Giacomo Leopardi - Opera Omnia >>  Zibaldone di pensieri  -  Pagg. da 1083 a 1262




 

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1083-1262

[1083] Alla considerazione della grazia derivante dallo straordinario, spetta in parte il vedere che uno de' mezzi più frequenti e sicuri di piacere alle donne, è quello di trattarle con dispregio e motteggiarle ec. Il che anche deriva da un certo contrasto ec. che forma il piccante. E ancora dall'amor proprio messo in movimento, e renduto desideroso dell'amore e della stima di chi ti dispregia, perch'ella ti pare più difficile, e quindi la brami di più ec. E così accade anche agli uomini verso le donne o ritrose, o motteggianti ec. (24. Maggio 1821).

Stante l'antico sistema di odio nazionale, non esistevano, massime ne' tempi antichissimi, le virtù verso il nemico, e la crudeltà verso il nemico vinto, l'abuso della vittoria ec. erano virtù, cioè forza di amor patrio. Da ciò si vede quanto profondi filosofi e conoscitori della storia dell'uomo, sieno quelli che riprendono Omero d'aver fatto i suoi Eroi troppo spietati e accaniti col nemico vinto. Egli gli ha fatti grandissimi e virtuosissimi nel senso di quei tempi, dove il nemico della nazione era lo stesso, che oggi è per li Cristiani il Demonio, il peccato ec. Nondimeno Omero che pel suo gran genio ed anima sublime e poetica, concepiva anche in que' suoi tempi antichissimi la bellezza della misericordia verso il nemico, della generosità verso il vinto ec. considerava però questo bello come figlio della sua immaginazione, e fece che Achille con grandissima difficoltà si piegasse ad usar misericordia a Priamo supplichevole nella sua tenda, e al corpo di Ettore. Difficoltà che a noi pare assurda. (E quindi incidentemente inferite l'autenticità [1084] di quell'Episodio, tanto controverso ec.) Ma a lui, ed a' suoi tempi pareva nobile, naturale e necessaria. E notate in questo proposito la differenza fra Omero e Virgilio. (24. Maggio 1821).

Alla p. 1078. Riferite a questo (per altro effimero e debole e falso) risorgimento della civiltà, la mitigazione del dispotismo, e la intolleranza del medesimo più propagata: il perfezionamento di quello che si chiama sentimentale, perfezionamento che data dalla rivoluzione: il risorgimento di certe idee cavalleresche, che come tali si mettevano in pieno ridicolo nel 700, e in parte del 600 (come nei romanzi di Marivaux ec.); al qual proposito è noto che il Mariana attribuisce al Don Chisciotte (che è quanto dire al ridicolo sparso sulle forti e vivaci e dolci illusioni) l'indebolimento del valore (e quindi della vita nazionale, e gli orribili progressi del dispotismo) fra gli spagnuoli. Ho detto il Mariana, e così mi pare. Trovo però lo stesso pensiero nel P. d'Orléans Rivoluz. di Spagna lib.9. Ma il Mariana mi par citato a questo proposito dalla march. Lambert, Réflex. nouvelles sur les femmes). e così di tante altre opinioni e pregiudizi sociali, ma nobili, dolci e felici ec. che ora non si ardisce di porre in ridicolo, com'era moda in quei tempi: un certo maggiore rispetto alla religione de' nostri avi ec. ec. Cose tutte che dimostrano un certo ravvicinamento del mondo alla natura, ed alle opinioni e sentimenti naturali, ed alcuni passi fatti indietro, sebbene languidamente, e per miseri e non vitali, anzi mortiferi principii, cioè il progresso della ragione, della filosofia, de' lumi. (24. Maggio 1821).

