello realmente operano sempre ch'ei sono atti a riuscire nel loro intento. I poeti d'immaginazione oggidì, manifestano sempre lo stento e lo sforzo e la ricerca, e siccome non fu la immaginazione che li mosse a poetare, ma essi che si espressero dal cervello e dall'ingegno, [3156] e si crearono e fabbricarono una immaginazione artefatta, così di rado o non mai riescono a risuscitare e riaccendere la vera immaginazione, già morta, nell'animo de' lettori, e non fanno alcun buono effetto. Così dico di quelle parti che ne' moderni scrittori sono di pura immaginazione. Lord Byron è un'eccezione di regola, forse unica, per se stesso. V. p. 3477. Quanto all'effetto delle sue poesie sopra i lettori, dubito ch'elle debbano essere eccettuate dal numero delle altre poesie d'immaginazione. V. p. 3821. L'animo nostro è troppo diverso dal suo. Male ei ci può restituire quella immaginativa ch'egli ha conservata, ma che noi abbiamo per sempre perduta. (12) Ora tra i poeti epici egli è pure strano che Omero antichissimo abbia tanto mirato al cuore, e che Virgilio e i moderni non si sieno proposti per oggetto finale ed essenziale de' loro poemi che di muovere l'immaginazione. Perocchè il soggetto essenziale e unico principale de' loro poemi si è un Eroe felice e un'impresa felicemente [3157] terminata. Ora la felicità non vale che per la maraviglia, la quale spetta all'immaginazione e nulla al cuore. Tanto possono fare errare i più grandi spiriti le regole e l'arte, e tanto nascondere la natura dell'uomo, de' tempi, delle cose, traviarli dal vero, travisar loro e occultare il proprio scopo e la propria essenza di quelle cose medesime ch'essi intraprendono ed alle quali esse regole appartengono. 3. Le idee, i principii di generosità, di equità, di umanità, di beneficenza verso il nemico sì ne' giudizi sì ne' sentimenti sì nelle azioni, nacquero, si può dir, dopo Omero, mitigati che furono i ferocissimi e implacabili ed eterni odi nazionali, proprii degli uomini ancor vicini a natura. (13) Essi principii sono massimamente comuni ed efficaci ne' tempi moderni, ne' quali non vi possono avere odi nazionali, non avendovi quasi nazioni, e niuno individuo considera, come anticamente, per nemici personali quelli della nazione, i quali altresì ed effettivamente nol sono nè per sentimento nè per fatto, ma nemici [3158] solamente del suo re ec. Anzi i detti principii oggi degenerano in totale indifferenza verso il nemico della nazione, la qual porta a non distinguerlo quasi affatto dall'amico. Or non è egli maraviglioso che il poema d'Omero sia cento volte più imparziale e generoso verso i nemici della sua propria nazione, che non sono i poemi moderni verso la parte contraria a quella ch'in essi si celebra? e tanto che volendo nella Iliade investigare i proprii sentimenti del poeta, e non mirando se non se all'espressione di questi, appena si potrebbe oggi distinguere se Omero fosse greco o troiano, o d'una terza nazione, e in quest'ultimo caso, per qual di quelle due fosse più propenso nel suo animo. 4. Oggi, come ho già detto, e proporzionatamente eziandio a' tempi di Virgilio, si può dir che più non esista interesse pubblico, se non in quei pochi che le cose pubbliche amministrano, e che il pubblico rappresentano, [3159] anzi, si può dir, lo compongono e costituiscono. Ed è ben cosa ragionevole e consentanea che l'interesse pubblico negli altri più non esista (e chi governa non legge poemi). Ora dunque i poemi il cui soggetto non è che qualche felicità e gloria nazionale, poco possono oggidì interessare, o certo assai meno che a' tempi d'Omero. Ma la sventura, e massime degl'immeritevoli, è sempre dell'interesse privato di ciascheduno uomo. Niuno è che non si stimi infelice e conseguentemente nol sia, e niuno è parimente che non si reputi immeritevole della infelicità ch'ei sostiene. Queste disposizioni benchè comuni a tutti i tempi, sono massimamente sensibili oggidì, poichè per le circostanze politiche la vita non ha più come vivamente occuparsi e distrarsi, e d'altronde il lume della filosofia dissipa ben tosto, o soffoca nel nascere, o impedisce del tutto qualunque illusione di felicità. Quindi eziandio indipendentemente dalla compassione, egli era [3160] tanto più conveniente oggidì che a' tempi d'Omero il far molto giuocare ne' poemi epici le sventure degli uomini, quanto che oggi il sentimento della infelicità nelle nazioni civili è più vivo che fosse mai nel genere umano, ed è il sentimento e il pensiero per così dir dominante, da cui niuno oramai trova più come distrarsi. E la infelicità individuale degli uomini è, per così dire, il carattere o il segno di questo secolo. Tutto al contrario di quel d'Omero, il quale forse godette di quella maggior felicità o minore infelicità che possa godersi dall'uomo nello stato sociale, e che sempre risulta dalla grande attività della vita e dalle grandi e forti illusioni, cose proprissime di quel tempo, massime nella Grecia. Or dunque oggidì le sventure cantate da' poeti, non possono non interessar grandemente, e più che in ogni altro tempo, e tutti; essendo il sentimento della propria sventura l'universale e più continuo sentimento degli uomini d'oggidì, ed amando naturalmente gli uomini di parlare e [3161] udir parlare delle cose proprie, e riguardando ciascheduno la infelicità come propria sua cosa, e dilettandosi gli uomini singolarmente di quelli che loro più si assomigliano, nè potendosi trovar somiglianza più universale che quella della infelicità, e compiacendosi ciascheduno di vedere in altrui o di legger ne' poeti i suoi propri sentimenti, e contando per somma ventura ogni volta ch'egli incontra o nella vita o ne' libri qualche notabile conformità o di casi o di circostanze o di opinioni o di carattere o di pensieri o d'inclinazioni o di modi o di vita e abitudini, colle sue proprie; e consolandosi ciascheduno delle sue sventure coll'esempio vivamente rappresentato, e più col vederle quasi celebrate e piante in altrui (e ciò in soggetto e circostanze e persone e avvenimenti illustri, come son quelli cantati ne' poemi epici), innalzando il concetto di se stesso quasi il canto del poeta avesse per soggetto la di lui stessa infelicità, ed intenerendosi nella lettura quasi sui proprii mali. Chè in verità qualora leggendo i poeti (versificatori o prosatori) o le storie noi ci sentiamo [3162] commuovere da quelle vere o finte calamità, e ci lasciamo andare alle lagrime, crediamo forse di piangere le miserie altrui ma più spesso e più veramente, o più intensamente piangiamo in quel medesimo punto le nostre proprie, o mescoliamo il pensiero di queste al pensiero di quelle, e questa mescolanza (ch'è vera e propria e debita arte, e dev'essere scopo, del poeta l'occasionarla) è principal cagione di quelle nostre lagrime. E ci accade allora (e così ne' teatri ec.) come ad Achille piangente sul capo di Priamo il suo vecchio padre e la breve vita a se destinata ec. ec. sublimissimo e bellissimo e naturalissimo quadro di Omero. Le sventure, quando sieno nazionali, o in altra maniera più particolarmente appartenenti ai lettori, interesseranno sempre più, per la maggior somiglianza e prossimità, che non è quella dello sventurato in generale, e perchè sarà tanto più facile e pronto il passaggio dell'animo del lettore da quelle calamità alle sue proprie ec. Onde sarà sempre importantissimo che il soggetto del poema sia nazionale, e questi soggetti saranno sempre preferibili agli altri, e la nazionalità conferirà moltissimo all'interesse. Venendo oramai a ristringere il mio discorso, dico che l'Iliade, benchè, oltre al non esser noi greci, sieno corsi da ch'ella fu scritta o cantata, ben ventisette secoli, con tutte quelle innumerabili e sostanzialissime diversità che sì lungo tratto di tempo ha portato allo spirito ed alle circostanze esteriori [3163] e interiori dell'uomo e delle nazioni, c'interessa senz'alcun paragone più che l'Eneide scritta in tempi tanto posteriori, e più conformi ai nostri, ed aiutata pur grandemente come ho detto, dall'interesse medesimo della Iliade; più che la Gerusalemme, più che altri tali poemi, i quali, massimamente rispetto all'Iliade, si possono dir nati l'altro ieri. Dico c'interessa estremamente di più, intendendo dell'interesse totale e finale, e risultante da tutto il poema, e diffuso e serpeggiante per tutto il corpo del medesimo. Il quale interesse così inteso, manca quasi affatto ai poemi che dalla Iliade derivarono; perocchè non bisogna confonder con esso, il piacere che ci cagiona la lettura di tali poemi, derivante dallo stile, dalle immagini, dagli affetti, e da tali altre cose che non hanno essenzialmente a far coll'ultimo e principale scopo e scioglimento del poema; nè anche i particolari (o episodici o non episodici) interessi qua e là sparsi, non finali nè continui [3164] o perpetui, e nascenti da questa o da quella parte e non dall'insieme e dal tutto del poema; nè anche finalmente quell'interesse che può nascere dal semplice intreccio, interesse di pura curiosità, che non aspira nè corre ad altro che a voler essere informato dello scioglimento del nodo, conosciuto il quale, esso interesse finisce; interesse pochissimo interessante, e superficialissimo nell'animo; interesse che può esser sommo in poemi, drammi ed opere di niuno interesse, anzi non è mai nè sommo nè principale nè anche molto notabile e sensibile, se non se in poemi, drammi ed opere di niun intimo e profondo interesse e di pochissimo valor poetico, perchè il destare, pascere e soddisfare la curiosità non è effetto che abbia punto che fare colla natura della poesia, nè le può esser altro che accidentale e secondario. Or dunque i poemi derivati dalla Iliade, leggonsi con molto piacere, destano di tratto in tratto alcuno interesse più o men vivo e durabile, [3165] ma essi mancano quasi affatto di quell'interesse totale, finale e perpetuo, di cui l'Iliade, dopo 27 secoli, appo uomini non greci, sommamente abbonda, e dal quale si dee senza fallo misurare il pregio e il grado di bontà del complesso e dell'intero di un poema epico, siccome d'ogni altro poema. Per lo che tornando finalmente là donde incominciai, conchiudo che tutto all'opposto di ciò che si dice e si crede, il poema dell'Iliade sarà forse dai posteriori poemi vinto ne' dettagli o nelle qualità secondarie, come dir lo stile, o alcuna parte di esso, qualche immagine, qualche parte o qualità dell'invenzione; sarà forse eziandio vinto in alcuna parte della condotta, come nel celare più studiosamente l'esito, laddove Omero par che studiosamente lo sveli innanzi tempo (e forse anche questo si potrebbe difendere, e in ogni modo non nuoce che all'interesse di curiosità, del quale Omero, o come superficialissimo e non poetico ch'egli è, [3166] o come narrando forse cose universalmente allora cognite alla nazione, non si fece alcun carico); ma che nell'insieme, nel totale del disegno, nell'idea nello scopo e nell'effettivo risultato del tutto, tutti i poemi epici cedono di gran lunga all'Iliade. (14) E soggiungo che in ciò gli cedono appunto per aver seguìto una unità che Omero non si propose, e a causa di quello stesso incremento e stabilimento dell'arte che li conformò e regolò, e che in essi si vanta, e che Omero non conobbe, e che peccano appunto per quella maggior perfezione di disegno che loro si attribuisce sopra l'Iliade, e che in questa pretesa perfezione consiste appunto il maggiore ed essenzial peccato del loro disegno, peccato che niuno ci riconosce, non potendo però lasciare di sentirne gli effetti, ma rapportandoli a non vere cagioni, e male esigendo che quei poemi producano effetti non compatibili realmente con quel disegno che in essi lodano, e senza cui gli avrebbero biasimati; e finalmente che Omero [3167] non conoscendo l'arte (che da lui nacque) e seguendo solamente la natura e se stesso, cavò dalla sua propria immaginazione ed ingegno un'idea, un concetto, un disegno di poema epico assai più vero, più conforme alla natura dell'uomo e della poesia, più perfetto, che gli altri, avendo il suo esempio e in esso guardando, e ridotta che fu ad arte la facoltà ond'egli avea prodotto que' modelli, e determinata, distinta e stretta che fu da regole la poesia, non seppero di gran lunga fare. (5-11. Agosto. 1823.) Alla p. 3109. margine. E l'egoista lusinga il suo amor proprio anche col persuadersi di non essere egoista e di amare altri che se, e col credere di darne a se stesso una prova. Quindi per gli animi raffinati è anche più dolce la compassione verso gl'inimici che verso gli amici o gl'indifferenti, prima perchè tanto più facilmente e vivamente l'uomo si persuade che quel sentimento ch'egli allora prova sia sgombro e puro d'ogni mescolanza e influenza d'egoismo; poi perchè tanto maggior concetto [3168] egli allora forma della grandezza e generosità e nobiltà del suo proprio animo, e tanto più s'aggrandisce a' suoi propri occhi, (considerando la compassione ch'ei concede agli stessi nemici), del quale effetto della compassione ho detto p. 3119. Onde veramente somma fu l'arte, squisitissima l'intenzione e lo scopo, e supremamente bello l'effetto della poesia d'Omero, il quale rivolge principalmente sui nemici la compassione di che egli anima tutto il suo poema, ed alla quale come all'uno de' principali effetti di questo, egli mira. La compassione è quasi un'annegazione che l'uomo fa di se stesso, quasi un sacrifizio che l'uomo fa del suo proprio egoismo. Or questo è fatto per egoismo, niente meno che il sacrifizio della roba, de' piaceri, della vita medesima, che l'uomo fa talvolta, non da altro mosso che dall'amor proprio, cioè dal piacere ch'ei trova in far quella tale azione. Così l'egoismo giunge fino a sacrificar se stesso a se stesso: tanto è l'amor ch'ei si porta, ch'ei si fa volontaria vittima di se medesimo: tanto egli è pieghevole e vario, e capace di tanti [3169] e sì strani e sì diversi travestimenti, che per suo proprio amore ei cessa anche di esser egoismo, e quando voi lo vedete sacrificar se medesimo, egli è allora il più raffinato egoismo che si trovi, il più efficace e potente e imperioso, il più intimo e il più grande, perocch'egli è maggiore negli animi in proporzione ch'ei sono più vivi, delicati e sensibili, (come altrove più volte ho detto), quale è necessario che sia in sommo grado chi può veramente di sua propria volontà e scelta sacrificar se medesimo. (12. Agosto. dì di Santa Chiara. 1823.) Alla p. 2776. Vedi la Grammat. del Weller, edit. Lips. 1756. p. 50. v. 7.8. p. 58. fine. (12. Agosto. dì di Santa Chiara. 1823.) Et Davus non recte scribitur. Davos scribendum: quod nulla litera vocalis geminata unam syllabam facit. (geminata cioè p.e. due a, o come in questo caso, due u). Sed quia ambiguitas vitanda est nominativi singularis et accusativi pluralis, necessario pro hac regula digamma [3170] utimur, et scribimus DaFus, serFus, corFus. Donatus ad Ter. Andr. 1. 2. 2. (12. Agosto, dì di S. Chiara. 1823.) Così ridondante, o con un certo cotal significato che non si può altrimenti esprimere se non col gesto, si crede esser proprietà della nostra lingua, e idiotismo del nostro dir familiare (benchè molto usato dagli eleganti scrittori). V. pure Cic. ad Att. 14. 1. e il Forcell. in Abeo §. 160. Ma quest'uso è latino e greco. V. il Forcell. in Sic ai § sesto, nono, decimo, Catullo XIV. 16, e Platone nel Convito, ed. Astii, Lips. 1819. seqq. t. 3. p. 440. vers. 24. E. Gli spagnuoli hanno qualcosa di simile. (12. Agosto. dì di S.Chiara. 1823.) Profittare, approfittare, profiter, aprovechar ec. quasi profectare da profectus di proficio. Pretextar spagn. prétexter franc. da praetexo-xtus. (12. Agosto. dì di S. Chiara. 1823.) Diciamo volgarmente uomo indigesto per difficile, bisbetico. Or tale appunto si è il proprio significato del greco δύσκολος, per metafora morosus, opposto di εὔκολος. E v. la Crus. in discolo. (12. Agos. dì di Santa Chiara. 1823.) [3171] Niuna cosa maggiormente dimostra la grandezza e la potenza dell'umano intelletto, nè l'altezza e nobiltà dell'uomo, che il poter l'uomo conoscere e interamente comprendere e fortemente sentire la sua piccolezza. Quando egli considerando la pluralità de' mondi, si sente essere infinitesima parte di un globo ch'è minima parte d'uno degli infiniti sistemi che compongono il mondo, e in questa considerazione stupisce della sua piccolezza, e profondamente sentendola e intentamente riguardandola, si confonde quasi col nulla, e perde quasi se stesso nel pensiero della immensità delle cose, e si trova come smarrito nella vastità incomprensibile dell'esistenza; allora con questo atto e con questo pensiero egli dà la maggior prova possibile della sua nobiltà, della forza e della immensa capacità della sua mente, la quale rinchiusa in sì piccolo e menomo essere, è potuta pervenire a conoscere e intender cose tanto superiori alla natura di lui, e può abbracciare e contener [3172] col pensiero questa immensità medesima della esistenza e delle cose. Certo niuno altro essere pensante su questa terra giunge mai pure a concepire o immaginare di esser cosa piccola o in se o rispetto all'altre cose, eziandio ch'ei sia, quanto al corpo, una bilionesima parte dell'uomo, per nulla dire dell'animo. E veramente quanto gli esseri più son grandi, quale sopra tutti gli esseri terrestri si è l'uomo, tanto sono più capaci della conoscenza e del sentimento della propria piccolezza. Onde avviene che questa conoscenza e questo sentimento anche tra gli uomini sieno infatti tanto maggiori e più vivi, ordinari, continui e pieni, quanto l'individuo è di maggiore e più alto e più capace intelletto ed ingegno. (12. Agosto. dì di S. Chiara. 1823.) Al proposito di habeo e di ἔχω usati per essere spettano i verbali habitus e σχῆμα, ἕξις etc. P.e. habitus corporis, cioè modus habendi o se habendi, modus quo corpus habet [3173] o se habet, vale propriamente modo di essere del corpo ec. (12. Agos. dì di S. Chiara. 1823.) Alla p. 3132. marg. principio. Da quello che si legge nell'epistola di Antonio Eparco a Filippo Melantone (ch'era pur non cattolico, ma famoso eretico e poco si doveva curare de' luoghi santi) la qual epistola è riportata dal Fabricio nel citato luogo; e dalle varie scritture ed anche storie di quei tempi, si raccoglie che in verità il gabinetto ottomanno mirasse a soggettarsi l'Europa, non tanto per diffondere la religione di Maometto (sebbene anche questo, s'io non m'inganno, è precetto o consiglio dell'Alcorano, che si proccuri di diffonderla coll'armi il più che si possa, promettendo premi nell'altra vita a chi sostenga di morire combattendo per questa causa ec.) quanto per propagare il proprio imperio, e non tanto odiando gli altri principi e regni europei come Cristiani, quanto appetendoli come materia di conquista. O certo pare che gli altri gabinetti europei riguardassero tutti la potenza ottomana con maggior sospetto ch'ei non si guardavano l'un l'altro, temendone, non per la religion Cristiana, ma per se [3174] stessi. E senza fallo la potenza ottomana si manteneva ancora a quel tempo nell'opinione di conquistatrice appresso gli altri, e il gabinetto ottomano conservava ancora le intenzioni e i progetti di conquistatori. Nè poteva essere spenta la memoria e il terrore di quando, non più che un secolo addietro, quella nazione tartara, dopo le tante imprese e conquiste e progressi fatti per sì lungo tempo nell'Asia, presa Costantinopoli, antichissima sede del greco impero, e distrutto l'ultimo avanzo della potenza romana, aveva finalmente piantato nell'Europa risorgente alla civiltà, un trono barbaro, una lingua e un popolo Asiatico (cosa fino allora, per quanto si stende la ricordanza delle storie, non più veduta), oltre una religione diversa dalla Cristiana (cosa pur non veduta in Europa da' tempi pagani in poi, eccetto i mori di Spagna, i quali si debbono eccettuare anche sotto i rispetti detti di sopra); ed aveva imposto il giogo della schiavitù orientale alla più colta nazione che fosse in quei tempi, come apparve dai tanti esuli, secondo quel tempo, dottissimi, che fuggendo la turca tirannide, si erano sparsi per le altre parti d'Europa, portando i greci codici, e la greca letteratura, e rendendo comune e proprio di quel secolo più che d'ogni altro, lo studio ed anche l'uso della greca lingua nelle scuole e fra' letterati d'Italia, di Francia e di Germania, ed aiutando universalmente il progresso delle rinate lettere. Spettacolo veramente terribile, la cui impressione non poteva nel seguente secolo essere spenta, nè si poteva ancora [3175] aver cessato di temere e di odiare generalmente il Turco sì nelle corti e sì nel popolo, non solo come conquistatore, ma di più come conquistatore barbaro e crudele, minacciante le nazioni civili; (quasi come i Goti e gli altri popoli settentrionali ne' bassi secoli), anche astraendo affatto dalla religione. Quindi il voto de' politici e degli scrittori di quel secolo per la lega universale contro i turchi, prende un aspetto anche più grave, e non è solamente da riguardarsi com'effetto di antiche opinioni e rimembranze religiose, e di fanatismo e d'immaginazione, ma come dirittamente spettante alla politica, e derivante dalla considerazione delle reali circostanze d'Europa in quel secolo. E tanto più importante n'apparisce il soggetto, e più degno, saggio e nobile il pensiero, la scelta e l'intenzione del Tasso, che nel suo poema fece servire la religione, e le opinioni e lo spirito popolare del suo tempo, e le altre cose che si prestano alla poesia (perocchè le speculazioni politiche non possono esser materia da ciò) a promuovere quello scopo ch'era allora de' più importanti per la conservazione della civiltà, della libertà, dello stato, del ben essere di tutta Europa, cioè la concordia de' principi europei per essere in grado e di respingere e di distruggere il [3176] Barbaro che minacciava o era creduto minacciare di schiavitù tutte le nazioni civili, il comune nemico che macchinava o era creduto macchinare la conquista di tutta Europa dopo quella di gran parte dell'Asia, e insidiare perpetuamente ai regni europei, come anticamente i persiani alle greche repubbliche. Nè certo minor gravità ed importanza dovranno sotto tale aspetto essere riputati avere il poema del Tasso, la Canzone del Petrarca e l'altre poesie e prose italiane o forestiere appartenenti a tal materia, di quella che avessero le orazioni d'Isocrate contro il Persiano, o di Demostene contro il Macedone; anzi, per ciò che spetta alla materia, tanto maggiore di queste, quanto queste toccavano l'interesse della Grecia sola, piccola parte d'Europa, e quelle miravano alla salvezza dell'Europa intera e di tutte le sue nazioni e lingue. (15. Agosto. Assunzione di Maria Vergine Santissima. 1823.). Nè la nimicizia degli europei verso i maomettani, e di questi verso quelli si restringeva alle sole opinioni e discorsi, ma consisteva anche ne' fatti, (15) come apparisce dalle imprese de' Cavalieri Ospitalieri di S. Giovanni di Gerusalemme [3177] che in quel medesimo secolo, dopo 212. anni di possedimento (1310.) perdettero Rodi (1522.) ed ebbero prima Viterbo dal Papa, e poi Malta (1530.) da Carlo V, e con prodigioso valore la difesero (1566.) quattro mesi con morte di 15 mila soldati barbari e ottomila marinai; dalle imprese di Carlo V contra i Maomettani d'Europa e d'Affrica; da quelle de' Veneziani nel detto secolo; dalla famosa vittoria di Lepanto riportata dalle flotte spagnuola, veneziana e del Papa sopra i turchi dieci anni avanti (1571.) che fosse pubblicata la Gerusalemme (1581.), e certo in tempo che il Tasso la stava componendo e meditando, poichè fin dieci anni avanti (1561.), egli n'aveva già scritto o abbozzato 6. canti. (V. Tirabos. t. 7. par. 3. p. 118.). (16. Agosto. 