Giacomo Leopardi - Opera Omnia >> Dissertazione sopra la luce |
illeopardi testo integrale, brano completo, citazione delle fonti, commedie opere storiche opere letterarie in prosa e in versi, operaomnia # La luce è una delle 33 sostanze semplici note, la quale per la sua affinità con l'ossigeno agisce in modo particolare sopra i corpi. La di lei natura è stato finaddora il soggetto delle più importanti Filosofiche dispute. Pretende Cartesio che il sole circondato per ogni parte dalla materia globosa premendola efficacemente risvegli in noi il senso della vista. Sembra che il Cartesio non sappia in alcuna occasione dimenticare il frivolo sistema del chimerico suo vortice. Per mezzo di esso egli ha preteso dimostrare l'impossibilità del vuoto; esso ha supposto esser la cagione della gravità dei corpi, senza darsi in modo alcuno la briga di esaminare la grandissima difficoltà, che incontrasi nell'ultimo di questi sistemi, il quale si oppone diametralmente alla prima universalissima, ed evidentissima legge della gravità, la di cui causa cercasi in esso di spiegare. Conoscendo adunque l'Abbate Nollet l'assurdità dell'ipotesi Cartesiana, per l'insussistenza di questo vortice, e di questa materia globosa, cercò di supplirvi ammettendo esser la luce un fuoco elementare, il quale benchè sia sempre presente nondimeno per eccitare in noi il senso della vista ha bisogno di esser messo in moto dai corpi luminosi. Ma oltre l'esser questo sistema soggetto a gravissime difficoltà, che non è ora del mio instituto l'esporre convien confessare, che il modo, con cui spiegansi in esso gli effetti della luce è sopra modo difficile ad intendersi poichè per qual ragione un corpo, che è per ipotesi mobilissimo di sua natura, ed elastico non può esser messo in moto, che dai corpi luminosi? Egli è questo un fenomeno ancor più difficile a spiegarsi di quello, la di cui cagione cercasi di conoscere. A porre in chiaro delle sì intrigate questioni sorse in Inghilterra il Cav. Isacco Newton, e prendendo a dilucidare gli antichi principj di Democrito, e di Epicuro propose l'unico vero sistema circa la luce affermando esser ella una reale continua emanazione de' corpi luminosi. L'obbjezione più comune, e solita ad opporsi a così fatta proposizione ell'è che il sole per cagion d'esempio verrebbe appoco appoco a distruggersi dovendo ad ogni momento scagliare una quantità immensa di luce. Questa obbjezione però facilmente vien resa inutile se si osservi che non soffrendo alcuna sensibile diminuzione di peso un picciolissimo corpo odoroso quantunque sparga per mesi, ed anni una grandissima quantità di effluvj, molto meno dovrà soffrirla un corpo, il quale è 14ò.0 volte più grande del globo, che noi abitiamo; oltredichè la luce, che egli diffonde è di una tal sottigliezza, che la nostra immaginazione non può in alcun modo percepirla. Ammessa adunque l'ipotesi Newtoniana noi passeremo a conoscere, e spiegare le proprietà, e gli effetti della luce dividendo quanto siam per dire nelle tre parti, in cui l'Ottica vien divisa vale a dire l'Ottica così detta, la quale considera la luce ne' corpi luminosi, la Diottrica, che n'esamina gli effetti ne' corpi diafani, e la Catottrica, che la riguarda ne' corpi opachi. Noi daremo infine una breve nozione del fuoco, la quale non sembra lontana dal nostro instituto. I raggi della luce si propagano in linea retta per ogni verso illuminando uno spazio sferico, nel cui centro è posto ciascun punto del corpo luminoso. Da ciò si rileva, che i raggi emanati dai varj punti del corpo luminoso debbono necessariamente intersecarsi fra loro, e decrescere in densità a misura che si allontanano dal proprio centro. Credevasi una volta, che la propagazione della luce fosse instantanea, ma si conobbe la falsità di questo principio per mezzo di un'osservazione, la quale vien riferita dal P. Paulian nel modo, che segue. Ogni qual volta Giove si pone tra la terra, e il suo satellite principale questo ne viene a nostro riguardo ecclissato, e noi non possiamo vederlo, che dopo seguita la sua emersione la quale ci è visibile 14. minuti prima allorchè Giove è apogèo, e 14. minuti dopo quando egli è perigèo. La propagazione della luce non è dunque instantanea. Da questa medesima osservazione vien determinata la velocità della luce, poichè essendo riguardo a noi la diversità della distanza di Giove apogèo e Giove perigèo di circa 66ò.00 di leghe, ne segue, che la luce scorre 66ò.00 di leghe nel solo spazio di 14. minuti. "Dalla forza indicibile onde abbiam veduto esser lanciata la luce da' corpi luminosi sembra derivare, al dir del Sig.r Saverio Poli, la proprietà cui ella costantemente serba di propagarsi per sentieri rettilinei conciossiachè la veemenza di quell'impulso fa sì, che le sue particelle si dispongano in serie l'una dopo l'altra, e quindi costituiscano de' raggi emuli di altrettante