Una delle prove evidenti e giornaliere che il bello non sia assoluto, ma relativo, è l'essere da tutti riconosciuto che la bellezza non si può dimostrare [1086] a chi non la vede o sente da se: e che nel giudicare della bellezza differiscono non solo i tempi da' tempi, e le nazioni dalle nazioni, ma gli stessi contemporanei e concittadini, gli stessi compagni differiscono sovente da' compagni, giudicando bello quello che a' compagni par brutto, e viceversa. E convenendo tutti che non si può convincere alcuno in materia di bellezza, vengono in somma a convenire che nessuno de' due che discordano nell'opinione, può pretendere di aver più ragione dell'altro, quando anche dall'una parte stieno cento o mille, e dall'altra un solo. Tutto ciò avviene sì nelle cose che cadono sotto i sensi, e queste o naturali, o, massimamente, artificiali, sì nella letteratura ec. ec. Vedi a questo proposito il P. Cesari, Discorso ai lettori premesso al libro De ratione regendae provinciae, Epistola M. T. CICERONE, ad Q. Fratrem, cum adnott. et italica interpretat. Jacobi Facciolati; accedit nuper eiusdem interpretatio A. C.. Verona, Ramanzini. Ovvero lo Spettatore di Milano, Quaderno 75. p.177. dove è riportato il passo di detto discorso che fa al mio proposito. (25. Maggio 1821).

Parecchi filosofi hanno acquistato l'abito di guardare come dall'alto il mondo, e le cose altrui, ma pochissimi quello di guardare effettivamente e perpetuamente dall'alto le cose proprie. Nel che si può dire che sia riposta la sommità pratica, e l'ultimo frutto della sapienza. (25. Maggio 1821).

Della difficilissima invenzione di una lingua che avesse pure qualche forma sufficiente al discorso, e come questa debbe essere stata opera quasi interamente del caso, vedi le Osservazioni ec. del Sulzer nella Scelta di Opusc. interessanti. Milano. 1775. Vol. 4. p. 90-100. (25. Maggio 1821).

Siccome la perfezione gramaticale di una lingua dipende dalla ragione e dal genio (la lingua francese è perfetta dalla parte della ragione, ma non da quella del genio), così ella può servire di scala per misurare il grado della ragione e del genio ne' vari popoli. (Con questa scala il genio francese sarà trovato così scarso e in così basso grado, come in alto grado la ragione di quel popolo.) Se per esempio non avessimo altri monumenti che attestassero il genio felice de' Greci, la loro lingua pur basterebbe. (Lo stesso potremo dire degl'italiani avuto riguardo alla proporzione de' tempi moderni, che [1087] non sono quelli del genio, coi tempi antichi.) Quando una lingua, generalmente parlando, (cioè non di una o più frasi, di questa o quella finezza in particolare, ma di tutte in grosso) è insufficiente a rendere in una traduzione le finezze di un'altra lingua, egli è una prova sicura che il popolo per cui si traduce ha lo spirito men coltivato che l'altro. (Che diremo dunque dello spirito de' francesi dalla parte del genio? La cui lingua è insufficiente a rendere le finezze non di una sola, ma di tutte le altre lingue? Che la Francia non abbia avuto mai, vedi p. 1091. nè sia disposta per sua natura ad avere geni veri ed onnipotenti, e grandemente sovrastanti al resto degli uomini, non è cosa dubbia per me, e lo viene a confessare implicitamente il Raynal. Dico geni sviluppati, perchè nascerne potrà certo anche in Francia, ma svilupparsi non già, stante le circostanze sociali di quella nazione.) Sulzer ec. l. cit. qui dietro. p. 97. (25. Maggio 1821).