1823.). V. p. 4236. e l'Oraz. del Giacomini in lode del Tasso nelle Prose fior. la qual finisce con un'esortazione alla guerra contro i turchi. Alla p. 2834. Questa tal grazia definita di sopra, è la grazia più graziosa e più fina, anzi quella che propriamente si chiama grazia, e che suol essere considerata dagli artisti, dagl'intendenti, dagli speculatori teorici o pratici del bello, quella che sogliamo intendere col nome di grazia, ed a cui principalmente appartiene l'indefinibilità e inconcepibilità [3178] che alla grazia s'attribuisce. La grazia nascente da difetto (come quella di Roxolane appo il Marmontel), è più grossolana e poco degna dell'artista, o di qualunque imitatore del bello. Essa è bensì più comunemente sensibile (perocchè quell'altra grazia non tutti, anzi pochi, la sentono), e sempre ch'ella è sentita, fa maggior effetto dell'altra, eziandio negl'intendenti del bello, negli spiriti di buon gusto, e negli animi delicati e sensibili. E ciò perchè il contrasto in essa è più notabile e spiccato, e maggiore la straordinarietà. Ma perciò appunto questo effetto è più grossolano, e per così dire più materiale e corporeo, laddove quell'altro è più spirituale e più delicato, e quindi più direttamente e giustamente proprio della grazia, l'idea della quale inchiude quella della delicatezza. La grazia derivante da difetto punge e solletica come un sapore acre e piccante, o aspro, o acido, o acerbo, che per se stesso è dispiacevole, e pure in un certo grado piace, e quindi molti spiriti che non hanno mai potuto sentire quell'altra grazia, o che sono di già blasés sul bello, a causa del lungo uso ed assuefazione, sono [3179] mossi e allettati da quella grazia, per dir così, difettosa, come i palati o ruvidi e duri per natura, o stanchi de' cibi piacevoli per la lunga assuefazione, sono dilettati e solleticati da quei sapori. Laddove l'altra suddetta grazia è quasi un soave e delicatissimo odore di gelsomino o di rosa, che nulla ha di acuto nè di mordente, o quasi uno spiro di vento che vi reca una fragranza improvvisa, la quale sparisce appena avete avuto il tempo di sentirla, e vi lascia con desiderio, ma vano, di tornarla a sentire, e lungamente, e saziarvene. (16. Agosto. dì di San Rocco. 1823.) È cosa indubitata che la civiltà ha introdotto nel genere umano mille spezie di morbi che prima di lei non si conoscevano, nè senza lei sarebbero state; e niuna, che si sappia, n'ha sbandito, o seppur qualcuna, così poche, e poco acerbe e poco micidiali, che sarebbe stato incomparabilmente meglio restar con queste che cambiarle con la moltitudine, fierezza e mortalità di quelle. (Vediamo infatti quanto poche e blande sieno le malattie spontanee degli altri animali, massime salvatichi, cioè non corrotti da noi; e similmente de' selvaggi, e massime de' più [3180] naturali, come i Californii; e che anche quelle degli agricoltori sono molte più poche e rare e men feroci che quelle de' cittadini). È parimente indubitato che la civiltà rende l'uomo inetto a mille fatiche e sofferenze che egli avrebbe e potuto e dovuto tollerare in natura, e suscettibilissimo d'esser danneggiato da quelle fatiche e patimenti che, o per natura generale o per circostanze particolari, egli è obbligato a sostenere, e che nello stato naturale avrebbe sostenuto senza verun detrimento, e, almeno in parte, senza incomodo. È indubitato che la civiltà debilita il corpo umano, a cui per natura (siccome a ogni altra cosa proporzionatamente) si conviene la forza, e il quale privo di forza, o con minor forza della sua natura, non può essere che imperfettissimo; e ch'ella rende propria dell'uomo civile la delicatezza rispettiva di corpo, qualità che in natura non è propria nè dell'uomo nè di veruno altro genere di cose, nè dev'esserlo (vedi la pag. 3084. segg.). È indubitato che le generazioni umane peggiorano in quanto al corpo di mano in mano, ogni generazione più, sì per se stessa, sì perch'ella così peggiorata non può non produrre una generazione peggior di se ec. ec. Da tutte queste e da cento altre cose, da me altrove in diversi luoghi considerate, si fa più che certissimo e si tocca con mano, che i progressi della civiltà portano seco e producono inevitabilmente il successivo deterioramento [3181] del suo fisico, deterioramento sempre crescente in proporzione d'essa civiltà. Nei progressi della civiltà, e non in altro, consiste quello che i nostri filosofi, e generalmente tutti, chiamano oggidì (e molti anche in antico) il perfezionamento dell'uomo e dello spirito umano. È dunque dimostrato e fuori di controversia che il perfezionamento dell'uomo include, non accidentalmente ma di necessità inevitabile, il corrispondente e sempre proporzionato deterioramento e, per così dire, imperfezionamento di una piccola parte di esso uomo, cioè del suo corpo: di modo che quanto l'uomo s'avanza verso la perfezione, tanto il suo fisico cresce nella imperfezione; e quando l'uomo sarà pienamente perfetto, il corpo umano, generalmente parlando, si troverà nel peggiore stato ch'e' mai siasi trovato, e in che gli sia possibile di trovarsi generalmente. Se con ciò si possa giustamente chiamare perfezionamento, quello che oggi s'intende sotto questo nome, cioè se l'incremento della civiltà sia perfezionamento dell'uomo, e la perfezione della civiltà perfezione dell'uomo; se una tal perfezione ci possa essere stata destinata dalla natura; [3182] se la nostra natura la richiegga ed a lei tenda; se veruna natura richiegga o possa richiedere una perfezione di questa sorta; se perciò che l'uomo è civilizzabile, e in quanto egli è civilizzabile, ei sia, come dicono, e come stabiliscono e dichiarano per fuori d'ogni controversia, perfettibile; si lascia giudicare a chiunque non è ancor tanto perfezionato, tanto vicino all'ultima perfezione dell'uomo, ch'egli abbia perduto affatto l'uso del raziocinio, e non serbi neppur tanta parte del discorso naturale quanta è propria ancora degli altri viventi. (17. Agosto. Domenica. 1823.) Trembler, temblar sono verbi diminutivi, cioè fatti da un tremulare, il quale è da tremere, come misculare (onde mesler, cioè mêler, mezclar, mescolare, meschiare, mischiare) da miscere, secondo che ho notato altrove. Ma essi verbi trembler e temblar hanno il senso del positivo tremere che nel francese e nello spagnuolo non si trova. Noi abbiamo e tremare e tremolare, quello positivo, e questo, così di forma come di significazione, diminutivo. Diciamo anche tremulare, o piuttosto lo dicevano i nostri antichi, più alla latina, benchè questo verbo nel buon latino non si trovi. Trovasi però nel [3183] basso latino: v. il Glossar. Cang. Il Franciosini scrive tremular, lo chiama vocabolo barbaro, e lo spiega tremare. Gli spagnoli dicono pure tremolar (Solìs Hist. de Mexico, l.1. capit.7. princip.), ma attivamente per agitare, dimenare, sventolare (come tremolar unas vanderas nel citato luogo del Solìs), alla qual significazione par che appartenga l'ultimo esempio del Gloss. Cang. in Tremulare. (17. Agos. 1823. Domenica.) Gli uomini che nel mondo sono stimati e son tenuti da quanto gli altri o da più degli altri, lo sono per l'ordinario in quanto coll'uso della società essi si sono allontanati dalla natura lor propria e dagli abiti naturali dell'uomo generalmente, ed hanno in se oscurata e coperta la natura, o sanno, sempre che vogliono, coprirla. E quanto più è oscurata in loro e coperta e mutata sì la natura individuale e lor propria, vale a dire il loro natural carattere, e gli abiti a che essa particolar natura gli avrebbe condotti, sì la natura generale degli uomini, tanto la stima generale verso di essi è maggiore. Voglio dir che la più parte delle qualità che negli uomini ottengono stima appo il mondo, o sono totalmente acquisite e per nulla naturali, anzi spesso contrarie alla natura lor propria o generale; ovvero sono talmente svisate [3184] dal naturale che per naturali non si ravvisano, e più che sono svisate, più, per l'ordinario, si stimano. Perocchè egli è ben raro che una qualità semplicemente naturale, e tale qual ella è da natura, sia stimata punto nella società, e quando pur sialo, questa stima non è nè durevole, nè salda, nè generale, nè molta, ed è sempre inferiore a quella delle qualità acquisite o snaturate, le quali si apprezzano per regola, stabilmente e seriamente, ma le naturali quasi per gioco, per rarità, per variare, per passatempo, momentaneamente. Quelle si stimano come gravi, serie, e da negozio; queste come lievi, di poca importanza ed utilità, da semplice trattenimento e da ozio: e la società presto se ne annoia. Questo genere di persone ch'è l'unico generalmente stimato nella società, tiene il mezzo fra due generi, non istimato nè l'uno nè l'altro, ma l'uno non istimabile, l'altro stimabilissimo e molto più stimabile veramente di quello che il mondo stima. Del primo genere sono quelle persone, in cui la natura non ha avuto forza bastante per cangiarsi; cioè quelle che non furono capaci dell'arte, onde vivendo nella società, non hanno da lei saputo apprendere, nè su di lei modellarsi, e per [3185] poca abilità naturale hanno conservata la loro natura, il loro natural carattere, gli abiti a cui la natura o propria o generale gl'inclinò; sicchè vivono e conversano nella società, tali appresso a poco quali dapprima vi entrarono. Ciò sono le persone povere di spirito, di tardo e duro ingegno, di corta e scarsa capacità. Eziandio spettano a questo genere coloro in cui la natura si conserva per mancanza di coltura che la scacci o la tramuti. Ciò sono le persone idiote e rozze, di poco o niuno uso sociale, poco o nulla assuefatte alla civile conversazione, le quali recano nella società, sempre che vi si accostano, il loro primitivo carattere, e le naturali abitudini, non mai cangiate da quello che furono da principio, non mescolate o accresciute con alcuna qualità sociale acquisita; e ciò non per durezza d'ingegno, nè per naturale insufficienza, e incapacità di apprendere, ma per mancanza d'insegnamento, di esercizio, di coltura dell'ingegno e delle maniere. Questo genere di persona sia della prima specie sia della seconda, non è punto stimata nè ricercata [3186] nè gradita nella società, perch'egli conserva la natura, al contrario di quelle persone che ho detto essere apprezzate nel mondo. Del secondo genere (16) sono coloro in cui la natura straordinariamente forte, e più potente che nel comune degli uomini, ha superato e respinto l'arte, e non le ha lasciato luogo da situarsi, non per istrettezza e cortezza d'essa natura, ma perch'ella, sebbene amplissima ed estesissima, tutto il luogo essa medesima irremovibilmente occupò. Ciò sono le persone di carattere originale, straordinariamente vigoroso, costante, fermo, i quali rigettano le abitudini contrarie alla loro gagliarda natura e al detto carattere, di qualunque genere ei sia; e non soffrono di piegarsi e adattarsi agli altrui costumi, di seguire le altrui inclinazioni, di cangiare o di modificare o di nascondere e mascherare o finalmente di smentire se stessi; non ammettono nè modi, nè usanze, nè gusti, nè occupazioni, nè istituti di vita, nè parole, nè fatti se non conformi esattamente alla loro primitiva natura ed indole, e da essa richiesti, cagionati, mossi, suggeriti. Questi sono [3187] gli uomini chiamati singolari e originali; non mai stimati (certo oggidì, e nelle nazioni più civili e socievoli, non mai), per lo più disprezzati, ovvero odiati e fuggiti, sempre derisi. In questi tali tutto è forza, e per la forza si conserva in essi immutabile la natura. Altri pur v'ha del medesimo genere, ne' quali avvengachè la natura sia parimente fortissima e potentissima, contuttociò si mescola in essi e nella natura loro una sorta di debolezza e non poca. Ciò sono quelle persone di vastissimo finissimo e altissimo ingegno, al quale per la troppa capacità ed ampiezza sfuggono e in essa ampiezza si perdono le cose piccole; per la troppa finezza riescono difficilissime e impossibili ad apprendersi, a seguirsi, a possedersi le cose grosse; per la troppa altezza escono di vista le cose basse. Non già ch'essi sempre le sdegnino, anzi bene spesso con somma e intentissima cura le cercano e studiano, ma con gran meraviglia loro e dei pochi che ben li conoscono, non viene lor fatto di conseguire in quelle cose appena una centesima parte di quell'abilità e di quel successo che gl'ingegni mediocri, e talora [3188] piccoli, con molto minor cura e studio, facilmente e perfettamente conseguono, possiedono e adoprano. Il medesimo eccesso della cura e della contenzion d'animo che quei rari ingegni pongono a conseguire ed esercitare le qualità sociali, cura e contenzione abituale e familiare in essi, e che mai e' non sanno intermettere o rilasciare; il medesimo eccesso dico, togliendo loro la possibilità della disinvoltura, del riposo d'animo, della facilità, dell'abbandono, della sicurezza, della confidenza in se stessi (che a chi suol riflettere sulle cose, e conoscerne e investigarne e sentirne e pesarne le difficoltà, e a chi sempre mira alla perfezione, e d'altronde sa bene per molte esperienze e sente quanto ella sia difficile, a questi tali, dico, la confidenza in se stessi è impossibile); togliendo dunque loro la possibilità di queste qualità che sono d'indispensabilissima e primissima necessità per godere nella società e per piacerle, e generalmente per ottenere colle parole o coi fatti qualunque successo nel mondo; il detto eccesso, torno a ripetere, impedisce a quei rari ingegni di mai, se non imperfettissimamente conseguire, di mai, se non con grandissima difficoltà e stento, adoperare ed esercitare le [3189] qualità che nel mondo si apprezzano ed amano e premiano. Questi tali, benchè grandissimi ingegni, benchè fecondi di bellissimi, utilissimi, altissimi, nuovissimi pensieri, benchè scrittori sommi in questo o quel genere, o pur letterati o filosofi o privati politici di altissimo valore, benchè d'animo nobilissimi, sensibilissimi, rarissimi, benchè spesso capacissimi di dilettar sommamente o di sommamente giovare a qualsivoglia società e a qualunque genere di persone coi loro scritti o colle produzioni qualunque del loro ingegno, lungamente e maturamente, o almeno riposatamente, pensate; anzi benchè le dette misere qualità siano pur troppo propriissime de' singolari ingegni, e tanto più quanto alcun d'essi più s'inalza sopra il comune, e a proporzione di ciò più invincibili e costanti; e benchè quasi tutti gl'ingegni veramente singolari e sommi, massime quelli che risplendettero o risplendono negli studi delle scienze, delle lettere, o delle arti, fossero e sieno più o meno partecipi di tali qualità caratteristiche, si può dire, degli straordinarii e sublimi talenti; (vedi fra l'altre cose il Pseudo-Donato nella Vita di Virgilio [3190] cap. 6. fine, dov'è l'autorità di Melisso, Grammatico, liberto di Mecenate, contemporaneo di Virgilio: Forcell. in Melissus, Fabric. B. Lat. 1. 494.); contuttociò questi tali nella società, se non da quelli che conoscono per altra parte il loro merito, e che conoscendolo sono capaci di apprezzare chi lo possiede, sono generalmente (e non irragionevolmente, perocchè niun diletto e molta noia e fatica reca la loro conversazione) disprezzati ed evitati, ancor maggiormente che quelli dell'altra specie, e confusi dai più coi primi del primo genere, ai quali in fatti, nell'esteriore e in ciò che d'essi apparisce, quasi a capello si rassomigliano. In questo genere si può recar per esempio della prima specie l'Alfieri, della seconda G. G. Rousseau. (17) Anche questo genere di persone benchè stimabilissimo non è stimato, perocch'ei conserva la natura, o non è bastantemente mutato dal naturale. Sicchè tra quello che non è stimabile e quello ch'è degno di somma stima, restano solamente stimati quelli che tengono il mezzo, e cioè gli uomini mediocri e mediocremente [3191] degni. E ritrovasi per questa via e sotto questo rispetto, siccome per tutte l'altre vie e per ogni altro riguardo, trionfare nell'umana conversazione la mediocrità. Nè solamente alla stima del mondo, ma a qualunque altro successo nella società, come al far fortuna, all'avanzarsi nel favore o de' principi o de' privati, e a cose tali si può applicare la triplice distinzione e la successiva suddivisione degli uomini da me fatta fin qui, e troverannosi dovunque gli effetti corrispondere ai sopra osservati, secondo i generi e le spezie surriferite. (18. Agos. 1823.) All'amore che noi abbiamo della vita, e quindi delle sensazioni vive, dee riferirsi il piacere che ci recano negli scritti o nel discorso le parole chiamate espressive, cioè quelle che producono in quanto a loro una idea vivace, o per la vivacità dell'azione o del soggetto qualunque ch'elle significano (come spaccare), o perchè vivamente rappresentano all'immaginativa questa [3192] medesima azione o soggetto, qualunque siasi la cagione perch'esse vivamente lo rappresentino (come spaccare più vivamente rappresenta l'azione significata, e desta un'idea più viva che fendere per varie ragioni che ora non accade specificare, e lungo sarebbe il farlo), o perchè di un'azione o di un soggetto non vivace, ne destano però una viva e presente idea. (18. Agosto. 1823.) Per li nostri pedanti il prender noi dal francese o dallo spagnuolo voci o frasi utili o necessarie, non è giustificato dall'esempio de' latini classici che altrettanto faceano dal greco, come Cicerone massimamente e Lucrezio, nè dall'autorità di questi due e di Orazio nella Poetica, che espressamente difendono e lodano il farlo. Perocchè i nostri pedanti coll'universale dei dotti e degl'indotti tengono la lingua greca per madre della latina. Ma hanno a sapere ch'ella non fu madre della latina, ma sorella, nè più nè meno che la francese e la spagnuola sieno sorelle dell'italiana. Ben è vero che la greca letteratura e [3193] filosofia fu, non sorella, ma propria madre della letteratura e filosofia latina. Altrettanto però deve accadere alla filosofia italiana, e a quelle parti dell'italiana letteratura che dalla filosofia debbono dipendere o da essa attingere, per rispetto alla letteratura e filosofia francese. La quale dev'esser madre della nostra, perocchè noi non l'abbiamo del proprio, stante la singolare inerzia d'Italia nel secolo in che le altre nazioni d'Europa sono state e sono più attive che in alcun'altra. E voler creare di nuovo e di pianta la filosofia, e quella parte di letteratura che affatto ci manca (ch'è la letteratura propriamente moderna); oltre che dove sono gl'ingegni da questa creazione? ma quando anche vi fossero, volerla creare dopo ch'ella è creata, e ritrovare dopo trovata ch'ell'è da più che un secolo, e dopo cresciuta e matura, e dopo diffusa e abbracciata e trattata continuamente da tutto il resto d'Europa del pari; sarebbe cosa, non solo inutile, ma stolta e dannosa, mettersi a bella posta lunghissimo tratto addietro degli [3194] altri in una medesima carriera, volersi collocare sul luogo delle mosse quando gli altri sono già corsi tanto spazio verso la meta, ricominciare quello che gli altri stanno perfezionando; e sarebbe anche impossibile, perchè nè i nazionali nè i forestieri c'intenderebbono se volessimo trattare in modo affatto nuovo le cose a tutti già note e familiari, e noi non ci cureremmo di noi stessi, e lasceremmo l'opera, vedendo nelle nostre mani bambina e schizzata, quella che nelle altrui è universalmente matura e colorita; e questo vano rinnovamento piuttosto ritarderebbe e impaccerebbe di quel che accelerasse e favorisse gli avanzamenti della filosofia, e letteratura moderna e filosofica. Erano ben altri ingegni tra' latini al tempo che s'introdussero e crebbero gli studi nel Lazio; ben altri ingegni, dico, che oggi in Italia non sono. Nè però essi vollero rinnovare nè la filosofia nè la letteratura (la quale essendo allora poco filosofica, si potea pur variare passando a nuova nazione), ma trovando l'una e l'altra in alto stato, e grandissimamente avanzate e mature appresso i [3195] greci, da questi le tolsero, e gli altrui ritrovamenti abbracciarono e coltivarono; e ricevuti e coltivati che gli ebbero, allora, secondo l'ingegno di ciascheduno e l'indole della nazione, de' costumi, del governo, del clima, della lingua, delle opinioni romane, modificarono ed ampliarono le cose da' greci trovate, e diedero loro abito e viso e attitudini domestiche e nuove. Se vuol dunque l'Italia avere una filosofia ed una letteratura moderna e filosofica, le quali finora non ebbe mai, le conviene di fuori pigliarle, non crearle da se; e di fuori pigliandole, le verranno principalmente dalla Francia (ond'elle si sono sparse anche nelle altre nazioni, a lei molto meno vicine e di luogo e di clima e di carattere e di genio e di lingua ec. che l'italiana), e vestite di modi, forme, frasi e parole francesi (da tutta l'Europa universalmente accettate, e da buon tempo usate): dalla Francia, dico, le verrà la filosofia e la moderna letteratura, come altrove ho ragionato, e volendole ricevere, nol potrà altrimenti che ricevendo altresì assai parole e frasi di là, ad esse intimamente e indivisibilmente spettanti e fatte proprie; [3196] siccome appunto convenne fare ai latini delle voci e frasi greche ricevendo la greca letteratura e filosofia; e il fecero senza esitare. E noi colla stessa giustificazione, ed anche col vantaggio della stessa facilità il faremo, essendo la lingua francese sorella dell'italiana siccome della latina il fu la greca, e producendo la filosofia e la filosofica letteratura francese una letteratura moderna ed una filosofia italiana, siccome già la greca nel Lazio. E tanto più saremo fortunati degli altri stranieri che dal francese attinsero voci e modi per la filosofia e letteratura, quanto che noi nel francese avremo una lingua sorella, e non, com'essi, aliena e di diversissima origine. (18. Agos. 1823.) Alla p. 1011. marg.-fine. Aggiungete ancora che la lingua latina è della italiana, madre conosciuta e certa e fuori d'ogni controversia. Non così accade all'altre lingue d'origine diversa. Si saprà per certo che la lingua tedesca è d'origine teutonica, la svedese d'origine slava, ma quale delle antiche lingue teutoniche o schiavone sia madre della tedesca e della svedese, non si potrà senza moltissime controversie, nè senza grandi [3197] dubitazioni e incertezze, nè più che largamente e mal distintamente, determinare ec. ec. (19. Agos. 1823.). Noi sappiamo bene qual e che cosa sia questa lingua latina madre dell'italiana, e possiamo definitamente additarla, e mostrarla tutta intera. Ma dir che la teutonica o la slava o simili è madre della tedesca o della russa ec., è quasi un dire in aria, benchè sia vera, nè quelli possono definitamente additarci quale individualmente sia questa lor lingua madre, nè, se non confusamente e per laceri avanzi, mostrarcela. In molti luoghi di questi miei pensieri ho dimostrato come l'uomo debba quasi tutto alle circostanze, all'assuefazione, all'esercizio; quanta parte di ciò che si chiama talento naturale, e diversità o superiorità o inferiorità di talenti, non sia per verità altro che assuefazione, esercizio, ed opera di circostanze non naturali nè necessarie ma accidentali, e diversità di assuefazioni e di circostanze, maggiore o minore assuefazione, e maggiore o minor favore o disfavore di circostanze e di accidenti secondarii: la diversità delle quali cose accresce a dismisura le piccole differenze e le piccole superiorità o inferiorità di facoltadi che si trovano naturalmente e primitivamente tra questo e quello ingegno di questo o quello individuo o nazione, in questo o quel secolo. Io però non intendo con ciò di negare che non v'abbiano diversità naturali fra i vari talenti, le varie facoltà, i vari primitivi caratteri degli uomini; ma solamente affermo e dimostro che tali diversità assolutamente naturali, innate, e primitive sono molto [3198] minori di quello che altri ordinariamente pensa. Del resto che gl'intelletti, gli spiriti, insomma gli animi degli uomini differiscano naturalmente e primitivamente gli uni dagli altri, con minute differenze bensì, ma pur vere ed effettive e notabili differenze; e che varie sieno le loro naturali disposizioni, maggiori in altri, in altri minori, ed ordinate in quelli a certi oggetti, in questi a certi altri, è cosa, come da tutti e sempre creduta, così vera e reale, e dimostrata da molte osservazioni, le quali, o alcune di esse, verrò qui sotto segnando per capi, sommariamente però, ed in modo che sopra ciascun capo potrà e dovrà molto più estendersi il discorso di quello che io sia per estenderlo. 