linee rette; non potendo la loro gravità distorli da quel retto sentiere per esser ella infinitamente picciola in corrispondenza della loro prodigiosa sottigliezza. In prova di ciò sì può far entrare un raggio di sole entro una camera buja per un foro praticato in una finestra. Vedrassi ella seguire immancabilmente il mentovato retto sentiere, talchè facendosi un altro foro nella parte opposta del muro, fino a cui si sporge il detto raggio propagherassi egli al di fuori, e scomparirà dell'intutto quella sua porzione, che attraversa la stanza senza diffondere in quella la menoma quantità di luce. Lo provano similmente le ombre de' corpi, i cui perimetri sono tali, che scorgonsi limitati da' raggi sporgenti in linea retta dal corpo illuminato sino ai diversi loro punti. Che anzi neppur elleno esisterebbono se la luce si propagasse per curvi sentieri, giacchè le ombre vengono cagionate siccome ognun sa da una semplice privazione di luce oppur dall'esser ella debole all'eccesso". Ed infatti se si ponga d'innanzi a dell'acqua corrente un corpo immobile si vedrà ella ripiegarsi verso i suoi lati e quindi piegandosi di nuovo, e riunendosi seguire come prima il suo corso, il che non accadendo nella luce è necessario il dire, che ella non si propaga, che per sentieri rettilinei. La luce allorchè passa per i corpi diafani soffre un certo devìamento, il quale chiamasi rifrazione. Egli è tanto maggiore quanto maggiore è la densità del mezzo, per cui la luce è costretta a passare. Per la Rifrazione ella si accosta tanto più alla linea perpendicolare alla superficie del mezzo quanto egli è più denso del corpo, in cui ella era prima della rifrazione, e tanto più se ne allontana quanto il primo è meno denso del secondo. I vetri convessi sono quelli, i quali riuniscono i raggi, che cadono sopra di essi in un punto tanto meno distante dal proprio foco quanto maggiore è la loro convessità. Così quanto ella è maggiore tanto maggiori appariscono gli oggetti guardati attraverso del vetro, perchè in tal modo questo riunisce i raggi emanati da ciascun punto dell'oggetto più presto, e per conseguenza in un angolo maggiore. Egli è dimostrato dalla leggi dell'Ottica, che quanto maggiore è l'angolo sotto cui ci si presentano gli oggetti tanto maggiore ci apparisce la loro grandezza. Per ciò i vetri concavi ci mostrano più piccioli gli oggetti guardati a traverso di essi giacchè aumentando la divergenza de' raggi, che partono da questi oggetti ne ritardano la congiunzione, e ce li rappresentano conseguentemente sotto un angolo minore. La cagione per cui i vetri convessi ci mostrano ad una data distanza gli oggetti rovesciati è che i raggi da essi rifratti dopo essersi riuniti progrediscono per la loro direzione in modo che quelli, i quali son rifratti nella parte destra del vetro dopo la loro riunione vanno alla parte sinistra, quelli di alto in basso, e così viceversa, dal che ne segue che essi ci mostrano l'oggetto in una situazione contraria a quella dove egli realmente si trova. Sembra appartenere specialmente a questa parte di Ottica la descrizione della struttura dell'occhio, e del modo, in cui egli percepisce, e vede gli oggetti. I raggi scagliati dai varj punti dell'oggetto entrano per la tonaca detta cornea nell'umore lenticolare, e convesso chiamato acqueo, il quale riempie le due prime camere, o cavità dell'occhio. Quivi rifratti, e resi gli uni più vicini agli altri secondo le leggi della Diottrica passano, e sono successivamente, e maggiormente rifratti dall'umor cristallino, e dall'umor vitreo, dopo di che giungono alla membrana detta retina, e dipingendovi l'oggetto ammuovono il nervo ottico, da cui viene la sensazione della vista portata al cerebro. La visione è distinta allorchè i raggi giungono alla retina perfettamente riuniti, confusa allorchè eglino si riuniscono prima, o dopo di esservi giunti. Un cristallino troppo convesso riunisce assai presto, e più in qua della retina i raggi emanati dagli oggetti lontani per esser eglino paralleli, e rappresenta distintamente gli oggetti vicini perchè i raggi emanati da questi sono divergenti, e per conseguenza più tardi vengon raccolti. Perciò un cristallino poco convesso li riunisce più in là della retina, e non congiunge nel suo foco, che i raggi paralleli. Quelli, il di cui cristallino è della prima specie appellansi Miopi, e presbiti quelli, che lo hanno della seconda. Si vede da quanto abbiam detto, che per i primi è necessaria una lente concava, la quale renda divergenti i raggi paralleli, ed una lente convessa per i secondi, la quale renda convergenti i raggi divergenti. Nelle persone di perfetta vista il cristallino per mezzo di alcuni filamenti detti ligamenti cigliari si rende più, o meno convesso secondo la maggiore, o minore distanza degli oggetti da osservarsi. Egli è dimostrato, che gli oggetti vengono nella retina