Alla p. 1080. marg. Lo stesso diremo delle costituzioni, de' regolamenti, delle legislazioni, de' governi, degli statuti (o pubblici o particolari di qualche corpo o società ec.); i quali per ottimamente e minutamente formati che possano essere, e dagli uomini i più esperti e previdenti, non può mai fare che nella pratica non soggiacciano a più o meno inconvenienti; [1088] che non s'incontrino dei casi dalle dette legislazioni ec. non preveduti, o non provveduti, o non potuti prevedere o provvedere; e che anche supposto che il tutto fosse provveduto, e preveduto tutto il possibile, la pratica non corrisponda perfettamente all'intenzione, allo spirito e alla stessa disposizione dei detti stabilimenti. Insomma non v'è ordine nè disposizione nè sistema al mondo, così perfetto, che nella sua pratica non accadano molti inconvenienti, e disordini, cioè contrarietà con esso ordine. Ed uno degli errori più facili e comuni, e al tempo stesso principali, è di credere che le cose, come vanno, così debbano andare, e così sieno ordinate perchè così vanno; e dedurre interamente l'idea di quel tal ordine o sistema, da quanto spetta ed apparisce nel suo uso, andamento, esecuzione ec. Nella quale non possono mancare moltissimi accidenti e sconvenienze, non per questo imputabili al sistema. Accidenti e sconvenienze che sono molto maggiori, e più gravi e sostanziali, e più numerose nei sistemi, ordini, macchine ec. che son opera dell'uomo (per ottima che possa essere), artefice tanto inferiore alla natura e per arte e per potenza. Maggiori però e più numerosi proporzionatamente, cioè rispetto alla piccolezza e poca importanza, [1089] durata ec. di detti sistemi umani, paragonati colla immensità ec. del sistema della natura. Nel quale, assolutamente parlando, possono occorrere e occorrono inconvenienti accidentali molto maggiori e numerosi che in qualunque sistema umano, sebbene assai minori relativamente. (26. Maggio 1821).

A quello che ho detto altrove della ragionevolezza, anzi necessità di un sistema a chiunque pensi, e consideri le cose; si può aggiungere, che infatti poi le cose hanno certo un sistema, sono ordinate secondo un sistema, un disegno, un piano. Sia che si voglia supporre tutta la natura ordinata secondo un sistema, tutto legato ed armonico, e corrispondente in ciascuna sua parte; ovvero divisa in tanti particolari sistemi, indipendenti l'uno dall'altro, ma però ben armonici e collegati e corrispondenti nelle loro parti rispettive; certo è che l'idea del sistema, cioè di armonia, di convenienza, di corrispondenza, di relazioni, di rapporti, è idea reale, ed ha il suo fondamento, e il suo soggetto nella sostanza, e in ciò ch'esiste. Così che gli speculatori della natura, e delle cose, se vogliono arrivare al vero, bisogna che trovino sistemi, giacchè le cose e la natura sono infatti sistemate, e ordinate armonicamente. Potranno errare, prendendo per sistema reale e naturale, un sistema immaginario, o anche [1090] arbitrario, ma non già nel cercare un sistema. Sarà falso quel tal sistema, non però l'idea ch'esso include, che la natura e le cose sieno regolate e ordinate in sistema. Chi sbandisce affatto l'idea del sistema, si oppone all'evidenza del modo di esistere delle cose. Chi dispera di trovare il sistema o i sistemi veri della natura, e però si contenta di considerare le cose staccatamente (se pur v'ha nessun pensatore che, non dico si contenga, ma si possa contenere in questo modo), sarà compatibile, ed anche lodevole. Ma oltre ch'egli ponendo per base la disperazione di conoscere il vero sistema, ha posto per base la disperazione di conoscere la somma della natura, e il più rilevante delle cose, si ponga mente al pensiero seguente, che farà vedere un altro capitalissimo inconveniente del rinunziare alla ricerca del sistema naturale e vero delle cose. (26. Maggio 1821).

Non si conoscono mai perfettamente le ragioni, nè tutte le ragioni di nessuna verità, anzi nessuna verità si conosce mai perfettamente, se non si conoscono perfettamente tutti i rapporti che ha essa verità colle altre. E siccome tutte le verità e tutte le cose esistenti, sono legate fra loro assai più strettamente ed intimamente ed essenzialmente, di quello che creda o possa credere [1091] e concepire il comune degli stessi filosofi; così possiamo dire che non si può conoscere perfettamente nessuna verità, per piccola, isolata, particolare che paia, se non si conoscono perfettamente tutti i suoi rapporti con tutte le verità sussistenti. Che è come dire, che nessuna (ancorchè menoma, ancorchè evidentissima e chiarissima e facilissima) verità, è stata mai nè sarà mai perfettamente ed interamente e da ogni parte conosciuta. (26. Maggio 1821).