1. Notabili sono le differenze che passano tra l'esteriore figura e conformazione degli uomini, paragonando secolo a secolo; nazione selvaggia o corrotta o civile l'una coll'altra; nazioni civili tra loro; così nazioni selvaggie o barbarizzate; clima a clima; famiglia a famiglia; individuo a individuo. Differenze regolari o irregolari; ordinarie o straordinarie; naturali o accidentali, ma pur [3199] sempre fisiche; mostruosità ec. La differenza delle lingue dimostra una vera differenza negli organi corporali della favella tra' vari popoli parlanti; differenza cagionata o dal clima o da qualsivoglia altra cagione naturale, indipendente però certo dall'assuefazione nell'essenziale e generale e costante che in essa differenza si trova. Negli altri vari organi esteriori dell'uomo si trovano eziandio molte notabili differenze naturali tra uomo e uomo, clima e clima, nazione e nazione, individuo e individuo; differenze di disposizione, cioè disposizione a maggiore o minor numero di abilità, a tali o tali abilità piuttosto che ad altre, e disposizione maggiore o minore; più o meno scioltezza e speditezza e sveltezza fisica, secondo le qualità naturali de' muscoli e de' nervi che a quel tale organo appartengono. Se l'esteriore adunque degli uomini differisce notabilmente per natura nell'uno uomo paragonato coll'altro, è ben ragionevole che si creda notabilmente differire anche la naturale conformazione dell'interiore ne' diversi uomini; quando non si può volgere in dubbio la manifesta analogia e perfetta corrispondenza [3200] che passa tra l'esterno e l'interno dell'uomo sotto qualunque rispetto. E nel particolare dell'ingegno, la diversa conformazione esteriore del capo ne' diversi individui e nazioni, la quale è visibile e non si può negare, dimostra chiaramente una diversa conformazione di ciò che nel capo si contiene, nel che risiede l'ingegno; onde viene a esser provato che tra gli uomini v'ha differenza naturale d'ingegno. E infatti è quasi dimostrato che la fronte spaziosa significa grande e capace ingegno naturale, e per lo contrario la fronte angusta; e così le altre differenze esteriori del capo osservate dai craniologi: le osservazioni de' quali se non sono tutte vere, non lasciano di provare generalmente una differenza naturale di spirito e d'indole ne' diversi uomini; nel giudizio delle quali differenze se coloro spesse volte s'ingannano, ciò nasce perch'ei non guardano che il fisico; ma l'assuefazione e le circostanze talora accrescono, talora cancellano, talora volgono affatto in contrario le differenze delle disposizioni naturali; delle quali sole possono pronunziare i craniologi, non de' loro effetti, che da troppo altre cause [3201] sono influiti, e spesso riescono contrarii ad esse disposizioni. E vedi a questo proposito il fatto di Zopiro e Socrate ap. Cic. Tusc. lib. 4. cap. 37. Qua pur si deve riferire la diversità delle fisonomie, degli occhi, che tanto esprimono e dimostrano dell'animo e dell'ingegno, e l'arte de' fisionomi. 2. Differenze generali, regolari, e costanti si trovano fra i caratteri, i talenti, le disposizioni spirituali delle diverse nazioni, massime secondo i diversi climi. Quelle d'ingegno grossissimo, come i Lapponi; queste d'acutissimo, come gli orientali; altre pigre, altre attive; altre coraggiose, altre timide; in altre prevale l'immaginazione, in altre la ragione, e ciò in altre più, in altre meno; altre riescono e riuscirono sempre eccellenti in una parte, altre in altra; ec. ec. e tutto questo costantemente. Non si può negare che i principii e le fondamenta di tali differenze non sieno naturali, e quindi non si può negare che non v'abbia una vera primitiva differenza d'indole e d'ingegno tra nazione e nazione, clima e clima, come v'ha reale, visibile, naturale e, generalmente parlando, costante differenza di esteriore, di fisonomia ec. tra nazioni e climi, selvaggi o civili ec. ec. Dunque proporzionatamente [3202] è da dire che anche tra individuo e individuo di una stessa o di diverse nazioni, esiste dalla nascita una reale differenza d'indole e di talento, o vogliamo dire un principio e una disposizione di differenza, che ad idem redit. 3. Lasciando da parte il tanto che si potrebbe dire sull'influsso fisico, ossia sulla naturale azione del corpo e de' sensi, e quindi degli oggetti esteriori, sull'animo indipendentemente dall'assuefazione, ne toccheremo solamente alcune cose che più fanno al proposito. Ho udito di uno abitualmente scempio o tardissimo d'ingegno, che caduto di grande altezza, e percosso pericolosamente il capo, divenne, guarito che fu, d'ingegno prontissimo e furbissimo, e questi ancor vive. Ho udito d'altri molto ingegnosi, per simile accidente divenuti stupidi, e sciocchi. Lasciando questo, egli è certissimo che la malattia del corpo (e così la sanità) influisce grandissimamente sull'ingegno e sull'indole. Tacendo delle minori influenze, che tutto giorno si osservano, si può notare quello che narra il Caluso nella Lettera appiè della Vita di Alfieri, circa i versi d'Esiodo da lui una [3203] sola volta letti, ch'ei recitava francamente nella sua ultima malattia. E mi fu raccontato da testimonii di udito, del maraviglioso spirito, degli argutissimi motti e risposte, di una prontezza affatto straordinaria di mente e di lingua, di una prodigiosa facilità, fecondità e copia d'invenzioni che si fece osservare in un vecchio Cardinale (Riganti) (non molto usato a facezie, nè di molto spirito, e di carattere ben diverso dalla energia, e rapidità e mobilità) poco dopo essere stato colto da una apoplessia (della quale infermità rimase impedito nelle membra, e morì parecchi mesi appresso), e stando in letto. Esempio di Ermogene, e de' suoi simili che puoi vedere nella Dissertaz. del Cancellieri sugli Smemorati ec. Corrispondenza che, generalmente parlando, si osserva tra gl'ingegni e i caratteri degli uomini per una parte, e le rispettive complessioni dall'altra. Pazzi e frenetici; febbricitanti, deliranti. La malattia cambia talora, com'è detto, l'ingegno e il carattere o per sempre, o per momenti, o per più o men tempo: ciò massimamente quando ella interessa in particolare il cerebro. Il quale se può essere notabilissimamente diversificato dalle malattie e dalle varie circostanze e accidenti che accadono durante [3204] la vita a uno stesso uomo, non si può non credere e giudicare che la tanta e inesauribile diversità delle circostanze e degli accidenti che concorrono nella generazione de' vari individui, non diversifichi siccome le loro complessioni, e questa o quella parte del corpo, così eziandio quella in che risiede l'ingegno e l'animo, cioè il cerebro, e quindi il talento e l'indole nativa e primitiva de' vari individui, nazioni ec. 4. L'uomo, anche indipendentemente affatto dalle assuefazioni, ossia in parità di studi, di esercizi, di scienza, di pratica ec., si trova, per così dir, vario d'indole e di talento da se medesimo ancora, non solo dentro la vita, ma dentro la stessa giornata eziandio. Oggi il mio ingegno sarà svegliatissimo, la mia indole piacevolissima, domani tutto l'opposto, senz'alcuna cagione morale nè apparente, ma certo non senza cagioni fisiche, le quali diversamente affettando l'animo, lo tramutano effettivamente d'ora in ora, di giorno in giorno, di stagione in istagione (fu chi disse ch'ei si trovava più atto a comporre nel sommo caldo o nel sommo freddo che nelle medie temperature dell'anno; la [3205] mattina che la sera ec.) ec. ec. e lo ritornano nello stato di prima, ed ora lo rendono atto a una cosa, ora a un'altra, ora a più cose ora a meno, ora più ora meno atto ec. ec. Le diverse circostanze fisiche che evidentemente influiscono, cambiano, recano, tolgono, accrescono, scemano, diversificano ec. ec. le passioni o inclinazioni in uno stesso individuo, in diversi individui, in varie nazioni e climi e tempi ec. indipendentemente affatto e dalla volontà e dall'assuefazione; son tante e sì varie che infinito sarebbe il volerle enumerare e descrivere, coi loro (evidentissimi e incontrastabili) effetti. 5. Spessissimo l'ingegno è svegliato da cause fisiche manifeste ed apparenti, come un suono dolce, o penetrante, gli odori, il tabacco, il vino eccetera (18) e quel che dico dell'ingegno, dicasi delle passioni, de' sentimenti, dell'indole ec.; e quel che dico dello svegliare, dicasi del sopire, del muovere, dell'affettare, modificare come che sia, dell'accrescere, dello sminuire, del produrre, del distruggere o per sempre o per certo tempo ec. Tutti questi effetti nei casi qui considerati, non hanno a far coll'assuefazione, e dimostrano per conseguenza che lo spirito dell'uomo [3206] può esser modificato e diversamente conformato da cause, circostanze e accidenti fisici diversi dalle assuefazioni. Così p.e. la luce è naturalmente cagione di allegria, siccome il suono, e le tenebre di malinconia; quella eccita sovente l'immaginazione, ed ispira; queste la deprimono ec. Un luogo, un appartamento, un clima chiaro e sereno, o torbido e fosco, influiscono sulla immaginativa, sull'ingegno, sull'indole degli abitanti, sieno individui o popoli, indipendentemente dall'assuefazione. Così una stagione, una giornata, un'ora nuvolosa o serena; il trovarsi per più o men tempo in un luogo qualunque oscuro o luminoso, senza però abitarvi, tutte queste circostanze fisiche, indipendenti dall'assuefazione e dalle circostanze morali, affettano, quali momentaneamente quali durevolmente, lo spirito dell'uomo, e variamente lo dispongono, e ne producono le assuefazioni, e le differenze di queste ec. ec. ec. (19. Agosto. 1823.). V. p. 3344. Dimostrato che nell'idea del bello non convengono nè gli uomini naturali fra loro, nè gli spiriti incorrotti e semplici come quelli de' fanciulli, e quindi ch'essa idea non si trova una in natura; e che d'altronde gli uomini colti, savi, esercitati, profondi, [3207] gli artisti medesimi e i poeti ec. disconvengono circa il bello, ed anche in cose essenziali, più o meno, secondo la differenza delle nazioni, climi, opinioni, assuefazioni, costumi, generi di vita, secoli; disconvengono, dico, eziandio bene spesso dove credono di convenire (perocchè tra loro non s'intendono); disconvengono tra loro, e dai fanciulli, e dagli uomini o naturali o ignoranti; e che tali differenze circa l'idea del bello, si trovano fra individuo e individuo in una stessa nazione, si trovano in un medesimo individuo in diverse età e circostanze, si trovano, e costantemente, fra nazione e nazione, clima e clima, secolo e secolo, civili e non civili; si trovano fra barbari e barbari, dotti e dotti, ignoranti e ignoranti, selvaggi e selvaggi, colti e colti, più e men barbari, più e men civili, fanciulli e fanciulli, adulti e adulti, intendenti e intendenti, artisti ed artisti, speculatori e speculatori, filosofi e filosofi; dimostrato, dico, tutto questo, come ho già fatto in molti luoghi, viene a esser provato che il bello ideale, unico, eterno, immutabile, universale, è una chimera, poichè nè la natura l'insegna o lo mostra, nè i filosofi o gli artisti l'hanno mai scoperto o lo scuoprono, a forza di osservazioni [3208] e di cognizioni, come si sono scoperte e si scuoprono le altre idee stabili e invariabili appartenenti alle scienze del vero ec. ec. (20. Agosto. 1823.) Che quello che nella musica è melodia, cioè l'armonia successiva de' tuoni, o vogliamo dire l'armonia nella successione de' tuoni, sia determinata, come qualsivoglia altra armonia ovver convenienza dall'assuefazione, o da leggi arbitrarie; osservisi che le melodie musicali non dilettano i non intendenti, se non quanto la successione o successiva collegazione de' tuoni in esse è tale, che il nostro orecchio vi sia assuefatto; cioè in quanto esse melodie o sono del tutto popolari, sicchè il popolo, udendone il principio, ne indovina il mezzo e il fine e tutto l'andamento, o s'accostano al popolare, o hanno alcuna parte popolare che al popolare si accosti. Nè altro è nelle melodie musicali il popolare, se non se una successione di tuoni alla quale gli orecchi del popolo, o degli uditori generalmente, siano per qualche modo assuefatti. E non per altra cagione riesce universalmente grata la musica di Rossini, se non perchè [3209] le sue melodie o sono totalmente popolari, e rubate, per così dire, alle bocche del popolo; o più di quelle degli altri compositori, si accostano a quelle successioni di tuoni che il popolo generalmente conosce ed alle quali esso è assuefatto, cioè al popolare; o hanno più parti popolari, o simili, ovver più simili che dagli altri compositori non s'usa, al popolare. E siccome le assuefazioni del popolo e dei non intendenti di musica, circa le varie successioni de' tuoni, non hanno regola determinata e sono diverse in diversi luoghi e tempi, quindi accade che tali melodie popolari o simili al popolare, altrove piacciano più, altrove meno, ad altri più, ad altri meno, secondo ch'elle agli uditori riescono o troppo note e usitate; o troppo poco; o quanto conviene, colla competente novità che lasci però luogo all'assuefazione di far sentire in quelle successioni di tuoni la melodia, la qual dall'assuefazione degli orecchi è determinata. Onde una medesima melodia musicale piacerà più ad uno che ad altro individuo, più in [3210] una che in altra città, piacerà universalmente in Italia, o piacerà al popolo e non agl'intendenti, e trasportata in Francia o in Germania, non piacerà punto ad alcuno, o piacerà agl'intendenti e non al popolo; secondo che le assuefazioni di ciascheduno orecchio circa le successioni de' tuoni, saranno più o meno o nulla conformi o affini agli elementi o membri (μέλη) che comporranno essa melodia, ovvero a quello che si chiama il motivo. E di qui, e non d'altronde, nasce la diversità de' gusti musicali ne' diversi popoli. Dico ne' popoli, e non dico negl'intendenti, i quali avendo tutti un'arte uniforme, distinta in regole, universalmente abbracciata e riconosciuta, co' suoi principii fissi e invariabili e universali, siccome quelli di qualsivoglia altra scienza che tale è in Italia quale in Polonia, in Portogallo, in Isvezia; nel giudicare di una melodia musicale, non mirano all'orecchio, ma alle regole e a' principii ch'essi hanno nella loro arte o scienza, cioè nel contrappunto; ed essendo esse regole e principii dappertutto gli stessi e dappertutto ugualmente riconosciuti, i giudizi che i diversi intendenti pronunziano non possono grandemente [3211] disconvenire gli uni dagli altri, e tanto meno quanto essi più sono intendenti. Ma non così de' popoli, e de' non intendenti, i quali non hanno altra regola e canone che l'orecchio, e questo non ha altri principii che le sue proprie assuefazioni, e non già alcuni dettati e infusi universalmente dalla natura, come si crede. E però le nostre melodie non paiono pur melodie a' turchi a' Cinesi nè ad altri barbari, o diversamente da noi, civili. Che se questi pure alcuna volta se ne dilettano, il diletto non nasce in loro dalla melodia, cioè dal senso della successiva armonia de' tuoni, la quale essi non sentono nè comprendono, posto pur ch'ella fusse tra noi l'una delle più popolari; ma nasce da' puri suoni per se, e dalla delicatezza, facilità, rapidità, volubilità del loro succedersi, mescolarsi, alternarsi (sia nella voce o in istrumenti), dalla dolcezza delle voci o degl'istrumenti, dal sonoro, dal penetrante e da simili qualità de' medesimi, dalla soavità eziandio de' rapporti rispettivi d'un tuono coll'altro in quanto alla facilità e alla delicatezza del passaggio da questo a quello (laddove i passaggi nelle [3212] musiche de' barbari sono asprissimi, perchè fatti da tuoni a tuoni troppo lontani o da corde a corde troppo distanti), e insomma da cento qualità (per così dire, estrinseche) della nostra musica che nulla hanno a fare colla rispettiva scambievole armonia o convenienza de' tuoni nella lor successione, cioè colla melodia, e col senso e gusto della medesima, che nè i turchi nè gli altri barbari, udendo la nostra musica, non provano punto mai. La qual cosa appunto, salva però la proporzione, accade ai non intendenti di musica e al popolo fra noi, quando egli odono, come tutto dì avviene, di quelle melodie che nulla o troppo poco hanno del popolare. Niun diletto ne provano, se non quello, per così dire, estrinseco, che di sopra ho descritto, e che nasce dalle qualità della musica, diverse e indipendenti dall'armonia de' tuoni nella successione. Di queste non popolari melodie, che sono la più gran parte della nostra musica, parlerò poco sotto. E per conchiudere il discorso de' barbari e delle nazioni che hanno circa la musica idee e gusti e sentimenti affatto diversi da' nostri, dico che in essi, siccome [3213] fra noi, le assuefazioni determinano quali sieno le successive collegazioni de' tuoni che sieno tenute per melodie, e le assuefazioni cagionano, siccome fra noi, il senso e il piacere d'esse melodie, quando elle sono udite. E questo, se in essi popoli, non v'ha teoria musicale, accade a tutta la nazione. Se alcun d'essi popoli ha teoria musicale, come l'hanno i Chinesi, diversa però dalla nostra, gl'intendenti fra loro hanno altra cagione che determina il loro giudizio e produce in loro il diletto circa le melodie; e questa cagione si è, come nei nostri intendenti, la conformità di quelle cotali successioni de' tuoni co' principii e i canoni della loro teoria o arte o scienza musicale, i quali principii e canoni essendo diversi da' nostri, diverso eziandio dev'essere il giudizio di quegl'intendenti circa le varie, o nazionali o forestiere, melodie, da quello de' nostri, e diverso similmente il piacere. E così è infatti nella China, dove e il popolo (che dappertutto, dovunque esiste una musica, avrebbe giudicato nello stesso modo) e gl'intendenti (il che non potrebbe avvenire nelle nazioni barbare che non hanno teoria musicale [3214] sufficientemente distinta per principii e regole, e ordinata e compiuta, come l'hanno i Chinesi), giudicarono espressamente più bella la loro musica che l'Europea, la quale i nostri, favoriti in ciò espressamente da un loro imperatore, volevano introdurvi, insieme colle nostre teorie. E ciò furono, se ben mi ricorda, i Gesuiti. Ho detto in principio che la melodia nella musica non è determinata se non dall'assuefazione o da leggi arbitrarie. Delle melodie determinate dall'assuefazione, e che per ciò sono melodie, perchè quelle tali successioni di tuoni convengono con quelle che gli orecchi sono assuefatti a udire, ho discorso fin qui. Le melodie determinate da leggi arbitrarie, sono quelle che il popolo e i non intendenti non gustano, se non se nel modo specificato di sopra, senza nè conoscere nè sentire ch'elle sieno melodie, cioè che quei tuoni così succedendosi e intrecciandosi e alternandosi, armonizzino, cioè convengano, tra loro; quelle che pel popolo e per li non intendenti, non sono infatti melodie, ma solo per gl'intendenti; quelle che gl'intendenti soli gustano in virtù del giudizio, quali sono infiniti altri diletti umani (v. Montesquieu, Essai sur le goût. De la sensibilité. p. 392.), massime nelle arti; quelle che non [3215] sono melodie se non perchè ed in quanto corrispondono alle regole circa la successiva combinazione de' tuoni, consegnate in una scienza o arte, non dettata dalla natura ma dalla matematica, universale e universalmente riconosciuta in Europa, come lo sono tutte le altre arti e scienze in questa parte del mondo legata insieme dal commercio e da una medesima civiltà ch'ella stessa si è fabbricata e comunicata di nazione a nazione, ma non riconosciuta fuori d'Europa nè dalle nazioni non civili, nè da quelle che hanno un'altra civiltà da esse fabbricata o d'altronde venuta; qual è sopra tutte la nazion Chinese, la quale ed ha una scienza musicale, e in essa non conviene punto con noi. Ho detto che la nostra scienza o arte musicale fu dettata dalla matematica. Doveva dire costruita. Essa scienza non nacque dalla natura, nè in essa ha il suo fondamento, come le più dell'altre; ma ebbe origine ed ha il suo fondamento in quello che alla natura somiglia e supplisce e quasi equivale, in quello ch'è giustamente chiamato seconda natura, ma che altrettanto a torto quanto [3216] facilmente e spesso è confuso e scambiato, come nel caso nostro, colla natura medesima, voglio dire nell'assuefazione. Le antiche assuefazioni de' greci (per non rimontar più addietro, che nulla rileva al proposito) furono l'origine e il fondamento della scienza musicale da' greci determinata, fabbricata, e a noi ne' libri e nell'uso tramandata, dalla qual greca scienza, viene per comun consenso e confessione la nostra europea, che non è se non se una continuazione, accrescimento e perfezione di quella, siccome tante altre e scienze ed arti (anzi quasi tutte le nostre) che la moderna Europa ricevè dall'antica Grecia e perfezionò, e a molte cangiò faccia appoco appoco del tutto. La greca musica popolare, le ragioni della quale non altrove erano che nell'assuefazione (siccome quelle di qualsivoglia musica popolare), fu l'origine, il fondamento, e per così dir l'anima e l'ossatura della musica greca scientifica, e quindi altresì della nostra, che di là viene. Ma siccome accade a tutte le arti ch'elle col crescere, col perfezionarsi, col maggiormente determinarsi, si dilungano appoco appoco da ciò che fu loro origine, fondamento, subbietto primitivo e ragione, o fosse la natura [3217] o l'assuefazione o altro, e talvolta giungono fino a perderlo affatto di vista, ed esser fondamento e ragione a se stesse, il che è intervenuto in buona parte alla poetica, intervenne ancora all'arte musica. (19) Quindi è che spessissimo sia giudicato buono ed ottimo dagl'intendenti, e perciò piaccia loro sommamente, e che sia melodia per essi, quello che dal popolo e da' non intendenti è giudicato o mediocre o cattivo, che poco o niun effetto produce in essi, che poco o nulla gli diletta, che per essi non è assolutamente melodia: sebbene ei lodano sovente ed ammirano cotali composizioni di tuoni, o in vista delle qualità indipendenti dall'armonizzare della loro combinazione successiva, che di sopra ho descritte, o mossi dalla fama del compositore, o dalla voce degl'intendenti, o dal favore, o dal diletto altre volte ricevuto nelle composizioni del medesimo, o dalla coscienza della propria ignoranza, o dalla maraviglia delle difficoltà e stranezze che in tali composizioni ravvisano, o dalla stessa novità, benchè per essi nulla dilettevole musicalmente, o in fine da cento altre cause estrinseche e accidentali, o diverse e indipendenti dal diletto che nasce dal senso della melodia, cioè della convenienza scambievole de' tuoni nel succedersi [3218] l'uno all'altro. E per lo contrario interviene spessissimo che quelle successioni de' tuoni le quali per il popolo sono squisitissime, carissime, bellissime, spiccatissime e dilettosissime melodie, non ardisco dire non piacciano agli orecchi degl'intendenti, ma con tutto ciò dispiacciano al loro giudizio, e ne sieno riprovate, tanto che per essi talora non sieno neppur melodie quelle che per tutti gli orecchi e per li loro altresì, sono melodie distintissime, evidentissime, notabilissime e giocondissime. Il che si può vedere in fatto nel giudizio degl'intendenti circa il comporre di Rossini, e generalmente circa il modo della moderna composizione, la quale da tutti è sentita esser piena di melodia molto più che le antiche e classiche, e da chiunque sa è giudicata non reggere in grammatica ed essere scorrettissima e irregolare. Tutto ciò non per altro accade se non perchè gl'intendenti giudicano, e giudicando sentono (cioè col fattizio, ma reale sensorio dell'intelletto e della memoria) secondo i principii e le norme della loro scienza; e i non intendenti sentono e sentendo giudicano secondo le loro assuefazioni relative al proposito. Le quali assuefazioni segue e si propone [3219] o loro si accosta il moderno modo di comporre, assai più che l'antico, ignorando o trascurando più o manco i canoni dell'arte, di che gli antichi furono peritissimi e religiosissimi osservatori. Con queste considerazioni s'intenderà facilmente il perchè nelle melodie sia, come si dice, difficilissima e rarissima la novità, cioè solo difficilissimamente e di rado possa il Musico trovare nuove melodie. Il che mirabilmente conferma le mie osservazioni. Perocchè veramente il disporre in nuove maniere la scambievole successione de' tuoni secondo le regole dell'arte musicale, non è punto difficile, essendo infinite le diversità di combinazioni successive sia di tuoni sia di corde (cioè generalmente di note) a cui esse regole danno luogo. Ma limitatissime e poche, e non più assolutamente che tante, sono le assuefazioni de' nostri orecchi; ond'è che pochissime sieno quelle combinazioni successive di tuoni (dico pochissime rispetto all'immenso numero d'esse combinazioni assolutamente considerate) che possano parer melodie