dipinti rovesciati, poichè i raggi emanati dai varj punti dell'oggetto s'incrocicchiano nella pupilla, ossìa in quel foro, che è nella membrana detta uvea la quale è tra l'umor acqueo, e l'umore cristallino, ma l'anima per la propria esperienza riferisce il raggio, che va a terminare nella parte superiore della retina alla parte inferiore dell'oggetto, e viceversa. Di ciò parla il celebre Algarotti nel suo non men saggio, che elegante Dialogo detto Caritèa posto in appendice agli altri suoi dialoghi sopra l'Ottica Newtoniana. Abbiamo di già parlato delle due prime parti dell'Ottica parleremo ora della Catottrica colla massima brevità. La luce incontrandosi in un corpo il quale gli neghi il passaggio rimbalza, e questo rimbalzar, che ella fa chiamasi riflessione. Ecco per qual cagione noi vediamo la nostra immagine allorchè ci presentiamo innanzi ad uno specchio poichè i raggi, che partono dai varj punti del nostro corpo riflettendo sullo specchio son costretti a tornare ai nostri occhi. Questo effetto non può venir prodotto, che dai corpi assai levigati poichè se un oggetto si presenti ad altri corpi essi ne sparpagliano, e confondono quasi tutti i raggi. Essendo la riflessione un effetto della reazione, ed elasticità non men della luce, che de' corpi, su cui ella cade egli è evidente, che gli specchi concavi debbono rendere i raggi convergenti, e divergenti gli specchi convessi, e che per conseguenza i primi debbono ingrandir l'oggetto, ed impiccolirlo i secondi. Alla Catottrica appartiene la dottrina dei colori. Quelli che diconsi primitivi sono sette vale a dire il 1. rosso, il 2. rancio, il 3. giallo, il 4. verde, il 5. turchino, l'6. indaco, ed il 7. violetto. Questi sono più rifrangibili a misura, che si avvicinano al violetto, e meno secondo, che si accostano al rosso, il quale è di tutti i colori il meno rifrangibile. La diversa rifrangibilità della luce provenendo secondo il Newton dalla diversa massa, e velocità delle particelle di luce egli è facile il comprendere come l'anima percepisca le diverse sensazioni dei colori poichè le particelle, che hanno maggior velocità, e maggior mole commuovendo più fortemente la retina eccitano nell'anima la sensazione di un colore più vivo quale è il rosso, e così viceversa. Un corpo poi apparisce di un tal colore allorchè, secondo il sistema Newtoniano le sue parti sono disposte in modo da riflettere solamente quelle molecole di luce, che lo compongono, ed assorbire le altre. Se egli rifletta delle particelle di luce di due, o più specie apparisce di color misto. Se le rifletta di tutte le specie egli sembra bianco, e nero se non ne rifletta alcuna. Ed ecco spiegato secondo il sistema Newtoniano la natura, gli effetti, e le proprietà della luce. Altro ora non ci resta che l'esaminare brevemente la natura, e le proprietà del fuoco. Il fuoco non è, che un composto di calorico, e di luce. La combustione non viene in realtà prodotta da alcuna di queste sostanze, ma solamente dalla combinazione del combustibile con l'ossigeno. Ed infatti "essendo l'aria vitale, al dir del Sig.r Dandolo, un composto di ossigeno di calorico, e di luce ne segue, che non può l'ossigeno base di questo gas andare a combinarsi in istato di solidità co' corpi combustibili, che si bruciano senza perdere il calorico, e la luce, che lo tenevano sotto forma aeriforme. Questa luce, e calorico, che si svolgono in questa decomposizione dell'aria vitale formano ciò, che chiamiamo volgarmente fiamma fuoco ec. La diversa rapidità, con cui i corpi combustibili assorbono quest'ossigeno in istato di solidità, la quantità diversa, che ne assorbono, e lo stato diverso, di solidità con cui lo ricevono in combinazione formano le differenze ch'esistono fra' corpi combustibili, e rendono ragione perchè siano così variate le quantità di calorico, e di luce, che dalle diverse combustioni si svolgono. Ecco dunque perchè le combustioni non hanno luogo, che dove esista aria vitale ossìa gas ossigeno, e cessano all'istante qualora vi manchi quest'elemento... Il fine di ogni combustione è sempre quello di convertire il combustibile, che si brucia in un ossido, o in un acido, cioè in un corpo incombustibile ossìa bruciato. Quest'ossido, od acido torna per conseguenza combustibile perdendo, in qualsivoglia modo l'ossigeno, con cui si è combinato bruciando". Vedesi chiaramente, che il fuoco non manifesta alcun peso sensibile perchè peso sensibile non hanno nè il calorico nè la luce di cui egli è composto. E ciò può esser bastante a formare una breve Teorìa del fuoco, ed a confutare i sistemi, che a spiegare la causa della combustione de' corpi publicarono Becher, Macquer, Bergman, Sage, Kirvan, e Stahl. EDIZIONE DI RIFERIMENTO: "Giacomo Leopardi, Tutte le opere", a cura di Lucio Felici, Lexis Progetti Editoriali, Roma, 1998 |
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