Così, senza la condizione detta qui sopra, non si conoscono mai, nè tutte le premesse che conducono a una conseguenza, cioè alla cognizione di una tal verità, nè tutta la relazione e connessione, o tutte le relazioni e connessioni che hanno le premesse anche conosciute, colla detta conseguenza. (26. Maggio 1821).

Alla p. 1087. Eccetto alcuni ben pochi, come Descartes, Pascal ec. ed altri tali, nessuno de' quali appartiene propriamente alla provincia del genio, anzi a quelle cose che lo distruggono, cioè alle scienze, ed al vero, tanto più nemico del genio, quanto più profondo e riposto, benchè non iscavato nè scoperto, se non dal genio. (26. Maggio 1821).

[1092] Alla pagina 894. marg. Riferite pure agli stessi principii il danno, le stragi, la miseria, l'impotenza per esempio dell'Italia ne' bassi tempi, di quell'Italia ch'era per altro animata di sì vivo, sì attivo, e spesso sì eroico amor di patria. Ma di patria oscura, debole, piccola, cioè le repubblichette, e le città, e le terre nelle quali era divisa allora la nazione, formando tante nazioni, tutte, com'è naturale, nemiche scambievoli. Dal che nasceva l'oscurità, la debolezza, la piccolezza delle virtù patrie, e il poco splendore dello stesso eroismo esistente. Riferite agli stessi principii, cioè alla soverchia divisione e piccolezza, e alla conseguente moltiplicità delle nimicizie, il famosissimo danno, e l'estrema miseria del sistema feudale. Riferitevi parimente il danno riconosciuto da tutti i savi oggidì nel soverchio amore delle patrie private, cioè delle città, ovvero anche delle provincie natali. Danno pur troppo ed evidente e gravissimo oggi in Italia, per naturale conseguenza della sua divisione non solo statistica o territoriale, (come ogni regno ec.) ma politica. Ed è osservabile che l'amor patrio (intendo delle patrie private) regna oggi in Italia tanto più fortemente e radicatamente, quanto è maggiore o l'ignoranza, o il poco commercio, o la piccolezza di ciascuna città, o terra, o provincia (come la Toscana); insomma in proporzione [1093] del rispettivo grado di civiltà e di coltura. E in alcune delle più piccole città d'Italia l'amor patrio, e l'odio de' forestieri è veramente accanito. E così proporzionatamente in Toscana, paese pur troppo rimaso indietro nella coltura artificiale, non si sa come. E lo stesso dico degl'individui più ignoranti ec. (26. Maggio 1821).

La letteratura di una nazione, la quale ne forma la lingua, e le dà la sua impronta, e le comunica il suo genio, corrompendosi, corrompe conseguentemente anche la lingua, che le va sempre a fianco e a seconda. E la corruzione della letteratura non è mai scompagnata dalla corruzione della lingua, influendo vicendevolmente anche questa sulla corruzione di quella, come senza fallo, anche lo spirito della lingua contribuisce a determinare e formare lo spirito della letteratura. Così è accaduto alla lingua latina, così all'italiana nel 400, nel 600, e negli ultimi tempi, così pure nel 600, e negli ultimi tempi alla spagnuola: tutte corrotte al corrompersi della rispettiva letteratura. Eppure la lingua greca, con esempio forse unico, corrotta, anzi, dirò, imputridita la letteratura, si mantenne incorrotta [1094] più secoli, e molto altro spazio poco alterata, come si può vedere in Libanio, in Imerio, in S. Gregorio Nazianzeno, e altri tali sofisti più antichi o più moderni di questi, che sono corrottissimi nel gusto, e non corrotti o leggermente corrotti nella lingua. Tanta era per una parte la libertà, la pieghevolezza, e dirò così la capacità della lingua greca formata, che poteva anche essere applicata a pessimi stili, senza allontanarsi dall'indole della sua formazione, e senza perdere le sue forme proprie, e il suo naturale; ed essere adoperata da una letteratura guasta senza guastarsi essa stessa, adattandosi tanto al buono come al cattivo, e ricevendo nella immensa capacità delle sue forme, e nella sua varietà, copia e ricchezza, sì l'uno come l'altro. Simile in ciò all'italiana, dove si può scrivere purissimamente cose di pessimo gusto, ed usare un pessimo stile, in ottima o non corrotta lingua, come ho detto altrove. Dal che nasce la difficoltà di scriver bene in italiano, a differenza del francese, che avendo una sola lingua, ha anche un solo stile, e chiunque scrive in francese, non può non iscrivere in istile appresso a poco, buono. E però non dobbiamo farci maraviglia di quello che dicono, che tutti i francesi più o meno scrivono bene.