all'universale, o al più di una nazione o secolo, e produrre in esso il diletto che nasce dal senso della melodia. Ed infatti nuove melodie, [3220] che tali sieno per gl'intendenti e rispetto all'arte, non sono in verità punto rare, nè difficili a inventarsi, e di esse si compone la massima parte di qualsivoglia opera musicale, non solo antica e classica, ma moderna italiana eziandio, benchè le moderne italiane abbiano, come ho detto, più melodia popolare che le antiche e straniere; cioè maggiormente seguano le assuefazioni de' nostri orecchi, ed un più gran numero delle loro melodie contraffacciano o imitino, o in tutto o in qualche parte o nel motivo somiglino le successioni di tuoni e note, a cui sono assuefatti generalmente gli uditori. E in verità, se non fosse la memoria, che anche involontariamente e inavvertitamente subentra a pigliar parte nella composizione, più difficile sarebbe forse al compositore l'abbattersi a trovar melodie non popolari già da altri trovate, che non il trovarne delle nuove, conformi alle regole musicali. Certo è che la principale, anzi la vera arte degl'inventori di musica, e il vero, proprio musicale, e grande effetto delle loro invenzioni, allora solo si manifesta ed ha luogo quando le loro melodie son tali che il popolo e generalmente tutti gli uditori ne sieno colpiti e maravigliati come di [3221] melodia nuova, e nel tempo medesimo, per essere in verità assuefatti a quelle tali succcessioni di tuoni, sentano al primo tratto ch'ella è melodia. Il qual effetto, proprio, anzi solo proprio della vera vera musica, e solo grande, solo vivo, solo universale, non altrimenti si ottiene che coll'adornare, abbellire, giudiziosamente e fino al debito segno variare, nobilitare per dir così, nuovamente fra loro congiungere e disporre, presentare sotto un nuovo aspetto le melodie assolutamente e formalmente popolari, e tolte dal volgo, e le varie e sparse forme di successioni di note, che gli orecchi generalmente conoscono, e vi sono assuefatti. Non altrimenti che il poeta, l'arte del quale non consiste già principalmente nell'inventar cose affatto ignote e strane e a tutti inaudite, o nello sceglier le cose meno divulgate, anzi ciò facendo egli più tosto pecca e perde e toglie all'effetto della poesia, di quel che gli aggiunga; ma l'arte sua è di scegliere tra le cose note le più belle, nuovamente e armoniosamente, cioè fra loro convenientemente, disporre [3222] le cose divulgate e adattate alla capacità dei più, nuovamente vestirle, adornarle, abbellirle, coll'armonia del verso, colle metafore, con ogni altro splendore dello stile; dar lume e nobiltà alle cose oscure ed ignobili; novità alle comuni; cambiar aspetto, quasi per magico incanto, a che che sia che gli venga alle mani; pigliare v. g. i personaggi dalla natura, e farli naturalmente parlare, e nondimeno in modo che il lettore riconoscendo in quel linguaggio il linguaggio ch'egli è solito di sentire dalle simili persone nelle simili circostanze, lo trovi pur nel medesimo tempo, nuovo e più bello, senz'alcuna comparazione, dell'ordinario, per gli adornamenti poetici, e il nuovo stile, e insomma la nuova forma e il nuovo corpo di ch'egli è vestito. Tale è l'officio del poeta, e tale nè più nè meno del Musico. Ma siccome la poesia bene spesso, lasciata la natura, si rivolse per amore di novità e per isfoggio di fantasia e di facoltà creatrice, a sue proprie e stravaganti e inaudite invenzioni, e mirò più alle regole e a' principii che l'erano stati assegnati, di quello che al suo fondamento ed anima ch'è [3223] la natura; anzi lasciata affatto questa, che aveva ad essere l'unico suo modello, non altro modello riconobbe e adoperò che le sue proprie regole, e su d'esso modello gittò mille assurde e mostruose o misere e grette opere; laonde abbandonato l'officio suo ch'è il sopraddetto, sommamente stravolse e perdè, o per una o per altra parte, di quell'effetto che a lei propriamente ed essenzialmente si convenia di produrre e di proccurare; così l'arte musica nata per abbellire, innovare decentemente e variare e per tal modo moltiplicare; ordinare, regolare, simmetrizzare o proporzionare, adornare, nobilitare, perfezionare insomma le melodie popolari e generalmente note e a tutti gli orecchi domestiche; com'ella ebbe assai regole e principii, e d'altronde s'invaghì soverchiamente della novità, e dell'ambiziosa creazione e invenzione, non mirò più che a se stessa, e lasciando di pigliare in mano le melodie popolari per su di esse esercitarsi, e farne sua materia, come doveva per proprio istituto; si rivolse alle sue regole, e su questo modello, senz'altro, gittò le sue composizioni [3224] nuove veramente e strane: con che ella venne a perdere quell'effetto che a lei essenzialmente appartiene, ch'ella doveva proporsi per suo proprio fine, e ch'ella da principio otteneva, quando cioè lo cercava, o quando coi debiti e appropriati mezzi lo proccurava. Perocchè io non dubito che i mirabili effetti che si leggono aver prodotto la musica e le melodie greche sì ne' popoli, ossia in interi uditorii, sì negli eserciti, siccome quelle di Tirteo, sì ne' privati, come in Alessandro; effetti tanto superiori a quelli che l'odierna musica non solo produca, ma sembri pure, assolutamente parlando, capace di mai poter produrre; effetti che necessitavano i magistrati i governi i legislatori a pigliar provvidenze e fare regolamenti e quando ordini, quando divieti, intorno alla musica, come a cosa di Stato (v. il Viag. d'Anacarsi, Cap. 27. trattenimento secondo); (e parlo qui degli effetti della musica greca che si leggono nelle storie e avvenuti fra' greci civili, non di que' che s'hanno nelle favole, accaduti a' tempi salvatichi); non [3225] dubito, dico, che questi effetti, e la superiorità della greca musica sulla moderna, che pur quanto a' principii ed alle regole, dalla greca deriva, non venga da questo, ch'essendo fra' greci l'arte musicale, sebbene adulta, pur tuttavia ancora scarsa, non offriva ancora abbastanza al compositore da coniare o inventar di pianta nuove melodie che niun'altra ragione avessero di esser tali se non le regole sole dell'arte; nè da poter gittarne sopra queste regole unicamente, o sopra le forme e melodie musicali da altri inventate di pianta, delle quali non poteva ancora avervi così gran copia, come ve n'ha tra' moderni. Ma quel ch'è più, l'arte, sebben cominciò anche tra' greci a corrompersi e declinare da' suoi principii, e da' suoi propri obbietti o fini e instituti, anzi molto avanzò nella corruzione (v. Viag. d'Anac. l. c.), non giunse tuttavia di gran lunga ad allontanarsi tanto come tra noi, e così decisamente e costantemente, dalla sua prima origine, dal primo fondamento e ragione delle sue regole, dalla prima materia delle sue composizioni, cioè le popolari melodie; nè a dimenticare, [3226] come oggi, impudentemente e totalmente il suo primo e proprio fine, cioè di dilettare e muovere l'universale degli uditori ed il popolo; nè, molto meno, giunse a rinunziar quasi interamente e formalmente a questo fine, e scambiarlo apertamente in quello di dilettare, o maravigliare, o costringere a lodare e applaudire una sola e sempre scarsissima classe di persone, cioè quella degl'intendenti: il quale per verità è il fine che realmente si propone la musica tedesca, inutile a tutti fuori che agl'intendenti, e non già superficiali, ma ben profondi. Non fu così la Musica greca. E in questo ravvicinamento della moderna musica al popolare, ravvicinamento così biasimato dagl'intendenti, e che sarà forse cattivo per il modo, ma in quanto ravvicinamento al popolare è non solo buono, ma necessario, e primo debito della moderna musica; in questo ravvicinamento, dico, vediamo quanto l'effetto della musica abbia guadagnato e in estensione, cioè nella universalità, e in vivezza, cioè nel maggior diletto, ed anche talor maggior commovimento degli animi. [3227] Che se in niuna parte, e meno in quest'ultima, gli effetti della moderna musica sono per anche paragonabili a quelli che si leggono della greca, è da considerarsi che l'uomo oggidì è disposto in modo da non lasciarsi mai veementemente muovere a nessuna parte; che analogamente a questa generale disposizione, neanche le melodie assolutamente popolari d'oggidì, son tali nè di tal natura che possano facilmente ricevere dal compositore una forma da produrre in veruno animo un più che tanto effetto; e che in ultimo i compositori non iscelgono nè quelle melodie popolari o parti di esse che meglio si adatterebbero alla forza e profondità dell'effetto, nè in quelle che scelgono, ci adoprano quei mezzi che si richieggono a produrre un effetto simile, nè così le lavorano e dispongono come converrebbe per tal uopo: e ciò non fanno perchè nol vogliono e perchè nol sanno. Nol sanno perchè privi essi medesimi d'ispirazione veramente sublime e divina, e di sentimenti forti e profondi nel comporre in qualsiasi genere, non possono nè scegliere nè usar lo scelto in modo da [3228] produr negli uditori queste siffatte sensazioni ch'essi mai non provarono nè proveranno. Nol vogliono, perchè appunto non conoscendo tali sensazioni, nulla o ben poco le stimano, nè altro fine si propongono che il diletto superficiale e il grattar gli orecchi, al che di gran lunga pospongono le grandi e nobili e forti emozioni, di cui mai non fecero esperimento. Ma che maraviglia? quando gli antichi musici erano i poeti, quegli stessi che per la sublimità de' concetti, per la eleganza e grandezza dello spirito brillano nelle carte che di loro ci rimangono, o perdute queste coi ritmi da loro inventati e applicativi, vivono immortali i loro nomi nella memoria degli uomini, e ciò talora eziandio per egregi e magnanimi fatti? E quando all'incontro i moderni musici, stante le circostanze della loro vita, e delle moderne costumanze a loro riguardo, sono per corruzione, per delizie, per mollezza e bassezza d'animo il peggio del peggior secolo che nelle storie si conti? la feccia della feccia delle generazioni? Da vita, opinioni e costumi vili, adulatorii, dissipati, [3229] effeminati, infingardi, come può nascer concetto alto, nobile, generoso, profondo, virile, energico? Ma questo discorso porterebbe troppo innanzi, e condurrebbe necessariamente al parallelo della musica e de' musici colle altre arti e loro professori, a quello della moderna musica coll'antica, e delle moderne usanze colle antiche relative al proposito; e finalmente a trattare della funesta separazione della musica dalla poesia e della persona di musico da quello di poeta, attributi anticamente, e secondo la primitiva natura di tali arti, indivise e indivisibili (v. il Viag. d'Anac. l. c. particolarmente l'ult. nota al c. 27.). Il qual discorso da molti è stato fatto, e qui non sarebbe che digressione. Però lo tralascio. Tornando al nostro primo proposito, il qual fu di mostrare che l'armonia o convenienza scambievole de' tuoni nelle loro combinazioni successive, è determinata, siccome ogni altra convenienza, dall'assuefazione; si vuol notare che quest'assuefazione in fatto di melodie (come anche di armonie) non è sempre aétñmatow del popolo, [3230] ma bene spesso in lui prodotta e originata dalla stessa arte musica. Perocchè a forza di udir musiche e cantilene composte per arte, (il che a tutti più o meno accade) anche i non intendenti, anzi affatto ignari della scienza musicale, assuefanno l'orecchio a quelle successioni di tuoni che naturalmente essi non avrebbero nè conosciute nè giudicate per armoniose (o ch'elle sieno inventate di pianta dagli uomini dell'arte, o da loro fabbricate sulle melodie popolari, e di là originate); in virtù della quale assuefazione essi giungono appoco appoco e senza avvedersi del loro progresso, a trovare armoniose tali successioni, a sentirvi una melodia, e quindi a provarvi un diletto sempre maggiore, e a formarsi circa le melodie una più capace, più varia, più estesa facoltà di giudicare, la qual facoltà, che in altri arriva a maggiore in altri a minor grado, è poi per essi cagione del diletto che provano nell'udir musiche; giudizio e diletto determinato, dettato, e cagionato, non già dalla natura primitiva e universale, ma dall'assuefazione accidentale e varia secondo i tempi, i luoghi e le nazioni. [3231] Io di me posso accertare che nel mio primo udir musiche (il che molto tardi incominciai) io trovava affatto sconvenienti, incongrue, dissonanti e discordevoli parecchie delle più usitate combinazioni successive di tuoni, che ora mi paiono armoniche, e nell'udirle formo il giudizio e percepisco il sentimento della melodia. Nè più nè meno accade nella pittura, scultura, architettura. Senz'alcuna cognizione della teoria, nè della pratica immediata dell'arte, a forza di veder dipinti, statue, edifizi, moltissimi si formano un giudizio, e una facoltà di gustare e di provar piacere in tal vista, e nella considerazione di tali oggetti, la qual facoltà non aveano per l'innanzi, e si acquista appoco appoco per mezzo dell'assuefazione, la quale determina in questi tali (e sono i più che parlino di belle arti) l'idea delle convenienze pittoriche ec. del bello ec. e quindi anche del brutto ec., col divario che il soggetto della pittura e scultura si è l'imitazione degli oggetti visibili, della quale ognun vede la verità o la falsità, onde le idee del bello e del brutto pittorico e scultorio, in quanto queste arti sono imitative, è già determinata in ciascheduno prima dell'assuefazione Non così nell'architettura e nella musica, meno imitative, e questa imitativa di cose non visibili ec. Così discorrasi in ordine alla poesia, ed al gusto e giudizio che l'uomo se ne forma e n'acquista, ec. Nel detto modo si formano i mezzi-intendenti, più o meno capaci di giudicare e quindi di provar diletto nelle composizioni musicali, cioè che più o meno hanno udito e riflettuto in questo genere e postovi attenzione. I quali mezzi-intendenti costituiscono la massima parte di quelli che parlano di musica e di quel pubblico che dà espressamente il suo voto circa le composizioni musicali che compariscono, giacchè i periti veramente della scienza musica e conoscitori di essa per elementi e regole, sono ben pochi rispetto al pubblico. Or dunque molte che si chiamano melodie popolari, hanno il loro fondamento nell'assuefazione de' mezzi-intendenti, o del popolo in quanto [3232] assuefatto a udir musiche. E delle composizioni successive di note, altre riescono melodie a tutti gli orecchi, altre a quelli di chiunque è pure un poco intendente (cioè assuefatto), altre ai mezzi-intendenti più avanzati, altre ai soli veri e perfetti intendenti, ed altre a questi più a quelli meno, o viceversa, eccetera. E così il giudizio e il senso della melodia sempre nasce e dipende ed è determinato dall'assuefazione, o dalla cognizione di leggi che non hanno la loro ragione nella natura universale, ma nell'accidentale e particolare uso presente o passato, e in altre tali cose, le quali leggi ho chiamato di sopra arbitrarie. E tutto ciò sia aggiunto per ispiegare e distinguere e quasi classificare quello ch'io intenda per popolare nella musica, per melodia popolare, e per assuefazione degli orecchi determinante la scambievole convenienza delle note nella loro scambievole successione e collegamento. Del resto poi le assuefazioni che di sopra ho chiamato αὐτόματοι del popolo, (voglio dire dell'universale) nascono ed hanno origine da varie cagioni, e fra l'altre dalla natura, indipendentemente però da veruna naturale [3233] convenienza scambievole di quali si sieno tuoni, ma solo in tanto in quanto p.e. certe passioni naturalmente e universalmente amano certi tali tuoni e certi tali passaggi da un tal tuono a un tal altro. La qual cosa che nulla ha che fare coll'assoluta convenienza di tal tuono a tal tuono, (perocchè qui la ragione della convenienza de' tuoni non istà nella natura loro, nè nei loro naturali rapporti, ma è relativa alla natura dell'uomo che indipendentemente dalla convenienza, ama in quel tal caso quel tuono e quel passaggio) fu l'origine delle melodie, le quali furono da principio, siccome sempre avrebbero dovuto e dovrebbero essere, imitative; bensì tali che abbellivano ed ornavano e variavano la natura, colla scelta, colla disposizione, coll'atta mescolanza e congiungimento, e di più colla delicatezza, grazia, mobilità ec. degli organi o naturali (coltivati ed esercitati), o artifiziali inventati e perfezionati. Nè più nè manco di quello che le poesie debbano, imitandola ornare, abbellire, variare e mostrar sotto nuovo abito la natura. Veggasi a questo proposito la citata nota ultima al Capo [3234] 27. del Viag. d'Anac. e quello che altrove ho detto sopra l'imitativo della musica, e sopra quella convenienza musicale che ha nella imitazione sola la sua ragione ed origine. E notisi che se nulla v'ha nella musica, sia nell'armonia sia nella melodia, che universalmente da tutti i popoli civili e barbari sia riconosciuto e praticato, o che in tutti faccia effetto; ciò si dee riferire alla natura operante nel modo detto di sopra, o in altri che si potrebbero dire, operante prima dell'assuefazione e indipendentemente da lei, ma indipendentemente altresì dalla convenienza e senz'alcuna relazione all'armonia. Oltre all'altre cagioni di universale effetto nella musica, indipendenti pure dalla convenienza, parte delle quali ho annoverate di sopra p.3211. sg., parte altrove, parte potrei annoverare. (20-21. Agos. 1823.) Alla p. 2998. ult. linea. Crepo is ui itum sarebbe come strepo is ui itum, da cui strepitare, come appunto da crepo as o is, crepitare. E crepo as riterrebbe o torrebbe in prestito il perfetto e il supino di crepo is, cioè crepui, itum, come appunto accubo ec. quelli di accumbo ec. cioè accubui itum. Profligo [3235] as è da fligo is, onde affligo is, confligo is ec. che hanno i continuativi afflicto, conflicto ec. fatti regolarmente da' participii. V. Forc. in Profligo e proflictus. (22. Agos. 1823.). V. p. 3246. e 3341. 3987. Saluto as si deriva da salus. Ma io l'ho in forte sospetto di continuativo fatto da salveo-salvitus (antico), mutato in salutus, ovvero da salvo, mutato il part. salvatus parimente in salutus. (V. Forc. in saluto, fin. e in Salvo). Giacchè spessissimo la lingua latina, massime antica, scambiava tra loro l'u e il v, mutando questo in quello, o per lo contrario. Così lavo ne' composti diviene luo: ed ablutus si dice in luogo di ablavatus. Così lautus per lavatus, fautam per favitum. A questo proposito noterò il continuativo lavito. Forcell. Cerebrum in fine. E commentor e commento, a particip. commentus verbi comminiscor (forse anche comminisco), dice il Forcell.; e notate che qui non dice dal supino, cioè da commentum, come suole. (22. Agos. 1823.) Platone nel Sofista verso il fine, ediz. dell'Astio, Opp. di Plat. Lips. 1819. sgg. t. 2. p. 362. v. 2. sgg. A. penult. pagina del Dialogo. Πόϑεν οὖν ὄνομα ἑκατέρῳ τις ἂν λὴψεται πρέπον; ἢ δῆλον δὴ χαλεπὸν ὄν, διότι τῆς τῶν γενῶν κατ᾽ εἴδη διαιρέσεως παλαιά τις, ώς ἔοικεν, αἰτία (ἴς. ἀηδία. Ast.) τοῖς ἔμπροσϑεν καὶ ἀξύννους παρῆν, ὥστε μηδ᾽ ἐπιχειρεῖν μηδένα διαιρεῖσϑαι∙ καϑὸ δὴ τῶν ὀνομάτων ἀνάγκη μὴ σϕόδρα εὐπορεῖν; [3236] Unde iam nomen utrique eorum quisquam arripiet conveniens? an dubium non est quin difficile sit, propterea quod ad generum in species distributionem vetustam quandam, ut videtur, et inconsideratam superiores habebant offensionem atque fastidium, ita ut ne conaretur quidem ullus dividere; quocirca etiam nomina non satis nobis possunt in promptu esse? Astius. Vuol dir Platone e si lagna, che gli antichi greci (e così tutti gli antichi d'ogni nazione) ebbero poche idee elementari, onde la loro lingua (e così tutte le lingue fino a una perfetta maturità e coltura, e fino che la nazione non filosofa) mancava di termini esatti, e sufficienti ai bisogni del dialettico massimamente e del metafisico. Ond'è che Platone il quale volle sottilmente filosofare, ed esercitare l'esatto raziocinio, e considerare profondamente la natura delle cose, fu arditissimo nel formare de' termini di questa fatta, ed abbonda sommamente di voci nuove e sue proprie, esatte e logiche ovvero ontologiche, (20) che da niuno altro si trovano adoperate, o che da' suoi scritti furono tolte. E notisi che Platone faceva questa lagnanza della sua [3237] lingua, la più ricca, la più feconda, la più facile a produrre, la più libera, la più avvezza e meno intollerante di novità, ed oltre a questo, nel più florido, perfetto ed aureo secolo d'essa lingua, e quasi ancora nel più libero e creatore. Nondimeno a Platone parve scarsa a' bisogni dell'esatto filosofare la stessa lingua greca nel suo miglior tempo, e trattando materie sottili egli ebbe bisogno di parere ardito agli stessi greci in quel secolo, e di fare scusa e addur la ragione del suo coniar nuove voci. Nè certo si dirà che Platone le coniasse o per trascuratezza e poco amore della purità ed eleganza della lingua, di ch'egli è fra gli Attici il precipuo modello, nè per ignoranza d'essa lingua, e povertà di voci derivante da questa ignoranza. (22. Agos. 1823.) Chiunque esamina la natura delle cose colla pura ragione, senz'aiutarsi dell'immaginazione nè del sentimento, nè dar loro alcun luogo, ch'è il procedere di molti tedeschi (21) nella filosofia, come dire nella metafisica e nella politica, potrà ben quello che suona il vocabolo analizzare, [3238] cioè risolvere e disfar la natura, ma e' non potrà mai ricomporla, voglio dire e' non potrà mai dalle sue osservazioni e dalla sua analisi tirare una grande e generale conseguenza, nè stringere e condurre le dette osservazioni in un gran risultato; e facendolo, come non lasciano di farlo, s'inganneranno; e così veramente loro interviene. Io voglio anche supporre ch'egli arrivino colla loro analisi fino a scomporre e risolvere la natura ne' suoi menomi ed ultimi elementi, e ch'egli ottengano di conoscere ciascuna da se tutte le parti della natura. Ma il tutto di essa, il fine e il rapporto scambievole di esse parti tra loro, e di ciascuna verso il tutto, lo scopo di questo tutto, e l'intenzion vera e profonda della natura, quel ch'ella ha destinato, la cagione (lasciamo ora star l'efficiente) la cagion finale del suo essere e del suo esser tale, il perchè ella abbia così disposto e così formato le sue parti, nella cognizione delle quali cose dee consistere lo scopo del filosofo, e intorno alle quali si aggirano insomma tutte le verità generali veramente grandi e importanti, queste cose, dico, è impossibile il ritrovarle [3239] e l'intenderle a chiunque colla sola ragione analizza ed esamina la natura. La natura così analizzata non differisce punto da un corpo morto. Ora supponghiamo che noi fossimo animali di specie diversa dalla nostra, anzi di natura diversa dalla general natura degli animali che conosciamo, e nondimeno fossimo, siccome siamo, dotati d'intendimento. Se non avendo noi mai veduto nè uomo alcuno nè animale di quelli che realmente esistono, e niuna notizia avendone, ci fosse portato innanzi un corpo umano morto, e notomizzandolo noi giungessimo a conoscerne a una a una tutte le più menome parti, e chimicamente decomponendolo, arrivassimo a scoprirne ciascuno ultimo elemento; perciò forse potremmo noi conoscere, intendere, ritrovare, concepire qual fosse il destino, l'azione le funzioni le virtù le forze ec., di ciascheduna parte d'esso corpo rispetto a se stesse, all'altre parti ed al tutto, quale lo scopo e l'oggetto di quella disposizione e di quel tal ordine che in esse patti scorgeremmo, e osserveremmo pure co' propri occhi, e colle proprie mani tratteremmo; quali gli effetti particolari e l'effetto generale e complessivo di esso ordine, e del tutto di esso corpo; quale il fine di questo tutto; quale insomma e che cosa la vita dell'uomo; anzi se quel corpo fosse mai e dovesse esser vissuto; [3240] anzi pure, se dalla nostra stessa vita non l'arguissimo, o se alcuno potesse intendere senza vivere, concepiremmo noi e ritrarremmo in alcun modo dalla piena e perfetta e analitica ed elementare cognizione di quel corpo morto, l'idea della vita? o vogliamo solamente dire l'idea di quel corpo vivo? e intenderemmo noi quale e che cosa fosse l'uomo vivente, e il suo modo di vivere esteriore o interiore? Io credo che tutti sieno per rispondere che niuna di queste cose intenderemmo; che volendole congetturare, andremmo le mille miglia lontani dal vero, o sarebbe a scommetter millioni contro uno che di nulla mai, neanche facendo un milione di congetture, ci apporremmo; finalmente ch'egli sarebbe cosa probabilissima, ch'esaminato e conosciuto quel corpo morto, in questa conoscenza ci fermassimo, e neppur ci venisse in sospetto ch'ei fosse mai stato altro, nè fosse mai stato destinato ad esser altro che quel che noi lo vedremmo, e tale qual noi lo vedremmo, nè della sua passata vita nè dell'uom vivo, ci sorgerebbe in capo la più menoma conghiettura. [3241] Applicando questa similitudine al mio proposito dico che scoprire ed intendere qual sia la natura viva, quale il modo, quali le cagioni e gli effetti, quali gli andamenti e i processi, quale il fine o i fini, le intenzioni, i destini della vita della natura o delle cose, quale la vera destinazione del loro essere, quale insomma lo spirito della natura, colla semplice conoscenza, per dir così, del suo corpo, e coll'analisi esatta, minuziosa, materiale delle sue parti anche morali, non si può, dico, con questi soli mezzi, scoprire nè intendere, nè felicemente o anche pur probabilmente congetturare. Si può con certezza affermare che la natura, e vogliamo dire l'università delle cose, è composta, conformata e ordinata ad un effetto poetico, o vogliamo dire disposta e destinatamente ordinata a produrre un effetto poetico generale; ed altri ancora particolari; relativamente al tutto, o a questa o quella parte. Nulla di poetico si scorge nelle sue parti, separandole l'una dall'altra, ed esaminandole a una a una col semplice lume della ragione esatta e geometrica: nulla di poetico ne' suoi mezzi, nelle sue forze e molle interiori o esteriori, ne' suoi processi in questo modo disgregati e considerati: nulla nella natura decomposta e risoluta, e quasi fredda, morta, esangue, immobile, giacente, per così dire, sotto il coltello anatomico, o introdotta nel fornello chimico di un [3242] metafisico che niun altro mezzo, niun altro istrumento, niun'altra forza o agente impiega nelle sue speculazioni, ne' suoi esami e indagini, nelle sue operazioni e, come dire, esperimenti, se non la pura e fredda ragione. Nulla di poetico poterono nè potranno mai scoprire la pura e semplice ragione e la matematica. Perocchè tutto ciò ch'è poetico si sente piuttosto che si conosca e s'intenda, o vogliamo anzi dire, sentendolo si conosce e s'intende, nè altrimenti può esser conosciuto, scoperto ed inteso, che col sentirlo. Ma la pura ragione e la matematica non hanno sensorio alcuno. Spetta all'immaginazione e alla sensibilità lo scoprire e l'intendere tutte le sopraddette cose; ed elle il possono, perocchè noi ne' quali risiedono esse facoltà, siamo pur parte di questa natura e di questa università ch'esaminiamo; e queste facoltà nostre sono esse sole in armonia col poetico ch'è nella natura; la ragione non lo è; onde quelle sono molte più atte e potenti a indovinar la natura che non è la ragione a scoprirla. E siccome alla sola immaginazione ed al cuore spetta il sentire e quindi conoscere ciò ch'è poetico, però ad essi soli è possibile ed appartiene l'entrare e il penetrare addentro ne' grandi misteri della vita, dei destini, delle intenzioni sì generali, sì anche particolari, della [3243] natura. Essi solo possono meno imperfettamente contemplare, conoscere, abbracciare, comprendere il tutto della natura, il suo modo di essere di operare, di vivere, i suoi generali e grandi effetti, i suoi fini. Essi pronunziando o congetturando sopra queste cose, sono meno soggetti ad errare, e soli capaci di apporsi talora al vero o di accostarsegli. Essi soli sono atti a concepire, creare, formare, perfezionare un sistema filosofico, metafisico, politico che abbia il meno possibile di falso, o, se non altro, il più possibile di simile al vero, e il meno possibile di assurdo, d'improbabile, di stravagante. Per essi gli uomini convengono tra loro nelle materie speculative e in molti punti astratti, assai più che per la ragione, al contrario di quel che parrebbe dover succedere; perocchè egli è certissimo che gli uomini discorrendo o conghietturando per via di semplice ragione, discordano per lo più tra loro infinitamente, s'allontanano le mille miglia gli uni dagli altri, e pigliano e seguono tutt'altri sentieri; laddove discorrendo per via di sentimento e d'immaginazione, gli uomini, le diversissime [3244] classi di essi, le nazioni, i secoli, bene spesso, e costantemente, convengono del tutto fra loro, come si può vedere in moltissime proposizioni (sistemi) ed anche pùre supposizioni, dall'immaginativa e dal cuore o trovate o formate, e da essi soli derivate e autorizzate, e in essi soli fondate, le quali furono sempre e sono tuttavia ammesse e tenute da tutte o da quasi tutte le nazioni in tutti i tempi, e dall'universale degli uomini avute, anche oggidì, per verità indubitabili, e da' sapienti, quando non altro, per più verisimili e più universalmente accettabili che alcun'altra sul rispettivo proposito. Il che forse di niuna ipotesi (generale o particolare, cioè costituente sistema, o no ec.) dettata dalla pura ragione e dal puro raziocinio, si vedrà essere intervenuto nè intervenire. Finalmente la sola immaginazione ed il cuore, e le passioni stesse; o la ragione non altrimenti che colla loro efficace intervenzione, hanno scoperto e insegnato e confermato le più grandi, più generali, più sublimi, profonde, fondamentali, e più importanti verità filosofiche che si posseggano, e rivelato [3245] o dichiarato i più grandi, alti, intimi misteri che si conoscano, della natura e delle cose, come altrove ho diffusamente esposto. (22. Agos. 1823.) In conferma del sopraddetto si osservi che i più profondi filosofi, i più penetranti indagatori del vero, e quelli di più vasto colpo d'occhio, furono espressamente notabili e singolari anche per la facoltà dell'immaginazione e del cuore, si distinsero per una vena e per un genio decisamente poetico, ne diedero ancora insigni prove o cogli scritti o colle azioni o coi patimenti della vita che dalla immaginazione e dalla sensibilità derivano, o con tutte queste cose insieme. Fra gli antichi Platone, il più profondo, più vasto, più sublime filosofo di tutti essi antichi che ardì concepire un sistema il quale abbracciasse tutta l'esistenza, e rendesse ragione di tutta la natura, fu nel suo stile nelle sue invenzioni ec. così poeta come tutti sanno. V. il Fabric. in Platone. Fra' moderni Cartesio, Pascal, quasi pazzo per la forza della fantasia sulla fine della sua vita; Rousseau, Mad. di Staël ec. (23. Agosto, udita la morte del Papa Pio VII. che fu a' 20. di questo. 1823.) [3246] A quei pochi monosillabi latini da me altrove raccolti, aggiungi pax, voce ch'esprime una cosa che dovette esser delle prime o delle più antiche nominate; onde pacare, pacisci, pactum ec. Il greco corrispondente è trisillabo: εἰρήνη. (22) (23. Agos. 1823.) Alla p.3235. Placeo es - placo as. Placeo ha pur Placito as. Notisi che questo placo viene da un verbo della seconda maniera, non della 3.a Convivo is - convivo as e convivoraris. Convitare, e combidar (franc. convier), quasi convictare è un regolar continuativo di convivo is - convictus. Quando però non fosse o una corruzione, o piuttosto un fratello (comune, come vedete, a tutte le tre lingue figlie), d'invito as, il qual verbo donde viene? forse da vita? o forse è un continuativo dell'anomalo continuativo inviso is - invisus, quasi invisare, mutata la s in t, come non di rado si scambiano queste lettere ne' participii (fixus - fictus etc.), o è una diversa inflessione d'inviso is medesimo, e più regolare? Del resto, se non convivo is, certo il suo semplice vivo is, ha forse il regolare continuativo victo as, e senza dubbio il frequentativo victito. Vedi poi il Glossario, se ha nulla in proposito per le suddette cose. (23. Agos. 1823.). V. p.3289. [3247] È cosa nota che le favelle degli uomini variano secondo i climi. Cosa osservata dev'essere altresì che le differenze de' caratteri delle favelle corrispondono alle differenze de' caratteri delle pronunzie ossia del suono di ciascuna favella generalmente considerato: onde una lingua di suono aspro ha un carattere e un genio austero, una lingua di suono dolce ha un carattere e un genio molle e delicato; una lingua ancora rozza ha e pronunzia ed andamento rozzo, e civilizzandosi, raddolcendosi e ripulendosi il carattere della lingua e della dicitura, raffinandosi, divenendo regolare, e perfezionandosi essa lingua, se ne dirozza e raddolcisce e mitigasi e si ammollisce eziandio la generale pronunzia ed il suono. Dev'esser parimente osservato, che siccome il carattere della lingua al carattere della pronunzia, così i caratteri delle pronunzie corrispondono alle nature dei climi, e quindi alle qualità fisiche degli uomini che vivono in essi climi, e alle lor qualità morali che dalle fisiche procedono e lor corrispondono. Onde ne' climi settentrionali, dove gli uomini indurati dal freddo, da' patimenti, e dalle fatiche di provvedere a' propri bisogni in terre [3248] naturalmente sterili e sotto un cielo iniquo, e fortificati ancora dalla fredda temperatura dell'aria, sono più che altrove robusti di corpo, e coraggiosi d'animo, e pronti di mano, le pronunzie sono più che altrove forti ed energiche, e richiedono un grande spirito, siccome è quella della lingua tedesca piena d'aspirazioni, e che a pronunziarla par che richiegga tanto fiato quant'altri può avere in petto, onde a noi italiani, udendola da' nazionali, par ch'e' facciano grande fatica a parlarla, o gran forza di petto ci adoprino. Per lo contrario accade nelle lingue de' climi meridionali, dove gli uomini sono per natura molli e inchinati alla pigrizia e all'oziosità, e d'animo dolce, e vago de' piaceri, e di corpo men vigoroso che mobile e vivido. Ond'egli è proprio carattere della pronunzia non meno che della lingua p.e. tedesca, la forza, e dell'italiana la dolcezza e delicatezza. E poste nelle lingue queste proprietà rispettive dell'una lingua all'altra, ne segue che anche assolutamente, e considerando ciascuna lingua da se, nella lingua p.e. italiana, sia pregio la delicatezza e dolcezza, [3249] onde lo scrittore o il parlatore italiano appo cui la lingua (sia nello stile, sia nella combinazione delle voci, sia nella pronunzia) è più delicata e più dolce che appo gli altri italiani (salvo che queste qualità non passino i confini che in tutte le cose dividono il giusto dal troppo, sia per rispetto alla stessa lingua in genere, sia in ordine alla materia trattata), più si loda che gli altri italiani, appunto perocchè la lingua italiana nella dolcezza e delicatezza avanza l'altre lingue. Ma per lo contrario fra' tedeschi dovrà maggiormente lodarsi lo scrittore o il parlatore appo cui la lingua riesca più forte che appo gli altri tedeschi, perocchè la lingua tedesca supera l'altre nella forza, e suo carattere è la forza, non la dolcezza: nè la dolcezza è pregio per se, neppur nella lingua italiana, ma in essa, considerandola rispetto alle altre lingue, è qualità non pregio, e nello scrittore o parlatore italiano è pregio, non in quanto dolcezza, ma in quanto propria e caratteristica della lingua italiana. Così civilizzandosi le nazioni, e divenendo, rispetto alle primitive, delicate di corpo, divenne altresì pregio negl'individui umani la maggior [3250] delicatezza delle forme, non perchè la delicatezza sia pregio per se; che anzi la rispettiva delicatezza delle forme era certamente biasimo, e tenuto per difetto, o per causa di minor pregio d'esse forme, appo gli uomini primitivi; ma solo perchè la delicatezza fisica oggidì, contro le leggi della natura, e contro il vero ben essere e il destino dell'umana vita, è fatta propria e caratteristica delle nazioni e persone civili. (23) Laonde ben s'ingannarono quei tedeschi (ripresi da Mad. di Staël nell'Alemagna) che cercarono di raddolcire la loro lingua, credendo farsi tanto più pregevoli degli altri tedeschi quanto più dolcemente di loro la parlassero e scrivessero, e che la dolcezza, proccurandola alla lingua tedesca, le avesse ad esser pregio, contro la natura, e contro il carattere della lingua, il quale è la forza, e tanta forza richiede nello scrittore e nel parlatore, quanta possa non varcare i confini prescritti dalla qualità d'essa lingua, e da quella delle particolari materie in essa trattate; ed esclude, colle medesime condizioni, la dolcezza, come vizio nella lingua tedesca e non pregio, perchè opposta alla sua natura. [3251] Tornando al proposito debbono esser, come ho detto, cose osservate queste proporzioni che passano tra le diverse nature dei climi e i diversi caratteri delle rispettive pronunzie e geni delle rispettive lingue, ed altresì il modo di queste proporzioni, cioè il modo in che il clima opera sulle favelle, e da quali proprietà del clima quali proprietà derivino alle pronunzie e alle lingue. Ma forse non sarà stato egualmente notato che trovandosi in un medesimo clima e paese essere stati in diversi tempi diversi caratteri di pronunzia e di lingua, queste diversità corrispondettero sempre alle qualità fisiche degli uomini che ciascuna d'esse pronunzie e lingue, l'una dopo l'altra usarono, le quali fisiche qualità variarono secondo le diverse circostanze morali, politiche, religiose, intellettuali ec. che in diverse generazioni in quel medesimo clima e paese ebber luogo. Ond'è che sebbene il clima meridionale naturalmente ispira dolcezza ne' caratteri delle pronunzie e de' suoni, tuttavia suono della lingua greca, e quello della lingua romana, certo più molle che non era a quel tempo, e che adesso non è, il suono delle [3252] lingue settentrionali, pur fu molto men delicato e più forte di quello che oggi si sente nella nuova lingua dello stesso Lazio e di Roma e d'Italia. E ciò non per altra cagione fisica immediata, se non perchè, stante le loro circostanze morali e politiche e il lor genere di vita e di costumi, gli antichi Greci e Romani (il che anche per mille altri segni e notizie si prova) furono di corpo molto più forti che i moderni italiani non sono. La stessa pronunzia della moderna lingua francese (e così delle altre) si è addolcita coi costumi della nazione, come dice Voltaire ec. giacchè un dì si pronunziava come oggi si scrive ec. Ond'è che siccome la pronunzia francese per la geografica posizione e natural qualità del suo clima, ch'è mezzo tra meridionale e settentrionale, tiene quasi tanto delle pronunzie del sud quanto di quelle del nord, (24) ed è un temperamento dell'une e dell'altre e un anello che queste a quelle congiunge, (25) così il carattere delle pronunzie greca e latina, tiene, non dirò già il proprio mezzo tra il settentrionale e il meridionale, ma tra il carattere dell'italiana, ch'è l'uno estremo delle moderne pronunzie meridionali, e l'estremo assoluto della dolcezza; e quello della pronunzia settentrionale meno aspra e che più [3253] s'accosti a dolcezza, e sia per questa parte l'estremo delle pronunzie settentrionali, alle meridionali più vicino. O volessimo piuttosto dire che le pronunzie greca e latina sieno medie tra l'italiana ch'è la più meridionale, e la francese, che non è nè ben meridionale nè per anco settentrionale. Le lingue orientali, la greca moderna, la turca, quelle de' selvaggi e indigeni d'America sotto la zona, parlate e scritte in climi assai più meridionali che quel d'Italia o di Spagna, sono tuttavia molto men dolci dell'italiana e della spagnuola, e taluna anche delle settentrionali europee. Ciò per la rozzezza o per la acquisita barbarie de' popoli che l'usano o che l'usarono, per li costumi aspri e crudeli ec. antiche o moderne ch'esse lingue si considerino. (23. Agos. 1823.) Una lingua strettamente universale, qualunque ella mai si fosse, dovrebbe certamente essere di necessità e per sua natura, la più schiava, povera, timida, monotona, uniforme, arida e brutta lingua, la più incapace di qualsivoglia genere di bellezza, la più impropria all'immaginazione, e la meno da lei dipendente, anzi la più da lei per ogni verso disgiunta, la più esangue ed inanimata e morta, che mai si possa concepire; uno scheletro un'ombra di lingua piuttosto che lingua veramente; una lingua non viva, quando pur fosse da tutti scritta e universalmente intesa, anzi più morta assai di qualsivoglia lingua che più non si parli nè scriva. Ma si può pure sperare che perchè gli uomini sieno già fatti generalmente sudditi infermi, impotenti, inerti, avviliti, scoraggiati, languidi, e miseri della ragione, ei non diverranno però mai schiavi moribondi e incatenati [3254] della geometria. E quanto a questa parte di una qualunque lingua strettamente universale, si può non tanto sperare, ma fermamente e sicuramente predire che il mondo non sarà mai geometrizzato, non meno di quel che si possa con certezza affermare ch'ei non ebbe una tal favella mai, se non forse quando gli uomini erano così pochi, e di paese così ristretti, e niente vari di opinioni, costumi, usi, riti, governo e vita, che la lingua era universale solo perciò che più d'una nazione d'uomini, almeno parlanti, non v'aveva, onde universale era la lingua perch'era una al mondo, nè altra lingua mai s'era udita, ed una era e sempre era stata la lingua, perchè una sempre la nazione infino allora, o una, se non altro, la nazione che di lingua avesse uso e notizia. (23. Agosto. 1823.) Quello poi che ho detto che una lingua strettamente universale, dovrebbe di sua natura essere anzi un'ombra di lingua, che lingua propria, maggiormente anzi esattamente conviene a quella lingua caratteristica proposta fra gli altri dal nostro Soave (nelle Riflessioni intorno [3255] all'istituzione d'una lingua universale, opuscolo stampato in Roma, e poi dal medesimo autore rifuso nell'Appendice 2.a al capo II del Libro 3° del Saggio filosofico di Gio. Locke su l'umano intelletto compendiato dal D. Winne, tradotto e commentato da Francesco Soave C. R. S. tomo 2do, intitolato Saggio sulla formazione di una Lingua Universale), la qual lingua o maniera di segni non avrebbe a rappresentar le parole, ma le idee, bensì alcune delle inflessioni d'esse parole (come quelle de' verbi), ma piuttosto come inflessioni o modificazioni delle idee che delle parole, e senza rapporto a niun suono pronunziato, nè significazione e dinotazione alcuna di esso. Questa non sarebbe lingua perchè la lingua non è che la significazione delle idee fatta per mezzo delle parole. Ella sarebbe una scrittura, anzi nemmeno questo, perchè la scrittura rappresenta le parole e la lingua, e dove non è lingua nè parole quivi non può essere scrittura. Ella sarebbe un terzo genere, siccome i gesti non sono nè lingua nè scrittura ma cosa diversa dall'una e dall'altra. Quest'algebra di linguaggio (così nominiamola) [3256] la quale giustamente si è riconosciuta per quella maniera di segni ch'è meno dell'altre impossibile ad essere strettamente universale, si può pur confidentemente e certamente credere che non sia per essere nè formata ed istituita, nè divulgata ed usata giammai. Dirò poi ancora, ch'ella in verità non sarebbe strettamente universale, perch'ella lascerebbe a tutte le nazioni le loro lingue, siccome ora la francese. Ella di più non sarebbe propria che dei dotti o colti. Ma di tutti i dotti e colti lo è pure oggidì la francese. Quale utilità dunque di quella lingua? la quale non sarebbe forse niente più facile ad essere generalmente nella fanciullezza imparata, di quello che sia la francese, che benissimo e comunissimamente nella fanciullezza s'impara. E tutti i vantaggi che si ricaverebbero da quella chimerica lingua, tutti, e molto più e maggiori, e forse con più facilità si caverebbero dalla lingua francese, divenendo, se pur bisogna, più comune e più studiata e coltivata di quel ch'ella già sia. Quanto poi ad una lingua veramente [3257] universale, cioè da tutte le nazioni senza studio e fin dalla prima infanzia intesa e parlata come propria, lasciando tutte le impossibilità accidentali ed estrinseche, ma assolutamente insormontabili, che ognun conosce e confessa; dico ch'ella è anche impossibile per sua propria ed assoluta natura, quando pur gli uomini che l'avrebbero a usare, non fossero, come sono, diversissimamente conformati rispetto agli organi ec. della favella ed alle altre naturali cagioni che diversificano le lingue; di modo che, quando anche superato ogni ostacolo, una qualunque lingua, per impossibile ipotesi, fosse divenuta universale nella maniera qui sopra espressa, la sua universalità non potrebbe a patto alcuno durare, e gli uomini tornerebbero ben tosto a variar di lingua, per la stessa natura di quella tal favella universale, in cui le condizioni medesime che la farebbero atta ad esser tale, sarebbero in espressa contraddizione colla durevolezza della sua universalità, e formalmente la escluderebbono. Perocchè una lingua appropriata ad essere strettamente universale, deve, come [3258] in altri luoghi ho largamente esposto, essere di natura sua, servilissima, poverissima, senza ardire alcuno, senza varietà, schiava di pochissime, esattissime, e stringentissime regole, oltra o fuor delle quali trapassando, non si potesse in alcun modo serbare nè il carattere nè la forma d'essa lingua, ma in diversa lingua assolutamente si parlasse. Nè senza una buona parte o similitudine almeno di queste qualità e di ciascuna di esse, la lingua francese sarebbe potuta giungere a quel grado di universalità largamente considerata, in cui la veggiamo; nè certo mantenervisi, seppur momentaneamente vi fosse giunta, come vi giunse un dì la greca. Perocchè queste qualità indispensabilmente richieggonsi ad una, ancorchè non assoluta o stretta, universalità durevole di una lingua. Ora una lingua così formata e costituita, e di tali qualità in sommo grado (come a una lingua strettamente universale si ricercherebbe) fornita, a pochissimo andare, per cagione di queste medesime qualità, si corromperebbe e traviserebbe [3259] in modo che più non sarebbe quella; come altrove ho dimostrato di tali lingue non libere, coll'esempio (fra l'altre cose) della latina, la quale, siccome ogni altra, quantunque servilissima, che si conosca, fu ed è ben lontana dall'aver queste qualità in sommo grado, come si richiederebbe di necessità ad una lingua che avesse ad essere strettamente e durabilmente universale. Così quelle medesime condizioni che da una parte cagionerebbono, e in modo che senza esse non potrebbe stare, la propria, o vogliam dire esatta, e durevole universalità di una lingua; d'altra parte e nel tempo stesso, per propria natura loro, rendono assolutamente inevitabile e inevitabilmente prontissima una totale corruzione e mutazione della lingua medesima. Onde nè senza esse la stretta universalità di una lingua può stare, nè qualsivoglia universalità durare, come si è altrove provato; e parimente con esse non può durare nè la stretta universalità nè il proprio stato di una lingua. Perocchè, quanto al proprio stato, è evidente che una lingua di necessità corrompendosi e cangiandosi [3260] del tutto, di necessità lo perde, cioè perde la sua forma, proprietà, carattere e natura. E quanto alla stretta universalità, dato ancora che una lingua corrompendosi appo una sola nazione, si corrompesse ugualmente, di modo ch'ella quantunque mutata da quella prima, fosse pur sempre una sola in essa nazione, e a tutta comune; egli è fisicamente impossibile a seguire, e assurdo a supporre che una medesima lingua corrompendosi appo molte e diversissime nazioni e cambiandosi affatto da quella di prima, pur corrompendosi da per tutto ugualmente, e facendo da per tutto in un medesimo tempo gli stessi passi, si mantenesse sempre una sola appo tutte le dette nazioni insieme. La corruzione non ha legge, e quella che nasce dalla troppa schiavitù e circoscrizione d'una lingua, n'ha meno che mai, ed è più cieca che ogni altra; nè dove non v'ha regola alcuna, nè scambievole convenzione e consenso (il che sarebbe contrario alla natura della corruzione di una lingua), nè conformità di circostanze, quivi può essere uniformità. La quale se è quasi impossibile in una sola nazione, dal continuo commercio e da [3261] tante altre circostanze congiunta insieme e fatta una, quanto più tra molte nazioni, sempre, per quanto commercio possano avere insieme, disgiunte e fra se diverse! E si è infatti veduto quanto diversa fosse la corruzione della lingua latina nelle diverse nazioni in ch'ella si propagò, fino a produrre varie affatto distinte e separate e separatamente regolate e costituite favelle, che tuttavia si parlano. E ciò quantunque la lingua latina non fosse d'assai così servile ec. come è necessario supporre una lingua strettamente universale. Resta dunque provato che una lingua strettamente universale, per cagione di quelle stesse condizioni ond'ella sarebbe divenuta e con cui sole sarebbe potuta divenire universale, e senza cui l'universalità sua non potrebbe durare se non momentaneamente, per causa, dico, di queste medesime condizioni, subitamente corrompendosi, dividerebbesi ben tosto, per causa di tal corruzione, e quindi per causa di quelle medesime condizioni, che naturalmente e necessariamente l'occasionerebbero, in diverse lingue, e perderebbe conseguentemente la sua [3262] universalità, la durata della quale sarebbe fatta impossibile da quelle medesime condizioni che a tal durata indispensabilmente richieggonsi. Questo che ho detto di una lingua universalmente parlata come propria, devesi pur dire di una sognata lingua che in tutte le nazioni civili i dotti e gl'indotti scrivessero come propria, rimanendo le varie lingue nazionali pel solo uso di favellare, a un di presso nel modo che ai bassi tempi le varie favelle o dialetti volgari, scrivendo tutti, anche notai ec., ogni sorta di scritture in Latino, corrotto e barbaro, e secondo i diversi luoghi diverso, ma pur da per tutto Latino. E conchiudo che una lingua universalmente da tutte le nazioni, anche sole civili, o parlata o scritta, o l'uno e l'altro, ed intesa, come propria è impossibile, non solo estrinsecamente e per ragioni estrinseche, ma per sua propria ed intrinseca natura e qualità e proprietà ed essenza, non relativamente nè accidentalmente, ma essenzialmente, di necessità, ed assolutamente. (25. Agos. dì di S. Bartolomeo. 