[1095] Tanta per l'altra parte (ritornando al proposito) era l'alienazione della letteratura greca da ogni cosa straniera. Giacchè anche la corruzione della lingua italiana che accadde nel 400. e poi nel 500. siccom'era corruzione italiana, non mutò le forme sostanziali, e il genio proprio della lingua; com'è accaduto per lo contrario in questi ultimi tempi, dove la corruzione è derivata da influsso straniero.

E se vogliamo vedere l'influenza straniera sulla lingua greca, e come subito la corruppe, per incorruttibile che paia, come abbiamo dimostrato; sebbene è difficile trovar cosa straniera in detta letteratura, consideriamo l'unico (si può dir) libro straniero che introdotto in Grecia (o ne' paesi greci) abbia influito sopra i suoi scrittori, e che sia stato ai greci oggetto di studio. Lasciamo l'influenza del latino nel greco dopo Costantino, influenza che tardò molto a propagarsi e a guastare definitamente la lingua, perchè si esercitò piuttosto sul parlato che sullo scritto, e dal parlato arrivò solo dentro lungo spazio, alla letteratura. Io voglio parlare della Bibbia. Esaminiamo i padri greci da' primi fino agli ultimi, e vi troveremo immediatamente una visibilissima e sostanziale corruzione di lingua e di stile, derivata dagli ebraismi, dall'uso dello stile profetico, salmistico, apostolico, dalla brutta e barbara [1096] e spesso continua imitazione della scrittura, dal misticismo della Religion Cristiana. Corruttela che è comune anche agli scrittori cristiani che non avevano punto che fare colla Palestina, o con altri paesi, dove la lingua greca volgare fosse guasta da mescolanza di ebraico, o d'altro dialetto propagato fra' giudei ec.; non erano giudei di stirpe, ec. ec. Ma erano stranieri di setta, e quindi anche barbari di gusto. Lascio la traduzione dei Settanta, e il Nuovo Testamento. Le stesse cause di corruzione influirono pure sulla lingua e sullo stile de' padri latini. Ma da queste, com'è naturale, si preservarono gli scrittori profani contemporanei, sì greci che latini, e non pochi degli stessi scrittori cristiani, o trattando materie profane, o anche più volte nelle stesse materie ecclesiastiche, secondo la coltura, gli studi e l'eleganza degli scrittori. (27. Maggio 1821).

Non si stimino esagerazioni le lodi ch'io fo dello stato antico, e delle antiche repubbliche. So bene ancor io, com'erano soggette a molte calamità, molti dolori, molti mali. Inconvenienti inevitabili nello stesso sistema magistrale della natura; quanto più negli ordini che finalmente sono, più o meno, opera umana! Ma il mio argomento consiste nella proporzione e nel paragone della felicità, o se vogliamo, [1097] infelicità degli uomini antichi, con quella de' moderni, nel bilancio e nell'analisi della massa de' beni e de' mali presso gli uni e presso gli altri. Converrò che l'uomo, specialmente uscito dei limiti della natura primitiva, non sia stato mai capace di piena felicità, sia anche stato sempre infelice. Ma l'opinione comune e quella della indefinita perfettibilità dell'uomo, e che quindi egli sia tanto più felice o meno infelice, quanto più s'allontana dalla natura; per conseguenza, che l'infelicità moderna sia minore dell'antica. Io dimostro che l'uomo essendo perfetto in natura, quanto più s'allontana da lei, più cresce l'infelicità sua: dimostro che la perfettibilità dello stato sociale è definitissima, e benchè nessuno stato sociale possa farci felici, tanto più ci fa miseri, quanto più colla pretesa sua perfezione ci allontana dalla natura; dimostro che l'antico stato sociale aveva toccato i limiti della sua perfettibilità, limiti tanto poco distanti dalla natura, quanto è compatibile coll'essenza di stato sociale, e coll'alterazione inevitabile che l'uomo ne riceve da quello ch'era primitivamente: dimostro infine con prove teoriche, e con prove storiche e di fatto, [1098] che l'antico stato sociale, stimato dagli altri imperfettissimo, e da me perfetto, era meno infelice del moderno. (27. Maggio 1821).