1823.) Movere neutro, o in forma ellittica per movere se o movere castra, come tra noi muovere [3263] neutro o ellittico (e così trarre), del che mi sembra avere altrove notato un esempio di Floro, vedilo appo Svetonio, in Divo Julio, Cap. 61. §. 1. e quivi le note degli eruditi. Vedi pure, se ti piace, a questo proposito il Poliziano Stanze I. 22. dove troverai muovere neutro, senza l'accompagnamento del sesto caso, come ancora in latino. (25. Agos. dì di S. Bartolomeo. 1823.) Alla p. 2889. Tumultuo e tumultuor da tumultus us. Acuo da acus us, è della terza coniugazione per una che, stante la moltitudine anzi la pluralità degli esempi dimostranti che tali verbi sono regolarmente della prima, possiamo chiamare anomalia. Così statuo is da status us. Arcuo as da arcus us. (26. Agos. 1823.) Grassor aris continuativo di gradior eris il cui participio in us oggi irregolarmente è gressus, in antico, come dimostra il detto continuativo, più regolarmente fu grassus. Gressus bensì ne' composti i quali, come molti altri, mutano l'a di gradior in e; ingredior, aggredior ec. Così ascendo ec. da scando, e puoi vedere la pag. 2843. (26. Agos. 1823.) [3264] Alla p. 2864. Castello, château, castillo tengono fra noi il luogo del positivo castrum, col quale anche in latino bene spesso indifferentemente si scambiava castellum, o si usava equivalentemente ec. (26. Agos. 1823.) Francesismi familiarissimi, usitatissimi e volgarissimi in quella nazione, tant mieux, tant pis, frasi ellittiche o irregolari, e che paiono veri idiotismi francesi, non sono che latinismi, anzi idiotismi, cioè volgarismi, latini. Vedi gli eruditi alla favola 5. lib.3. di Fedro, Aesopus et Petulans. V. anche il Forcellini se ha nulla, la Crusca ec. Noi pur diciamo volgarmente e scriviamo tanto meglio, tanto peggio, ma in senso meno ellittico, più naturale e regolare, anzi per lo più regolarissimo, e meno sovente assai de' francesi. (26. Agos. 1823.) Alla p. 2996. marg. - vengono cred'io da medeor (medeo ancora si disse, poichè medeor si trova pure passivo), non da medicus. Lo deduco appunto dal veder medicor deponente come medeor, (laddove medico corrisponderà all'antico medeo), e dal vedere ancora che medicatus e medicatus sum suppliscono pel verbo medeor che manca del preterito e del participio in us. V. Forc. in Medeor. fine. Veggasi la p. 3352. sgg. circa il continuativo meditor di medeor fatto dal suo participio in us. (26. Agos. 1823.) [3265] Si può dire che le viste, i disegni, i proponimenti, i fini, le speranze, i desiderii dell'uomo, tutto ciò in somma che ne' suoi pensieri ha relazione al futuro, tanto più si stendono, cioè tanto più mirano e tendono, o giungono, lontano, quanto minore naturalmente è lo spazio di vita che gli rimane, e viceversa. Niun pensiero del bambino appena nato ha relazione al futuro, se non considerando come futuro l'istante che dee succedere al presente momento, perocchè il presente non è in verità che istantaneo, e fuori di un solo istante, il tempo è sempre e tutto o passato o futuro. Ma considerando il presente e il futuro non esattamente e matematicamente, ma in modo largo, secondo che noi siamo soliti di concepirlo e chiamarlo, si dee dire che il bambino non pensa che al presente. Poco più là mira il fanciullo; ond'è che proporre al fanciullo (p.e. negli studi) uno scopo lontano (come la gloria e i vantaggi ch'egli acquisterà nella maturità della vita o nella vecchiezza, o anche pur nella giovanezza), è assolutamente inutile per muoverlo (onde è sommamente giusto ed utile l'adescare il fanciullo allo studio col proporgli onori o vantaggi ch'egli [3266] possa e debba conseguire ben tosto, e quasi di giorno in giorno, che è come un ravvicinare a' suoi occhi lo scopo della gloria e della utilità degli studi, senza il quale ravvicinamento è impossibile ch'ei fissi mai gli occhi in detto scopo, e per conseguirlo si assoggetti volentieri alle fatiche e alle sofferenze ripugnanti alla natura, che gli studi richieggono). Più si stendono le viste del giovane, ma meno assai di quelle dell'uomo maturo e riposato, i cui calcoli sul futuro oltrepassano bene spesso, senza ch'ei se n'avvegga, lo spazio di vita naturalmente concesso ai mortali. Perciocchè l'uomo maturo comincia già a compiacersi supremamente e contentarsi della speranza, e pascerne la sua vita. Della quale speranza si nutre parimente, e con essa favella e delira anche il giovane, e il fanciullo altresì; ma non in modo che d'essa si contentino, e che non cerchino di prontamente effettuarla e recarla in opera, e venire al fatto. Il che nasce dall'ardore di quelle età, dall'attività dell'animo unita e cospirante con quella del corpo, dalla [3267] freschezza e forza del loro amor proprio, e quindi dall'energia ed efficacia de' loro desiderii impazienti d'indugio, e però non sofferenti di proporsi un oggetto ch'ei non possano o ch'ei non credano di potere in poco spazio e dentro un picciolo termine conseguire; finalmente dall'inesperienza ch'egli hanno intorno alla vanità delle umane speranze, alla difficoltà che l'uomo prova in condurle a fine, e alla nullità eziandio degli stessi beni sperati, la quale inevitabilmente apparisce così tosto com'ei sono posseduti. Le contrarie cagioni producono la lunghezza e lontananza delle viste nell'uomo maturo; e l'eccesso di dette contrarie qualità producono l'eccesso del contrario effetto nella vecchiezza, la quale ridotta a non potersi ragionevolmente promettere più che un brevissimo avanzo di vita, pure nella estensione delle sue viste supera di gran lunga tutte le altre età dell'uomo. Perocchè il vecchio per la debolezza di corpo e d'animo, e pel disinganno de' beni umani già provati, e per lo illanguidimento dell'amor proprio che va di pari colla quasi diminuzione e raffreddamento [3268] della vita, non è capace se non di fievoli desiderii, e quindi si contenta di propor loro uno scopo lontano e in esso fermarli, e i suoi desiderii si contentano di rimanervi; per la diuturna esperienza fatta della vanità e del tristo esito delle speranze, con un quasi stratagemma, le indirizza a luoghi così lontani ch'elle non possano se non assai tardi o non mai, avvicinandosi a quelli e giungendovi, scomparire; per la irresoluzione propria dell'età sua, rimettendo ogni azione al dipoi, e costretto di rimettere eziandio e quasi differire le sue speranze, e gli oggetti de' suoi desiderii e il loro conseguimento ch'ei si propone, o ch'ei si compiace, per dir meglio, di vagheggiare; e per l'abito della tardità e lentezza nell'operare a cui la gravezza e l'impotenza dell'età lo costringe, e per la pigrizia e negligenza e torpore dell'animo che ne deriva e n'è pur cagione, i suoi desiderii altresì e le sue speranze ne divengono tarde e pigre e lente e quasi trascurate (benchè sempre però bastantemente vive per mantenerlo e quasi allattarlo, come alla vita umana [3269] indispensabilmente ricercasi), ed ei giunge a persuadersi fra se stesso non con l'intelletto, ma con l'immaginazione e con la non ragionata abitudine dell'altre facoltà del suo spirito, che il tempo e la natura e le cose sian divenute ed abbiano a riuscir così lente e pigre com'esso necessariamente è. (26. Agosto. 1823.) Il poeta lirico nell'ispirazione, il filosofo nella sublimità della speculazione, l'uomo d'immaginativa e di sentimento nel tempo del suo entusiasmo, l'uomo qualunque nel punto di una forte passione, nell'entusiasmo del pianto; ardisco anche soggiungere, mezzanamente riscaldato dal vino, vede e guarda le cose come da un luogo alto e superiore a quello in che la mente degli uomini suole ordinariamente consistere. Quindi è che scoprendo in un sol tratto molte più cose ch'egli non è usato di scorgere a un tempo, e d'un sol colpo d'occhio discernendo e mirando una moltitudine di oggetti, ben da lui veduti più volte ciascuno, ma non mai tutti insieme (se non in altre simili congiunture), egli è in grado di scorger con essi i loro rapporti scambievoli, e per la novità di quella moltitudine [3270] di oggetti tutti insieme rappresentantisegli, egli è attirato e a considerare, benchè rapidamente, i detti oggetti meglio che per l'innanzi non avea fatto, e ch'egli non suole; e a voler guardare e notare i detti rapporti. Ond'è ch'egli ed abbia in quel momento una straordinaria facoltà di generalizzare (straordinaria almeno relativamente a lui ed all'ordinario del suo animo), e ch'egli l'adoperi; e adoperandola scuopra di quelle verità generali e perciò veramente grandi e importanti, che indarno fuor di quel punto e di quella ispirazione e quasi μανία e furore o filosofico o passionato o poetico o altro, indarno, dico, con lunghissime e pazientissime ed esattissime ricerche, esperienze, confronti, studi, ragionamenti, meditazioni, esercizi della mente, dell'ingegno, della facoltà di pensare di riflettere di osservare di ragionare, indarno, ripeto, non solo quel tal uomo o poeta o filosofo, ma qualunqu'altro o poeta o ingegno qualunque o filosofo acutissimo e penetrantissimo, anzi pur molti filosofi insieme cospiranti, e i secoli stessi col successivo avanzamento dello spirito umano, cercherebbero di scoprire, o d'intendere, o di spiegare, siccome [3271] colui, mirando a quella ispirazione, facilmente e perfettamente e pienamente fa a se stesso in quel punto, e di poi a se stesso ed agli altri, purch'ei sia capace di ben esprimere i propri concetti, ed abbia bene e chiaramente e distintamente presenti le cose allora concepite e sentite. (26. Agos. 1823.) Secondo ch'io osservo (26) e che si potrà spiegare colle ragioni da me recate in altri luoghi, l'abito di compatire, quello di beneficare, o di operare in qualunque modo per altrui, e, mancando ancora la facoltà, l'inclinazione alla beneficenza e all'adoperarsi in pro degli altri, sono sempre (supposta la parità delle altre circostanze di carattere o indole, educazione, coltura di spirito, o rozzezza, e simili cose) in ragion diretta della forza, della felicità, del poco o niun bisogno che l'individuo ha dell'opera e dell'aiuto altrui, ed in proporzione inversa della debolezza, della infelicità, dell'esperienza delle sventure e dei mali, sieno passati, o massimamente presenti, del bisogno che l'uomo ha degli altrui soccorsi ed uffici. Quanto più l'uomo è in istato di esser [3272] soggetto di compassione, o di bramarla, o di esigerla, e quanto più egli la brama o l'esige, anche a torto, e si persuade di meritarla, tanto meno egli compatisce, perocch'egli allora rivolge in se stesso tutta la natural facoltà, e tutta l'abitudine che forse per lo innanzi egli aveva, di compatire. Quanto l'uomo ha maggior bisogno della beneficenza altrui, tanto meno egli è, non pur benefico, ma inclinato a beneficare; tanto meno egli non solo esercita, ma ama in se quella beneficenza che dagli altri desidera o pretende, e crede a torto o a ragione di meritare, o di abbisognarne. L'uomo debole, e sempre bisognoso di quegli uffici maggiori o minori che si ricevono e si rendono nella società, e che sono il principale oggetto a cui la società è destinata, o quello a cui principalmente dovrebbe servire la scambievole comunione degli uomini; pochissimo o nulla inclina a prestar la sua opera altrui, e di rado o non mai, o bene scarsamente la presta, ancor dov'ei può, ed ancora agli uomini più deboli e più bisognosi di lui. L'uomo assuefatto alle sventure, e [3273] massime quegli a cui la vita è sinonimo e compagno del patimento, nulla sono mossi, o del tutto inefficacemente, dalla vista o dal pensiero degli altri mali e travagli e dolori. L'amor proprio in un essere infelice è troppo occupato perch'egli possa dividere il suo interesse tra questo essere e i di lui simili. Assai egli ha da esercitarsi quando egli ha le sue proprie sventure; sieno pur molto minori di quelle che se gli rappresentano in qualunque modo in altrui. Se le proprie sventure sono presenti, la compassione, come ho detto, tutta rivolta e impiegata sopra se stesso, in esso lui si consuma, e nulla n'avanza per gli altri. Se sono passate, posto ancora che piccolissime fossero, la rimembranza di esse fa che l'uomo non trovi nulla di straordinario nè di terribile ne' patimenti e disastri degli altri, nulla che meriti di farlo come rinunziare al suo amor proprio per impiegarlo in altrui beneficio; come già pratico del soffrire, egli si contenta di consigliar tacitamente e fra se stesso agl'infelici, che si rassegnino alla lor sorte, e si crede in diritto di esigerlo, quasi [3274] egli medesimo n'avesse già dato l'esempio; perocchè ciascuno in qualche modo si persuade di aver tollerato o di tollerare le sue disgrazie e le sue pene virilmente al possibile, e con maggior costanza, che gli altri, o almeno il più degli uomini, nel caso suo, non farebbero o non avrebbero fatto; nella stessa guisa che ciascuno si pensa sopra tutti gli altri essere o essere stato indegno de' mali ch'ei sostiene o sostenne. Oltre di che l'abito d'insensibilità verso l'altrui sciagure, contratto nel tempo ch'ei fu sventurato, non è facile a dispogliarsene, sì perch'esso è troppo conforme all'amor proprio, che vuol dire alla natura dell'uomo; sì perchè grande e profonda è l'impressione che fa nel mortale la sventura, e quindi durevole l'effetto che produce e che lascia, e ben sovente decisivo del suo carattere per tutta la vita, e perpetuo. Io osservo (e n'ho presente a me stesso non un solo esempio), che i giovani non poveri, o non oppressi nè avviliti dalla povertà, sani e robusti di corpo, coraggiosi, attivi, [3275] capaci di fornir da se stessi a' loro bisogni, e poco o nulla necessitosi, ovver poco o nulla desiderosi degli altrui soccorsi e dell'altrui opera o fisica o morale, almeno abitualmente; non tocchi ancora dalla sventura, o piuttosto (giacchè qual è l'uomo nato che già non abbia sofferto?) tocchi da essa in modo ch'essi pel vigore della età e della complessione, e per la freschezza delle forze dell'animo, la scuotono da se, e poco caso ne fanno; questi tali giovani, dico, ancorchè da una parte intolleranti fin della menoma ingiuria, ed anche proclivi all'ira; inclinati ed usi di motteggiare i presenti e gli assenti ancor più che gli altri non sono; soverchiatori anzi che no, sia di parole, sia d'opere eziandio; - v. p. 3282. 3942. dall'altra parte, ancorchè abbandonati da tutti, e forse da quelli stessi che avrebbero il più sacro dovere di prenderne cura, ancorchè sperimentati nella ingratitudine degli uomini, e fatti accorti per prova, della niuna utilità e grazia, ed eziandio del danno, che spesso risulta dal far beneficio; ancorchè pronti e perspicaci d'ingegno, e non ignari del mondo, e ben consapevoli quanto il costume degli uomini sia rimoto dal beneficare e dal compatire, e quanto altresì [3276] le loro opinioni ne gli allontanino, e quanto gli uomini sieno generalmente indegni ch'altri ne prenda cura; con tutto ciò questi tali sono prontissimi a compatire, dispostissimi a sovvenire agli altrui mali, inclinatissimi a beneficare, a prestar l'opera loro a chi ne li richiede, ancorchè indegno, a profferirla pure spontaneamente, sforzando l'altrui ripugnanza d'accettarla, e conoscendo quella di ricercarla; apparecchiati senza riservo e senza cerimonie ai bisogni ed a proccurare i vantaggi degli amici: ed in effetto sono quasi continuamente occupati per altrui più che per se stessi; le più volte in piccoli, ma pur faticosi, noiosi, difficili uffizi e servigi, la cui moltiplicità, se non altro, compensa la piccolezza di ciascuno; talora eziandio in cose grandi o notabili e che richieggono grandi o notabili cure, fatiche, ed anche sacrifizi. E ciò facendo, nè presso se stessi, nè presso i beneficati, nè presso gli altri attaccano un gran pregio ai loro servigi, nè gran conto ne fanno, nè se ne reputano di gran merito (quasi accecati e dissennati da Giove, come dice Omero di Glauco quand'egli scambiò le sue armi d'oro con quelle del Tidide ch'erano di rame): di più poca o niuna gratitudine esigono, quasi ei fossero stati tenuti a beneficare, [3277] o nulla avesse loro costato il benefizio; non mai si credono in diritto di ripetere il benefizio, o costretti a farlo, lo fanno con grandissima riserva e senza pretensione alcuna, e riavendone pure una parte, o domandata o spontanea, si tengono per obbligati essi a chi gli uffici da loro prestatigli scarsamente rimunerò. Tutto questo o parte, più o meno, m'è avvenuto di notare ne' giovani della qualità sopra descritta, e non solo in quelli che per inesperienza del mondo, e gentilezza di natura, con pienezza di cuore, e con buona fede e semplicemente sono trasportati verso la virtù, la generosità, la magnanimità, ponendo il loro maggior piacere e desiderio nel far bene e negli atti eroici, e nella rinegazione e rinunzia e sacrificio di se stessi; ma eziandio ne' disingannati del mondo, e posti in quelle circostanze che di sopra ho notate, o in alcune di esse, o in altre somiglianti. Tutto ciò, dico, ho notato avvenire in questi cotali giovani, mentre essi godono e sentono i vantaggi della gioventù, della sanità, del vigore, e sono in istato da bastare a se stessi. Ma o coll'età, [3278] o innanzi all'età, sopravvenendo loro di quegl'incomodi, di quegli accidenti, di quei casi, di que' disastri fisici o morali, da natura o da fortuna, che tolgano loro il bastare a se medesimi, che li renda abitualmente o spesso bisognosi dell'opera e dell'aiuto altrui, che scemi o distrugga in essi il vigore del corpo, e seco quello dell'animo; questi tali, come ho pur veduto per isperienza, di misericordiosi e benefici divengono appoco appoco, in proporzione dell'accennato cambiamento di circostanze, insensibili agli altrui mali o bisogni, o comodi, solleciti solamente dei proprii, chiusi alla compassione, dimentichi della beneficenza, e interamente circa l'una e circa l'altra cangiati e volti in contrario, sì di costumi, sì di disposizione d'animo. Nè solo appoco appoco, ma eziandio rapidamente e quasi in un tratto, e nello stesso fiore della giovanezza, ho io veduto accadere tale cangiamento in persone sopravvenute da improvvisa o rapida calamità di corpo o di spirito o di fortuna, onde il loro animo fu atterrato e prostrato subitamente o in poca d'ora, o crollato e renduto mal fermo, e la loro vita fu soggettata agl'incomodi, e alla trista necessità dell'aiuto altrui, [3279] e la sanità scossa, e il corpo svigorito, e simili cose contrarie alla loro prima condizione. Insomma al subito o rapido cangiamento delle circostanze sopra notate, ho veduto con pari subitaneità o rapidità corrispondere il cangiamento del carattere e costume di tali persone rispetto al compatire, al beneficare e all'adoperarsi in qualunque modo per altrui. E quelli che da natura, o per qualunque cagione, fin dalla fanciullezza o dalla prima giovanezza e dal primo loro ingresso nel mondo, son tali quali i sopraddetti divennero, cioè deboli di corpo e di spirito, timidi, irresoluti, avviliti dalla povertà o da qualsivoglia altra causa fisica o morale, estrinseca o intrinseca, naturale in loro o accidentale e avventizia; sempre o sovente bisognosi dell'opera altrui, avvezzi fin dal principio a soffrire, a mal riuscire nelle loro intraprese o ne' desiderii loro, e quindi a sempre sconfidar delle cose e della vita e dei successi, e quindi privi di confidenza in se medesimi; più domestici del timore o della triste espettazione che della speranza; questi tali, e quelli che loro somigliano in tutto o in parte, sono più o meno, fin dal principio della loro vita o fino dalla loro entrata [3280] nella società, alieni e dall'abito e dagli atti della compassione e della beneficenza, e dalla inclinazione o disposizione a queste virtù; interessati per se soli, poco o nulla capaci d'interessarsi per gli altri, o sventurati o bisognosi, o degni o indegni che sieno dell'aiuto altrui; meno ancora capaci di operare per chi che sia; poco o nulla per conseguenza atti alla vera ed efficace ed operosa amicizia, ben simulatori di essa per ottenerne dagli altri gli aiuti o la pietà di che hanno mestieri, ed abili a farla servire ai soli loro vantaggi; simulatori e dissimulatori eziandio generalmente in ogni altra cosa. E queste qualità divengono in loro caratteristiche, di modo che l'amor proprio non è in essi altro mai ch'egoismo, e l'egoismo è il loro carattere principalissimo; ma non veramente per colpa loro, piuttosto per necessità di natura; e neanche per natura che di sua mano immediatamente abbia posto negli animi loro più che negli altri questo pessimo vizio, ma perchè dalle circostanze in che essi o per natura o per accidente si sono trovati fin dal principio, [3281] nasce naturalmente e necessariamente questo tal vizio, forse più necessariamente e inevitabilmente e maggiore che da verun'altra cagione. V. p. 3846. Da' quali pensieri si dee raccogliere questo corollario, che le donne essendo per natura più deboli di corpo e d'animo, e quindi più timide, e più bisognose dell'opera altrui che gli uomini non sono, sono anche generalmente e naturalmente meno degli uomini inclinate alla compassione e alla beneficenza, non altrimenti ch'elle, per universale consenso, sieno generalmente e regolarmente meno schiette degli uomini, più proclivi alla menzogna e all'inganno, più feconde di frodi, più simulatrici, più finte; tutte qualità, con molte altre analoghe (che nelle donne generalmente si osservano), derivanti per natura niente più, niente meno che la sopraddetta, dalla debolezza d'animo e di corpo, e dall'insufficienza delle proprie forze, de' propri mezzi e di se stesso a se stesso. E si può concludere che le donne sono, generalmente parlando, più egoiste degli uomini, o più portate all'egoismo per natura (sebbene le circostanze sociali, che spesso rovesciano la natura, e fanno [3282] talora le donne, anche prima che abbiano formato il loro carattere, signore degli uomini, oggetti delle lor cure spontanee, de' loro omaggi, suppliche ec. ec., possano ben render vana questa disposizione), e naturalmente si troverà un maggior numero di donne egoiste che non d'uomini. Così le nazioni e i secoli più infelici, tiranneggiati ec. si vede costantemente che furono e sono i più egoisti ec. ec. (26-27. Agos. 1823). V. p. 3291. 3361. Alla p. 3275. marg. - Anzi quanto più questi tali son franchi, coraggiosi, non timidi dell'altrui aspetto nè dell'altrui conversazione, schietti, aperti, liberi nel parlare, nei modi, nell'operare, intolleranti di dissimulare e di mentire (anche, tal volta, eccessivamente); e quanto più sono vendicativi delle ingiurie, fieri con chi gli offende o insulta o disprezza o danneggia, quanto meno molli e facili ai nemici, agl'invidiosi, ai detrattori, ai maldicenti, agli oltraggiatori, agli offenditori qualunque; ed eziandio quanto più pendono a una certa soverchieria di parole o di fatti verso chi non è nè compassionevole nè bisognoso, amico o indifferente o nemico che sia; proclivi o facili all'ira, anche durevole; tanto più sono misericordiosi e benefici verso gli amici o gl'indifferenti (dandosene loro l'occorrenza, e la facoltà ec. e in questi il bisogno o l'utilità ec.), o verso i nemici stessi e gli offenditori, vinti che sieno, o già puniti, o chiedenti scusa o perdono, o riparata che hanno l'offesa, o anche senz'altro caduti in grave disgrazia o bisogno, ed avviliti ec. (Tale fu Giulio Cesare come si vede in Svetonio). E il contrario accade negli uomini di contraria qualità: [3283] il contrario, dico, si quanto al compatire o beneficare chi che sia, sì quanto al rimettere o dimenticare le ingiurie. E di contraria qualità sono gli uomini timidi, di maniere legate, deboli di corpo e d'animo ec. quali ho descritti a pagg. 3279-80. (27. Agos. 1823.) Confictito da confingo-confictus o dal semplice fingofictus. (27. Agos. 1823.) Fissare o fisare, ficcare, fixar fixer, ficher, da figo-fixus. Affissare o affisare, afficher da affigo. Conficcare da configo. ec. Forse anche fitto sust. e affittare non d'altronde vengono che da fictus altro participio di figo, traendo il nome dall'avviso pubblico che suole affiggere alla sua casa, o a' cantoni della città ec. chi vuole affittare essa casa, o possessioni, terre ec.; il quale avviso o avvisi pubblicamente affitti si chiamano in francese affiches, da noi volgarmente affissi. Sebbene la prep. a in affittare sembra essere espressamente aggiunta al sostantivo fitto per esprimere il dare a fitto, come in francese affermer da ferme, e tra noi volgarmente annolare [3284] da nolo. Veggasi per tutte le suddette voci il Gloss. se ha nulla. (27. Agos. 1823.) Al detto da me circa l'anomalo partic. arso che il Perticari crede di arsare e non di ardere, del quale egli è pure in latino, cioè di ardeo, arsus; si può aggiungere che la lingua italiana (ed anche le sue sorelle) bene spesso, secondo che la lingua latina ha diversi participii d'un solo verbo, diversi n'ha ella pure, cioè quelli stessi che ha la latina, regolari o irregolari che siano quanto all'analogia latina o italiana. P.e. da figofixus-fictus, figgere-fisso, fitto. Talvolta ella ha quello che corrisponde all'analogia italiana, e insieme quello che il verbo ha nel latino, sia regolare participio o anomalo in esso latino. Del che ho detto altrove. Talvolta ec. ec. (27. Agosto. 1823.) La lingua greca, secondo che si può vedere a pagg. 2774-2777, e più largamente e distintamente per capi presso i grammatici, ebbe in costume di alterare notabilmente le sue radici (27), p.e. i temi de' suoi verbi, anche fuori affatto dei casi di derivazione e di composizione, e senza punto alterarne il significato, ma [3285] semplicemente la forma estrinseca e gli elementi del vocabolo. Onde i verbi in ω li trasmutavano in verbi in μι; dei temi ad altri aggiungevano le lettere αν, e li facevano terminare in ανω, ad altri αιν, e li terminavano in αινω, ad altri σκ (28) e li finivano in σκω (ma questi non erano sempre alterati dal tema, ma da un altro tempo del verbo: v. i Grammatici), ad altri duplicavano la prima consonante, interponendo una vocale, come l'iota (πιπράσκω), ec. Spesso si mutava la desinenza, volgendola in ίζω ec. senza mutazione di significato: νεμεσάω-νεμεσίζω, βάπτω-βαπτίζω ec. ec. E di questi verbi e temi così alterati materialmente senz'alcun'alterazione di significato, altri restarono soli, venendo a mancare il tema o verbo primitivo e incorrotto, altri restarono insieme con questo, altri insieme con altri verbi fatti per tali alterazioni dal medesimo tema ec. ec. Ed altri interi, altri difettivi, suppliti dal verbo primitivo in molte voci, anomali, regolari ec. ec. del che vedi i Grammatici. E queste alterazioni de' verbi primitivi e de' temi (e così dell'altre radici), alterazioni affatto diverse distinte e indipendenti dalla derivazione e dalla composizione, che anche nelle altre lingue hanno luogo; alterazioni che per niun conto influivano nè modificavano il significato (come influisce e modifica, o suole per lo più e regolarmente fare, la composizione e la derivazione), non furono [3286] già nella lingua greca quasi casuali, rare, fuor di regola e di costume e d'ordine, quasi anomalie, aberrazioni, non proprie della lingua, ma frequentissime, ordinarie, usitate, abituali, e regolari, ossia fatte per regola, come apparisce dal gran numero di temi e verbi che si trovano alterati in questo o quello de' suddetti modi e degli altri che si potrebbero dire; onde i grammatici distinguono siffatte alterazioni o modificazioni affatto materiali in molti diversi generi, e sotto ciascun genere radunano un gran numero di verbi o temi, in quella tal guisa uniformemente alterati dal primo loro essere. Questa tal sorta di alterazione, questo modo di alterare le voci, indipendente e diverso affatto dal derivare e dal comporre, e del tutto scompagnato dalla mutazione o pur modificazione di senso, non si trova punto nel latino; certo non vi si trova per costume nè per regola, nè d'assai così frequente, nè così vario ec. Perlochè anche di qui si faccia ragione quanto più nel greco che nel latino sia difficile il rintracciare le origini, l'antichità, il primitivo o l'antico stato delle voci e della lingua e della [3287] grammatica, le radici, l'etimologie ec. Massime considerando che detta materialissima alterazione si fa non mica in uno o in due, ma in molti diversissimi modi, tutti però frequentatissimi e usitatissimi; che moltissimi verbi o vocaboli così alterati hanno mandato in disuso i non alterati ec. che naturalmente moltissimi verbi così alterati, essendo perduti quelli della primitiva forma, saranno da noi creduti aver la forma primitiva, e pigliati per radici, quando non saranno che alterazioni di queste, più o men lontane, mediate o immediate, maggiori o minori ec. ec. Usa ancora la lingua greca alcune derivazioni di voci, p.e. di verbi, che nulla però cambiano il significato, e il non cambiarlo non è in esse anomalia, o cosa non ordinaria, come lo sarebbe in latino, ma ordinaria e regolare. Voglio dir p.e. di quella maniera siracusana di formare dal perfetto de' temi un nuovo verbo, come da τέϑνηκα di ϑνάω fare τεϑνήκω, da ἕστηκα di στάω, ἑστήκω, da πέϕυκα di ϕύω, πεϕύκω (e questa maniera, con siffatti verbi, sono ricevuti massime da' poeti, ma anche da' prosatori greci, generalmente); e di quell'altra maniera greca di fare dal futuro primo de' temi un nuovo verbo, aggiungendoci il κ, come da τρώω (inusitato) - τρώσω, τρώσκω inusitato onde τίτρωσω. (V. i Gram. se però è vera questa maniera, e non piuttosto si fa p.e. τρώσκω dal tema stesso, cioè τρώω, interpostovi σκ, come da ἵζω, ἱζάνω, interposto [3288] l'an ec. ec.). Queste e tali altre molte derivazioni senza cambiamenti di significato, che perciò appunto hanno contribuito sommamente a perdere e distruggere le voci originarie, e contribuiscono a nasconderle, e renderne difficile l'investigazione, e confondere l'erudito, e dividere i gramatici in cento diversi sistemi e opinioni, sì circa le regole più o men generali, sì circa le particolari etimologie ec. ec.; non hanno luogo nella lingua latina, o certo assai meno senza confronto ec. ec. (27. Agos. 1823.) Ajouter quasi adjunctare, aggiuntare, spagn. juntar, da adiungere. Anche il nostro giuntare è da iungere. V. la Crusca in Giugnere §.7 e il Gloss. in iunctare, adiunctare ec. se ha nulla. (28. Agosto. 1823.) Succenseo è verbo, secondo me, indubitatamente formato dal participio in us d'altro verbo, cioè di succendo. (V. anche il Forcell. in Censeo fine.) Ma oltre al non essere della prima maniera, ei non solo non è di senso continuativo, ma è neutro nel mentre che succendo è attivo. Onde nulla ha che fare colla nostra teoria: se non ch'è notabile, come fatto da un participio passivo, della qual formazione [3289] non mi ricordo adesso altro esempio che sia fuori del numero de' nostri continuativi e frequentativi. (28. Agos. 1823.) Fator aris da for-aris-fatus. Verbo da porsi insieme con dato as, nato as, e s'altro ve n'ha (fatti tutti da un tema monosillabo.), dove l'a del participio in atus, non si muti, nella formazione del continuativo, in i. (28. Agosto 1823.) Alla p. 3246. Fatigo as da ago is (v. Forcell.) se questa etimologia è vera. (Noi abbiamo fatica, volgarmente fatiga, franc. fatigue, spagn. fatiga. Che questa sia la radice di tal verbo? Certo ella è voce commune a tutte tre le lingue figlie. Ma in tal caso dovrebb'ella esserlo ancora di fatisco per venir meno? il che non parrebbe probabile. V. il Gloss. se ha nulla). Ago ha dal participio actus il frequentativo actito, e dall'antico e regolare agitus l'usitato continuativo o frequentativo agito. Non so se mitigo as possa aver nulla che fare con questo discorso. (28. Agos. 1823.) Sogliono le opere umane servire di modello successivamente l'une all'altre, e così appoco [appoco] perfezionandosi il genere, e ciascuna opera, o le più [3290] d'esse riuscendo migliori de' loro modelli fino all'intero perfezionamento, il primo modello apparire ed essere nel suo genere la più imperfetta opera di tutte l'altre, per infino alla decadenza e corruzione d'esso genere, che suole altresì ordinariamente succedere all'ultima sua perfezione. Non così nell'epopea; ma per lo contrario il primo poema epico, cioè l'Iliade che fu modello di tutti gli altri, si trova essere il più perfetto di tutti. Più perfetto dico nel modo che ho dimostrato parlando della vera idea del poema epico p. 3095-3169. Secondo le quali osservazioni da me fatte si può anzi dire che siccome l'ultima perfezione dell'epopea (almen quanto all'insieme e all'idea della medesima) si trova nel primo poema epico che si conosca, così la decadenza e corruzione di questo genere incominciò non più tardi che subito dopo il primo poema epico a noi noto. Similmente negli altri generi di poesia, per lo più, i migliori e più perfetti modelli ed opere sono le più antiche, o assolutamente parlando, o relativamente alle nazioni e letterature particolari, [3291] come tra noi la Commedia di Dante è nel suo genere, siccome la prima, così anche la migliore opera. (28. Agosto. 1823.) Alla p. 3282. Bisogna distinguere tra egoismo e amor proprio. Il primo non è che una specie del secondo. L'egoismo è quando l'uomo ripone il suo amor proprio in non pensare che a se stesso, non operare che per se stesso immediatamente, rigettando l'operare per altrui con intenzione lontana e non ben distinta dall'operante, ma reale, saldissima e continua, d'indirizzare quelle medesime operazioni a se stesso come ad ultimo ed unico vero fine, il che l'amor proprio può ben fare, e fa. Ho detto altrove che l'amor proprio è tanto maggiore nell'uomo quanto in esso è maggiore la vita o la vitalità, e questa è tanto maggiore quanto è maggiore la forza e l'attività dell'animo, e del corpo ancora. Ma questo, ch'è verissimo dell'amor proprio, non è nè si deve intendere dell'egoismo. Altrimenti i vecchi, i moderni, gli uomini poco sensibili e poco immaginosi sarebbero meno egoisti dei fanciulli e dei giovani, degli antichi, degli uomini sensibili e di forte immaginazione. [3292] Il che si trova essere appunto in contrario. Ma non già quanto all'amor proprio. Perocchè l'amor proprio è veramente maggiore assai ne' fanciulli e ne' giovani che ne' maturi e ne' vecchi, maggiore negli uomini sensibili e immaginosi che ne' torpidi. (29) I fanciulli, i giovani, gli uomini sensibili sono assai più teneri di se stessi che nol sono i loro contrarii. Nella stessa guisa discorrasi dei deboli rispetto ai forti e simili. Così generalmente furono gli antichi rispetto ai moderni, e i selvaggi rispetto ai civili, perchè più forti di corpo, più forti ed attivi e vivaci d'animo e d'immaginazione (sì per le circostanze fisiche, sì per le morali), meno disingannati, e insomma maggiormente e più intensamente viventi. (Dal che seguirebbe che gli antichi fossero stati più infelici generalmente de' moderni, secondo che la infelicità è in proporzion diretta del maggiore amor proprio, come altrove ho mostrato: ma l'occupazione e l'uso delle proprie forze, la distrazione e simili cose, essendo state infinitamente maggiori in antico che oggidì; e il maggior grado di vita esteriore essendo stato anticamente più che in [3293] proporzione del maggior grado di vita interiore, resta, come ho in mille luoghi provato, che gli antichi fossero anzi mille volte meno infelici de' moderni: e similmente ragionisi de' selvaggi e de' civili: non così de' giovani e de' vecchi oggidì, perchè a' giovani presentemente è interdetto il sufficiente uso delle proprie forze, e la vita esterna, della quale tanto ha quasi il vecchio oggidì quanto il giovane; per la quale e per l'altre cagioni da me in più luoghi accennate, maggiore presentemente è l'infelicità del giovane che del vecchio, come pure altrove ho conchiuso). Il sacrifizio di se stesso e dell'amor proprio, qualunque sia questo sacrifizio, non potendo esser fatto (come niun'altra opera umana) se non dall'amor proprio medesimo, e d'altronde essendo opera straordinaria, sopra natura, e più che animale (certo in niuno altro animale o ente non se ne vede esempio, se non nell'uomo), anzi più ancora che umana, ha bisogno di una grandissima e straordinaria forza e abbondanza di amor proprio. Quindi è che dove maggiormente [3294] abbonda l'amor proprio, e dov'egli ha maggior forza, quivi più frequenti e maggiori siano i sacrifizi di se stesso, la compassione, l'abito, l'inclinazione, e gli atti di beneficenza. (Vedi a questo proposito le pagine 3107-9, 3117-19, 3153-4, 3167-9.). Ond'è che tutto questo debba trovarsi e si trovi infatti maggiore e più frequente ne' giovani, negli antichi, negli uomini sensibili e d'animo vivo, e finalmente negli uomini, i quali hanno, generalmente parlando, maggior quantità e forza d'amor proprio e minore d'egoismo; di quello che ne' maturi e ne' vecchi, ne' moderni (eccetto quanto alla compassione, come ho detto ne' luoghi qui sopra citati, perchè gli antichi non si sacrificavano che principalmente per la patria), ne' torpidi e insensibili e duri e d'animo tardo e morto, e per fine nelle donne; i quali in genere hanno maggior quantità e forza d'egoismo, e minore d'amor proprio. Restringendo il discorso conchiudo in primo luogo, tanto esser lungi che l'egoismo sia in proporzion diretta dell'amor proprio, ch'egli [3295] n'è anzi in proporzione inversa; egli è segno ed effetto o della scarsezza e languidezza primitiva, o dello scemamento e affievolimento dell'amor proprio; egli abbonda maggiormente ed è maggiore ne' secoli, ne' popoli, nel sesso, negl'individui e nelle età di questi, in che la vita è minore, e quindi l'amor proprio più scarso, più debole e freddo. Conchiudo in secondo luogo che i vecchi e maturi, i moderni, gl'insensibili, le donne hanno maggiore egoismo e minore e men vivo amor proprio che i fanciulli e i giovani, gli antichi, i sensibili, gli uomini (perocchè quelli hanno men vita o vitalità, e l'egoismo è qualità o passione morta, ossia men vitale che si possa).(30) E che per questa cagione sono naturalmente e men disposti e meno soliti di sacrificarsi per chi o per che che sia, di compatire efficacemente o inefficacemente, di beneficare, di adoperarsi per altrui: il che si vede effettivamente essere, e non può negarsi. (Altrettanto dicasi dei deboli e dei forti, degl'infelici abitualmente e degli abitualmente fortunati, e simili; tutte qualità [3296] alle quali corrisponde e dalle quali nasce in questi maggiore, in quelli minore vitalità, ed abito di maggiore o minore attività e vita). (31) Se non che potrà farsi un'eccezione in favor delle donne quanto alla compassione, massime inefficace. Perocchè a questa, come s'è detto ne' luoghi citati qui dietro (p. 3294.), si richiede o giova, non solo la maggior vita, e quindi la maggior quantità e forza dell'amor proprio, ma eziandio la maggiore raffinatezza e delicatezza d'esso amor proprio e dell'animo: nelle quali proprietà le donne sono forse, o certo son riputate essere, superiori generalmente, e in parità di circostanze, agli uomini. E così pure discorrasi de' moderni rispetto agli antichi. In tutto ciò che nella compassione o nella beneficenza richiede piuttosto delicatezza o più delicatezza, finezza, e quasi abilità ed artifizio d'amor proprio, che vivacità, energia, forza e copia del medesimo, e che abbondanza ed intensità di vita; in tutto ciò, dico, e in quello che ad esso appartiene, le donne, i moderni e quelli che nelle predette qualità di delicatezza sono loro analoghi, [3297] superano, ordinariamente parlando, gli uomini, gli antichi, i selvaggi, i villani e così discorrendo. Conforme appunto alle cose dette nelle succitate pagine. Ond'è che le donne in quanto più deboli e bisognose d'altrui, sieno meno misericordiose e benefiche degli uomini; in quanto di corpo e d'animo più delicate, al contrario. Ma in ciò quelle qualità, cioè la debolezza e il bisogno, credo che ordinariamente prevagliano e sieno di maggiore e più notabile effetto che queste, cioè la delicatezza e simili. Onde, tutto insieme compensato, le donne sieno in verità, generalmente e per natura, più egoiste, e quindi meno misericordiose (massime in quanto alla compassione efficace) e meno benefiche degli uomini. Perocchè molto maggior parte ha nella beneficenza, nella disposizione e nell'atto del sacrificar se stesso, e nell'esclusione dell'egoismo, l'intensità, la forza, l'abbondanza della vita, e quindi dell'amor proprio, che la delicatezza e raffinatezza dell'animo disgiunte dalla forza ed energia ed attività ed interna vivace vita del medesimo. E ciò non pur negli uomini rispetto [3298] alle donne, ma generalmente in chi che sia, rispetto a chi che sia. (32) (28. Agos. 1823.). V. p. 3314. Circa il verbo pascito, e il regolare e primitivo participio di pasco ch'egli dimostra, cioè pascitus, poi contratto in pastus, vedi Forcell. in fine di Compesco, ch'è un composto di Pasco. (29. Agosto. 1823.) Distito da disto, dimostrerebbe il suo participio distatus o il supino distatum, se però quel continuativo o frequentativo è vero. Il supino statum di sto è noto. Del resto veggasi la p. 3849. (29. Agos. 1823.) Alla p. 2843. Compesco, dispesco da pasco. Decerpo, discerpo ec. da carpo. (29. Agosto. 1823.) Offenso as (offenser), defenso as, defensito as (difensare) da offensus, defensus di offendo, defendo. (29. Agos. 1823.) Pattare, impattare, empatar, non so s'abbiano a far nulla con paciscor-pactus. Veggasi il Gloss. in proposito. (29. Agos. 1823.) Alla p. 3072. I verbi latini neutri hanno ordinariamente il participio in rus con significato neutro. Quieturus cioè qui quiescet (Sveton. in Jul. Caes. c. 16. §. 2.), mansurus cioè qui manebit, casurus cioè qui [3299] cadet, victurus cioè qui vivet, e altri tali infiniti. Perchè non dunque victus cioè qui vixit, casus cioè qui cecidit, (massime avendovi il verbale casus us, fatto, come altrove osservo esser solito, dal part. in us) ec.? quando pur sembra che quei participii in rus o derivino o almeno suppongano i participii rispettivi in us. Quanto a' verbi attivi, per la stessa ragione, considerando che i lor participii in rus non sono passivi ma attivi, non dovrà fare gran maraviglia, nè parere incredibile che anche i loro participii in us avessero oltre il passivo significato, eziandio l'attivo, come io pretendo. Celsus, excelsus, praecelsus dubito forte che originariamente non sieno altro che participii in attivo o neutro significato, appartenenti a' verbi neutri cello, excello, praecello. De' quali il primo, cioè cello, ch'è inusitato, ma ch'è sufficientemente dimostrato dagli altri due, suoi composti, e da antecello, v. il Forcell. in Excello. Del resto s'io dico che i continuativi e i frequentativi si facevano da' participii in us, piuttosto che da' supini (in um o in u), intendo dell'origine di questa formazione, e de' suoi [3300] primi tempi, e dell'antichità ec. In séguito, quando anche l'altre proprietà di tali verbi così formati erano già mal note, trascurate, cambiate ec. come altrove ho detto, non contendo che chi volesse formare nuovi verbi di questo genere, non li formasse piuttosto dal supino che dal participio in us del verbo originale (sia che questo participio non esistesse più, o che fosse per anche in uso), o vero indifferentemente dall'uno o dall'altro; o che mancando ancora il supino, non facesse che seguire l'analogia degli altri verbi così formati. Solamente osservo 1°. che non perchè molti continuativi e frequentativi che si leggono negli scrittori dell'aureo tempo o de' molto posteriori, non si trovino ne' più antichi, si dee perciò sempre e facilmente conchiudere ch'essi fossero allora nuovi, e coniati appunto da quello o da quegli scrittori, o in quel secolo in cui lo troviamo. 