Altra prova che il bello è sempre relativo. Dice il Monti (Proposta ec. vol.1. par.2. p.8. fine) che l'orecchio è unico e superbissimo giudice della bellezza esterna delle parole. Ora per quest'orecchio, parlando di parole italiane, non possiamo intendere se non l'orecchio italiano, e il giudizio di detta bellezza esterna, varia secondo le nazioni, e le lingue. (28. Maggio 1821).

La formazione intera e principale della lingua latina, accade in un tempo similissimo (serbata la proporzione de' tempi) a quello della francese, cioè nel secolo più civile ed artifiziato di Roma, e (dentro i limiti della civiltà) più corrotto: dico nel secolo tra Cicerone e Ovidio. Ecco la cagione per cui la lingua latina, come la francese, perdè nella formazione la sua libertà, ed ecco la cagione di tutti gli effetti di questa mancanza, simili nelle dette due lingue ec. (28. Maggio 1821).

Odio gli arcaismi, e quelle parole antiche, ancorchè chiarissime, ancorchè espressivissime, bellissime, [1099] utilissime, riescono sempre affettate, ricercate, stentate, massime nella prosa. Ma i nostri scrittori antichi, ed antichissimi, abbondano di parole e modi oggi disusati, che oltre all'essere di significato apertissimo a chicchessia, cadono così naturalmente, mollemente, facilmente nel discorso, sono così lontani da ogni senso di affettazione o di studio ad usarli, e in somma così freschi, (e al tempo stesso bellissimi ec.) che il lettore il quale non sa da che parte vengano, non si può accorgere che sieno antichi, ma deve stimarli modernissimi e di zecca. Parole e modi, dove l'antichità si può conoscere, ma per nessun conto sentire. E laddove quegli altri si possono paragonare alle cose stantivite, rancidite, ammuffite col tempo; questi rassomigliano a quelle frutta che intonacate di cera si conservano per mangiarle fuor di stagione, e allora si cavano dall'intonacatura vivide e fresche e belle e colorite, come si cogliessero dalla pianta. E sebbene dismessi e ciò da lunghissimo tempo, o nello scrivere, o nel parlare, o in ambedue, non paiono dimenticati, ma come riposti in disparte, e custoditi, per poi ripigliarli. (28. Maggio 1821).

[1100] L'uomo non si può muovere neanche alla virtù, se non per solo e puro amor proprio, modificato in diverse guise. Ma oggi quasi nessuna modificazione dell'amor proprio può condurre alla virtù. E così l'uomo non può esser virtuoso per natura. Ecco come l'egoismo universale, rendendo per ogni parte inutile anzi dannoso ogni genere di virtù all'individuo, e la mancanza delle illusioni e di cose che le destino, le mantengano, le realizzino, producono inevitabilmente l'egoismo individuale, anche nell'uomo per indole più fortemente e veramente e vivamente virtuoso. Perchè l'uomo non può assolutamente scegliere quello che si oppone evidentemente e per ogni parte all'amor proprio suo. E perciò gli resta solo l'egoismo, cioè la più brutta modificazione dell'amor proprio, e la più esclusiva d'ogni genere di virtù. (28. Maggio 1821).