2°. Che l'uso di participii in us di verbi neutri, e d'altri di verbi attivi in significati attivi, non fu solamente proprio dell'antichissima latinità, ma anche dell'aurea, e della declinante e corrotta eziandio (fino forse a passare alle lingue [3301] figlie: v. la p. 3072.), come apparisce dal luogo di Velleio altrove da me notato, e dai vari esempi degli autori che usarono i cosiffatti participii da me sparsamente notati (i quali esempi si possono vedere nel Forcellini), sia che li prendessero a uno a uno da' più antichi, o dall'uso d'allora; o che l'uso durasse in genere per tutti o quasi tutti i verbi neutri e attivi, ad arbitrio dello scrittore e del parlatore, o pur dell'uno soltanto o dell'altro ec. (29. Agos. 1823.) Come l'uomo sia quasi tutto opera delle circostanze e degli accidenti: quanto poco abbia fatto in lui la natura: quante di quelle medesime qualità che in lui più naturali si credono, anzi di quelle ancora che non d'altronde mai si credono poter derivare che dalla natura, nè per niun modo acquistarsi, e necessariamente in lui svilupparsi e comparire, non altro sieno in effetto che acquisite, e tali che nell'uomo posto in diverse circostanze, non mai si sarebbero sviluppate, nè sarebbero comparse, nè per niun modo esistite: come la natura non ponga quasi [3302] nell'uomo altro che disposizioni, ond'egli possa essere tale o tale, ma niuna o quasi niuna qualità ponga in lui; di modo che l'individuo non sia mai tale quale egli è, per natura, ma solo per natura possa esser tale, e ciò ben sovente in maniera che, secondo natura, tale ei non dovrebb'essere, anzi pur tutto l'opposto: come insomma l'individuo divenga (e non nasca) quasi tutto ciò ch'egli è, qualunque egli sia, cioè sia divenuto. Qual cosa pare più naturale, più inartifiziale, più spontanea, meno fattizia, più ingenita, meno acquistabile, più indipendente e più disgiunta dalle circostanze e dagli accidenti, che quel tal genere di sensibilità con cui l'uomo suol riguardare la donna, e la donna l'uomo, ed essere trasportato l'uno verso l'altra; quel tal genere, dico, di affetti e di sentimenti che l'uomo, e massimamente il giovane nella prima età, senz'ombra di artifizio, senza intervento di volontà, anzi tanto più quanto egli è più giovane, più semplice ed inesperto, e quanto meno il suo carattere [3303] è stato modificato e influito dall'uso del mondo e dalla conversazione degli uomini e pratica della società, suol provare alla vista o al pensiero di donne giovani e belle, o nel trattenersi seco loro; e così le donne giovani cogli uomini giovani e belli? quel tressaillement, quell'emozione, quell'ondeggiamento e confusione di pensieri e di sentimenti tanto più indistinti e indefinibili quanto più vivi, che parte par che abbiano del materiale, parte dello spirituale, ma molto più di questo, in modo che par ch'egli appartengano interamente allo spirito, anzi alla più alta e più pura e più intima parte di esso? Or questo genere di sentimenti e di affetti e di pensieri, questa qualità del giovane, cioè questa tale sensibilità, e la facoltà ed abito di provare questi siffatti sentimenti, non è per niun modo naturale nè innata, ma acquisita, ossia prodotta di pianta dalle circostanze, e tale che se queste non fossero state, l'uomo neppur conoscerebbe nè potrebbe pur concepire questa qualità, nè anche sospettare d'esserne capace. [3304] Il genere umano naturalmente è nudo, e, seguendo la natura, almeno in molte parti del globo, egli non avrebbe mai fatto uso de' vestimenti, siccome le vesti sono affatto ignote p.e. ai Californii. Nè l'uomo nè il giovane non avrebbe mai veduto nè immaginato nelle donne (e così la donna negli uomini) nulla di nascosto. E nulla vedendo di nascosto, nè potendo desiderare o sperar di vedere, e ben conoscendo fin dal principio la nudità e la forma dell'altro sesso, egli non avrebbe mai provato per la donna altro affetto, altro sentimento, altro desiderio, che quello che per le lor femmine provano gli altri animali; nè avrebbe concepito intorno a lei altro pensiero che quello di mescersi seco lei carnalmente; nè l'aspetto o il pensiero o la compagnia della donna avrebbe in lui cagionato, neppur nella primissima gioventù, verun altro effetto che un desiderio il più puramente e semplicemente sensuale che possa mai dirsi, un impeto a soddisfare tal desiderio, ed un piacere (molto languido in se stesso per l'abitudine e l'assuefazione incominciata sin dalla nascita, e sempre continuata) altrettanto carnale che quel desiderio, e interamente, unicamente [3305] e manifestissimamente materiale, cioè appartenente e derivante dalla sola materia e dal senso, nè più nè meno che quel piacere che in lui avrebbe prodotto la vista di un color rosso bello e vivo o altra tal sensazione; se non solamente che quel diletto sarebbe stato per natura maggiore di questi; siccome tra gli altri diletti, o naturalmente o per circostanze, qual è maggiore qual è minore, non in se, ma rispetto agli uomini e agli animali, insomma agli esseri che li provano, e ne' quali essi diletti nascono ed hanno l'essere. Tale sarebbe stato l'uomo in natura per rispetto alla donna, e la donna per rispetto all'uomo. Ma introdotto l'uso de' vestimenti (e di più que' costumi e quelle leggi fattizie ed arbitrarie di società che impediscono o difficultano il torli di mezzo quando si voglia ed occorra), la donna all'uomo (massime al giovane inesperto) e l'uomo alla donna sono divenuti esseri quasi misteriosi. Le loro forme nascoste hanno lasciato luogo all'immaginazione di chi le mira così vestite. Per l'altra [3306] parte l'inclinazione e il desiderio naturale dell'un sesso verso l'altro non ha, per questo cangiamento di circostanze esteriori, potuto nè cessare nè scemare nel genere umano, niente più che negli altri animali. L'uomo dunque (e così la donna verso l'uomo) si è veduto sommamente e sopra tutte le cose trasportato, com'ei fu sempre, verso un essere il quale non più, come prima, se gli rappresentava e se gli era sempre rappresentato dinanzi tutto aperto e palese, e tale e tanto, quale e quanto esso è; ma verso un essere quasi tutto a lui nascosto, un essere che sin dalla sua nascita non se gli è rappresentato nè agli occhi nè al pensiero, o non suole rappresentarsegli, che velato tutto e quasi arcano. Ecco da una circostanza così estrinseca, così accidentale, così removibile, com'è quella de' vestimenti, mutato affatto, massime nella fanciullezza e nella prima gioventù il carattere e le qualità dell'un sesso rispettivamente all'altro. La vista, il pensiero, la conversazione di [3307] questo essere sopra tutti e invincibilmente amato e desiderato, ma le cui forme non cadono (almeno abitualmente) sotto i suoi sensi, e che per conseguenza, essendone celate le forme (che sono sì gran parte e dell'uomo e d'ogni cosa), e di più impeditane o fattane difficile la libera conversazione, e quindi anche l'intera conoscenza del suo animo, costumi ec., per conseguenza, dico, è divenuto per lui tutto misterioso; il pensiero dico e la vista e il consorzio di questo essere l'immerge in una quantità di concezioni, d'immaginazioni, d'illusioni, di sentimenti, vivissimi e profondissimi perchè quell'essere gli è per natura dolcissimo e carissimo, ma nel tempo stesso confusissimi, incertissimi, per lo più falsissimi, sublimi, vasti, perchè quel medesimo essere trovandosi essergli quasi tutto misterioso e quasi cosa segreta ed occulta, i pensieri e i sentimenti ch'esso gli desta, sono tutti capitalmente e quasi esclusivamente governati e modificati e figurati, e in gran parte prodotti e creati, dalla fantasia, e questa [3308] gagliardamente mossa. Nello stato naturale, l'inclinazione innata dell'uomo verso la donna, trovando tutto aperto e palese, e niun luogo avendovi alla immaginativa, ella non producea che pensieri e sentimenti semplicissimi, distintissimi, chiarissimi, materialissimi. Ora essa inclinazione, esso amore ingenito e naturalmente fortissimo e ardentissimo, trovando il mistero, e i loro effetti congiungendosi nell'animo umano colla idea del mistero, o vogliamo dir con un'idea oscura e confusa, oscurissimi e confusissimi, ondeggianti, vaghi, indefiniti, cento volte meno sensuali e carnali di prima (poichè la detta idea non viene immediatamente dal senso ec.), e finalmente quasi mistici debbono essere i pensieri e gli affetti che risultano da questa mescolanza di sommo desiderio e tendenza naturale, e d'idea oscura dell'oggetto di tal desiderio e tendenza. E però l'uomo si rappresenta la donna in genere, e in ispecie quella ch'egli ama, come cosa divina, come un ente di stirpe diversa dalla sua ec. Perocchè la natura gliela propone come desiderabilissima e amabilissima, le circostanze gliela rendono desideratissima (perocch'ei non può facilmente nè subito ottenerla), ed esse altresì gli nascondono quale ella sia veramente ec. E così da una circostanza così materiale, com'è quella de' vestimenti (e come son l'altre cagionate dai costumi e leggi sociali circa le donne), nasce nell'uomo un effetto il più spirituale [3309] quasi, che abbia mai luogo nel suo animo, i pensieri e i sentimenti più sublimi e più nobili e più propri dello spirito, la persuasione di non esser mosso che da esso spirito ec. ec.; da una circostanza così reale e visibile e determinata nascono in lui le maggiori illusioni, i più vaghi, incerti, indeterminati pensieri, la maggiore operazione della più fervida e più delirante e sognante immaginativa; da una circostanza così accidentale un effetto così intimo, così generale nel più de' giovani (almeno per un certo tempo), così costante, così connesso e proprio, a quel che pare, del carattere dell'individuo; finalmente da una circostanza non naturale nasce un effetto che universalmente si considera come il più naturale, il più proprio dell'uomo, il più assolutamente inevitabile, il meno acquistabile, il meno fattibile, il meno producibile da altra forza che dalla stessa mano della natura, il più congenito ec. secondo che ho detto di sopra. Così e per queste cagioni nacque nel genere umano tra l'uno e l'altro sesso la tenerezza, la quale i selvaggi non provano e non conoscono (nè gli uomini primitivi provarono, nè una nazione dove non s'usino le vestimenta ec. [3310] proverà o conoscerà mai) siccome niun altro degli effetti sopra descritti, anzi neppure, propriamente parlando, l'amore, ma l'inclinazione e l'impeto da lei cagionato, l'ὁρμήν, l'abito e l'atto della tendenza; perchè non è propriamente amore quello che noi ponghiamo p.e. all'oro e al danaio. V. p. 3636. e 3909. Altra prova delle proposizioni da me esposte nel principio di questo pensiero, può essere, fra le mille, la seguente. Qual uomo civile udendo, eziandio la più allegra melodia, si sente mai commuovere ad allegrezza? non dico a darne segno di fuori, ma si sente pure internamente rallegrato, cioè concepisce quella passione che si chiama veramente gioia? Anzi ella è cosa osservata che oggidì qualunque musica generalmente, anche non di rado le allegre, sogliono ispirare e muovere una malinconia, bensì dolce, ma ben diversa dalla gioia; una malinconia ed una passion d'animo che piuttosto che versarsi al di fuori, ama anzi per lo contrario di rannicchiarsi, concentrarsi, e ristringe, per così dire, l'animo in se stesso quanto più può, e tanto più quanto ella è più forte, e maggiore l'effetto [3311] della musica; un sentimento che serve anche di consolazione delle proprie sventure, anzi n'è il più efficace e soave medicamento, ma non in altra guisa le consola, che col promuovere le lagrime, e col persuadere e tirare dolcemente ma imperiosamente a piangere i propri mali anche, talvolta, gli uomini i più indurati sopra se stessi e sopra le lor proprie calamità. In somma generalmente parlando, oggidì, fra le nazioni civili, l'effetto della musica è il pianto, o tende al pianto (fors'anche talor di piacere e di letizia, ma interna e simile quasi al dolore): e certo egli è mille volte piuttosto il pianto che il riso, col quale anzi ei non ha mai o quasi mai nulla di simile. Questi effetti della musica su di noi ci paiono sì naturali, sì spontanei ec. ec. che non pochi vorranno e vogliono che sia proprio assolutamente della natura umana l'essere in tal modo affetti dall'armonia e dalla melodia musicale. Ora, tutto al contrario di quello che avviene costantemente tra noi, sappiamo che [3312] i selvaggi, i barbari, i popoli non avvezzi alla musica o non avvezzi alla nostra, in udirne qualche saggio, prorompono in éclats di giubilo, in salti, in grida di gioia, si rompono dalle risa per la grande contentezza, e insomma cadono in un entusiasmo e in un'intera e decisa ebbrietà e furore e smania di pura allegria. (29-30. Agos. 1823.). Votare ec. da voveo-votus. Persécuter, perseguitare ec. veggasi il detto da me nella teoria de' continuativi circa il verbo sectari. Mercatare ec. da mercor mercatus. Veggansi il Gloss. il Forc. i Diz. franc. e spagn. (31. Agosto. Domenica. 1823.) Patulus sembra un diminutivo di patus, andato in piena dimenticanza, restando in sua vece il detto diminutivo. - A quello che altrove ho detto di fabula e fabella, se ambo sieno diminutivi, o quello positivo, questo diminutivo, aggiungi l'esempio di baculum e baculus positivi, bacillum diminutivo. E vedi il luogo di S. Isidoro appo il Forcellini in Bacillum [3313] fine. (31. Agosto 1823.) Circa quello che ho detto altrove della melodia, basti il tenere che il principio, l'origine prima, il fondamento, ossia la ragione originale del perchè qualsivoglia successione melodiosa di tuoni, sia melodiosa, cioè armonica successivamente; o vogliamo dire la prima fonte e ragione della convenienza scambievole de' tuoni nella successione, non fu e non è quasi altro che l'assuefazion solamente, la quale bensì è suscettibile di ampliazione, di modificazioni infinite e variazioni, di applicazioni diversissime, di diversissime combinazioni delle sue parti; cose tutte che hanno infatti avuto ed hanno continuamente luogo nella musica e nelle composizioni del Musico, il cui uffizio non è originariamente e principalmente altro che il far buon uso delle assuefazioni generali circa l'armonia, cioè la convenienza, successiva o simultanea delle note delle corde, degli stromenti, voci ec. ec. servata la proporzione scambievole degl'intervalli, ossia del tempo. Ben può il Musico modificare in assaissime guise queste assuefazioni, ma dee però sempre riconoscerle [3314] e seguirle e in loro mirare, come fondamento e ragione dell'arte sua. (31. Agosto. Domenica. 1823.) Alla p. 3298. Un uomo (o donna) di carattere naturalmente pacifico, placido, quieto, riposato, ordinato, inclinato a una certa pigrizia, è per natura portato all'egoismo. Quanto più l'uomo o per indole e condizion primitiva, o per effetto dell'età, o per istanchezza del mondo, per disinganno ec. ama il riposo, la pace, l'ordine, l'uniformità della vita, è lontano dal calore, dai desiderii vivi, dai disegni vasti o impetuosi, o fervidi, o attivi ec. è dedito all'inazione, al metodo; anzi quanto più egli è tollerante delle ingiurie e degli stessi patimenti per debolezza d'animo o di corpo o d'ambedue, quanto è più disposto e solito di rinunziare al risentimento, di chinare il capo alle circostanze, alla necessità, di sacrificare e di posporre qualunque cosa alla conservazione della sua quiete interna ed esterna e della sua inattività; quanto più l'uomo è vile e codardo; quanto più suole appagarsi del presente, soddisfarsi di ciò che gli accade, pigliar le cose come vengono; tanto meno egli è disposto e solito di sacrificarsi o adoperarsi [3315] per altrui; tanto meno è accessibile alla compassione, tanto più è inclinato e tanto più ha d'egoismo. L'abitudine dell'ozio in qualsivoglia età, è sempre conciliatrice d'egoismo. In somma per tutte queste osservazioni, e per qualunque altra si voglia fare intorno ai vari caratteri degli uomini, apparisce e sempre apparirà, che la natura dell'egoismo è un ghiaccio dell'animo; un freddo, un congelamento, una quasi concrezione, una durezza o un induramento, una secchezza o un disseccamento dell'amor proprio; una povertà, una scarsezza di vita; una inattività effettiva, o un'inclinazione alla medesima ec.; o naturale o avventizia che sia, o morale o fisica, o l'uno e l'altro, o portata dalla nascita e cresciuta poi e confermata coll'assuefazione colle circostanze cogli avvenimenti della vita ec., o da queste prodotta in contrario e in dispetto dell'indole primitiva ec. (31. Agosto. 1823.). Io credo potere asserire che generalmente gli uomini meno soggetti a passioni veementi, quelli che non amano il piacere, quelli che mai non vissero per li piaceri, mai non furono trasportati da' piaceri e [3316] dal desiderio e furore di questi (sieno piaceri corporali o spirituali), o che più nol sono; anche i meno iracondi, i più pazienti, e simili, per natura, o per abito contratto; sono i più inclinati all'egoismo, i più alieni abitualmente dal compatire e dal beneficare; spesso anche i più ingiusti per volontà riflettuta. E i contrari viceversa. Sono moltissimi che amano, predicano, promuovono, ed esercitano esclusivamente la giustizia, l'onestà, l'ordine, l'osservanza delle leggi, la rettitudine, l'adempimento de' doveri verso chi che sia, l'equa dispensazione de' premi e delle pene, la fuga delle colpe; ma ciò non per virtù, nè come virtù, non per finezza o grandezza o forza o compostezza d'animo, non per inclinazione, non per passione, ma per viltà e povertà di cuore, per infingardaggine, per inattività, per debolezza esteriore o interiore, perchè non potendo (per debolezza) o non volendo (per pigrizia) o non osando (per codardia) nè provvedersi nè difendersi da se stessi, vogliono che la legge e la società vegli per loro, e provvegga loro e li difenda senza loro fatica, e in modo ch'essi se ne riposino su di lei; perchè la via del retto è la meno pericolosa, la sola che nel mondo [3317] sia palesemente permessa; perchè l'onestà delle azioni avendo (almeno apparentemente) meno ostacoli a combattere, cagiona meno imbarazzi, esige meno attività, meno travagli, produce conseguenze meno moleste; perchè non ardiscono contravvenire alle leggi, nè farsi alcun nemico, molto meno quei che comandano e che vegliano all'esecuzione d'esse leggi; perchè temono il castigo, la riprensione, il biasimo pubblico, si lasciano imporre dall'apparenza dell'opinione universale, la quale opinione mostra di stimare o di non molestare nè denigrare i buoni, e di odiare e biasimare i cattivi ec. perchè non hanno spirito d'aspirare a cose straordinarie, nè di procacciarsi o beni o piaceri, nè di avanzare il loro stato ec., col subire qualche, ancorchè minimo, pericolo, col combattere qualche ostacolo, ec. nè di nulla tentare fuor del consueto e dell'ordine, e nulla rischiare, ec. Questi tali, benchè incapaci di far male o torto (volontariamente) ad alcuno, o d'offendere altrui in verun modo, di soverchiare ec. sono grandissimi egoisti, chiusi alla compassione, ignari della beneficenza. Sono altri ch'esercitano ed amano al modo stesso la giustizia, non per virtù, nè anche per viltà, ma perchè stanchi e disingannati del mondo, e nulla più curandosi di quanto si possa acquistare o coll'ingiustizia o comunque, non cercano più che la pace, la quale non si trova fuor dell'ordine, e però sono amici dell'ordine. Questi ancora sono per lo più egoisti o nati o divenuti. (1. Settembre. 1823.). Italianismi nell'uso della voce unus. Vedi Svetonio, in Iul. Caes. cap.32. §.1. e quivi il Pitisco ec. col Forcellini ec. (1. Sett. 1823.) ________________ (1) Veggasi la p. 3452 fine-58. (2) V. la p. 3448. segg. e in particolare 3450-1. (3) Veggasi la p. 3451-2. (4) Petr. Tr. della Fama cap. 2. terzina 48. (5) Erano allora i politici privati più di numero in Italia che altrove, l'opposto appunto di oggifì, perchè pure al contrario di oggidì, era in quel secolo maggiore in Italia che altrove e più comune e divulgata nelle diverse classi, la coltura, e l'amor delle lettere e scienze ed erudizione per una parte (le quali cose tra noi si trattavano in lingua volgare, e tra gli altri p. lo più in latino, fuorchè in Ispagna), e per l'altra una turbolenta libertà fomentata dalla molteplicità e piccolezza degli Stati, che dava luogo a poter facilmente trovar sicurezza e impunità, col passare i confini e mutar soggiorno, chi aveva o violate le leggi, o troppo liberam. parlato o scritto, o offeso alcun principe o repubblica nello stato italiano in ch'ei dapprima si trovava. (6) Nótisi che il Tasso proccurò eziandio di render nazionale l'argomento della Gerusalemme col dare tra' Cristiani le maggiori parti del valore a due italiani; Tancredi di Campagna nel Napoletano il qual era patria del Tasso, e Rinaldo d'Este progenitore del Duca a cui il Tasso indirizzava il poema. E Rinaldo si è propriamente, non pure il secondo, ma l'altro Eroe della Gerusalemme con Goffredo, come ho detto a suo luogo, e, secondo l'intenzione del Tasso, a parti uguali, ma in effetto e' riesce maggior di Goffr. (7) V. p. 3173. Vedi ancora particolarm. lo Speroni Oraz. Ven. 1596. p. 23. e p. 56. 109. e Castiglione, Cortegiano e. Ven. 1541. carta 173; ed. Ven. 1565. p. 423-24, libro 4. (8) Veggasi la p. 3451-2. (9) p. 3125. (10) Argante, Clorinda, Solimano. Questi ed Argante sono anche espressam. emuli, ma tutti tre pari di valore. Altri eroi degl'infedeli non v'ha nella Gerus. V. p. 3535. (12) Anche Omero e Dante hanno assai che fare per ridestar la nostra immaginaz. Contuttociò, quantunque la fantasia di L. Byron sia certo naturalm. straordinaria, nondimeno è pur vero che anch'ella è in grandiss. parte artefatta, o vogliamo dire spremuta a forza, onde si vede chiaram. che il più delle poesie di L. Byr. vengono dalla volontà e da un abito contratto dal suo ingegno, piuttosto che da ispiraz. e da fantasia spontaneam. mossa. (13) Veramente di tutti i poemi epici, il più antico, cioè l'Iliade, è, quanto all'insieme, allo scopo totale e non parziale, al tutto e non alle parti, all'intenzion finale e primaria, non episodica, addiettiva e secondaria e quasi estrinseca, accidentale ec.; è, dico il più sentimentale, anzi il solo sentimentale; cosa veramente strana a dirsi, e che par contraddittoria ne' termini, ed è infatti mostruosa ed opposta alla natura de' progressi e della storia dello spirito umano e degli uomini, e delle differenze de' tempi, alla natura rispettivamente dell'antico al moderno, e viceversa ec. È anche il poema più Cristiano. Poichè interessa pel nemico, pel misero ec. ec. (14) Veggasi la p. 3289-91. (15) V. Tasso, Gerus. 17. 93-4, dove parla d'Alfonso II. di Mod.a e confrontalo coi luoghi dello Speroni da me notati p. 3132. marg. princip. V. p. 4017. (16) Può vedersi la p. 3491-4. circa la timidità che è propria di questo secondo genere e che affatto impedisce di essere stimato nella società, distrugge qualunque stima si potesse esser conceputa di un individuo prima di conoscerlo ec. Ella è sovente comune anche al primo genere, ma solo con quelli di cui hanno soggezione, laddove nel secondo con tutti, perchè questi tali hanno soggezione di se stessi. Ella è affatto esclusa dal genere intermedio, e questo è il solo che ne sia sempre esente e al tutto sicuro. (17) L'abitudine di sempre pensare, e di poco parlare; di raccor tutto dentro e poco versar di fuori; di trattenersi con se stesso, di stare raccolto come un devoto, di poco agire, poco conversar nelle cose del mondo, poco trattare, per attendere agli studi; spendere tutte le sue facoltà nel proprio interno ec. ec. tutte queste cose rendono l'individuo incapace di portarsi bene nella società quanto un altro che sia pur di molto meno talento; perocchè a lui manca l'esercizio dell'operare, del conversare, di parlare (massime di cose frivole, come bisogna ec.) e le dette sue qualità ed abitudinipositive escludono anche positivamente la capacità di contrarre le abitudini e di aquistare le qualità sociali. Così la gravità a cui un tale individuo è neccessariam. abituato, la serietà, il pigliar le cose per l'importante, e se non importano lasciarle, esclude la possibilità di aquistar la leggerezza, l'abito di dar peso naturalm. alle cose minime, di scherzare, d'interessarsi con verità p. le bagattelle, di trovar materia di discorso dove assolutam. non ve n'ha ec. ec. tutte cose necessarissime in società: pigliar le cose, le materie, anche importanti e serie, da lato non importante e non serio, o trattarle non seriamente, superficialmente, scherzevolmente ec. ec. e come bagattelle ec. ec. e le profonde a fior d'acqua ec. ec. (18) V. p. 3386. fine. (19) Maggiormente sconvenevole però si è questo nella musica che nella poesia. Perocchè la scienza musicale, in ordine alla musica è di più basso e ben più lontano rango, che non è la poetica in ordine alla poesia. Il contrappunto è al musico quel che al poeta è la grammatica. La musica non ha un'arte che risponda a quel ch'è la poetica alla poesia, la rettorica all'oratoria. Ben potrebbe averla, ma niuno ancora ha pensato a ridurre a principii e regole le cagioni degli effetti morali della musica e del diletto che da lei deriva, e i mezzi per produrli ec. (20) Vedi la pref. di Timeo al suo Lessico Platonico appo il Fabric. B. G. edit. vet. 9.419. (21) Così anche parecchi inglesi, e generalmente tutti coloro che non sono assuefatti e non conoscono altro che studi e cose esatte. Ma certo è che di tali filosofi, metafisici, politici-matematici, ed aridi, ve n'ha più copia fra' ted. e dipoi fra' gl'ingl. che altrove, come in Francia o in Italia. (22) Similm. dicasi di nex, onde neco, eneco ec. (23) Puoi vedere le pagg. 3084-90. (24) Pendendo però più al sud. (25) Puoi vedere la p. 2989-91. (26) Veggansi le pagg. 3765-8. (27) Ciò per la varietà de'dialetti, o per altro, in modo però che le voci formate per tali alterazioni sono generalmente proprie degli scrittori greci o de' poeti; onde a noi partoriscono la stessa difficoltà, qual se ne fosse la cagione e l'origine e quando questa pur fosse particolare, la difficultà che a noi viene è ordinaria e generale ec. (28) Da ὄϕλω o da ὀϕείλω, ὀϕλισκάνω, doppia alterazione (29) Che l'amor proprio sia maggiore ne' fanciulli e ne' giovani che nell'altre età, segno n'è quella infinita e sensibilissima tenerezza verso se stessi, e quella suscettibilità e sensibilità e delicatezza intorno a se medesimi che coll'andar degli anni e coll'uso della vita proporzionatam. si scema, e in fine si suol perdere. (30) Da queste teorie séguita che le bestie, avendo meno vita dell'uomo, perocchè hanno meno spirito e più del materiale, e di ciò ch'esiste e non vive ec., debbano aver meno amor proprio, e più egoismo; e così è infatti: e che tra loro la specie men viva, come il polipo, la lumaca ec. dev'esser la più egoista: e che scendendo ai vegetabili e quindi per tutta la catena delle creature, si può dir che più scema la vita più cresca l'egoismo, onde l'éssere il più inorganizzato, sia in certo modo il più egoista degli esseri. ec. (31) Anche i climi, anche le stagioni, come influiscono sul più e sul meno della vita o vitalità, attività interna o esterna ec. debbono anche influire sul più e meno dell'amor proprio, e quindi anche dell'egoismo, e quindi anche della disposizione naturale alla misericordia, alla benevolenza ec. Veggansi le pagg. 2752.-5, 2926. fine-28. (32) Secondo questi discorsi una donna vecchia, massime vivuta nella gran società, dev'essere la più egoista persona umana (p. natura, e regolarmente parlando) che possa concepirsi. EDIZIONE DI RIFERIMENTO: "Giacomo Leopardi - Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura", volumi I-VII, Successori Le Monnier, Firenze, 1898-1907 ( Vedi: - 1 - - 2 - - 3 - - 4 - - 5 - - 6 - - 7 - ) |
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