Chiamano moderne le massime liberali, e si scandalezzano, e ridono che il mondo creda di essere oggi solo arrivato al vero. Ma elle sono antiche quanto Adamo, e di più hanno sempre durato e dominato, più o meno, e sotto differenti aspetti sino a circa un secolo e mezzo fa, epoca vera e sola della perfezione del dispotismo, consistente in gran parte in una certa moderazione che lo rende universale, [1101] intero, e durevole. Dunque tutta l'antichità delle massime dispotiche, cioè del loro vero ed universale dominio nei popoli (generalmente e non individualmente parlando), non rimonta più in là della metà del seicento. Ed ecco come quel tempo che corse da quest'epoca sino alla rivoluzione, fu veramente il tempo più barbaro dell'Europa civile, dalla restaurazione della civiltà in poi. Barbarie dove inevitabilmente vanno a cadere i tempi civili: barbarie che prende diversi aspetti, secondo la natura di quella civiltà da cui deriva, e a cui sottentra, e secondo la natura de' tempi e delle nazioni. Per esempio la barbarie di Roma sottentrata alla sua civiltà e libertà, fu più feroce e più viva: quella dei Persiani fu simile nella mollezza e nella inazione e torpore, alla nostra. Ed ecco come il tempo presente si può considerare come epoca di un nuovo (benchè debole) risorgimento della civiltà. E così le massime liberali si potranno chiamare risorte (almeno la loro universalità e dominio); ma non mica inventate nè moderne. Anzi elle sono essenzialmente e caratteristicamente antiche, ed è forse l'unica parte in cui l'età presente somiglia all'antichità. Puoi vedere in tal proposito la lettera di Giordani a Monti nella Proposta ec. vol.1. part.2. alla voce Effemeride, dove Giordani discorre delle barbarie antiche rinnovate oggi. (28. Maggio 1821).

Alla p. 1075. Da queste osservazioni risulta che l'uomo senza favella è altresì incapace di concepire definitamente e chiaramente una quantità misurata [1102] in questo modo: per esempio una lunghezza di cento passi. Giacch'egli non può concepire questo numero definito di cento passi. Così discorrete di tutte le altre cose o idee (e sono infinite) che l'uomo concepisce chiaramente mediante l'idea de' numeri. E da ciò solo potrete argomentare l'immensa necessità ed influenza del linguaggio, e di un linguaggio distinto e preciso ne' segni, sulle idee e le cognizioni dell'uomo. (28. Maggio 1821). Vedi p.1394. capoverso 1.

Dal pensiero precedente e dagli altri miei sulla influenza somma del linguaggio nella ragione e nelle cognizioni, deducete che una delle cause principalissime e generalissime, e contuttociò puramente fisiche, della inferiorità delle bestie rispetto all'uomo, e della immutabilità del loro stato, è la mancanza degli organi necessari ad un linguaggio perfetto, o ad un sistema perfetto di segni di qualunque genere. E mancando degli organi mancano anche della inclinazione naturale ad esprimersi per via di segni, e nominatamente per via della voce, e de' suoni. Inclinazione materiale e innata nell'uomo, e che tuttavia fu la prima origine del linguaggio. Essendo certo per esperienza che l'uomo, ancorchè privo di linguaggio, tende ad esprimersi con suoni inarticolati ec. (28. Maggio 1821).

[1103] La poca memoria de' bambini e de' fanciulli, che si conosce anche dalla dimenticanza in cui tutti siamo de' primi avvenimenti della nostra vita, e giù giù proporzionatamente e gradatamente, non potrebbe attribuirsi (almeno in gran parte) alla mancanza di linguaggio ne' bambini, e alla imperfezione e scarsezza di esso ne' fanciulli? Essendo certo che la memoria dell'uomo è impotentissima (come il pensiero e l'intelletto) senza l'aiuto de' segni che fissino le sue idee, e reminiscenze. (Vedi Sulzer ec. nella Scelta di Opusc. interessanti. Milano 1775. p. 65. fine, e segg.) Ed osservate che questa poca memoria non può derivare da debolezza di organi, mentre tutti sanno che l'uomo si ricorda perpetuamente, e più vivamente che mai, delle impressioni della infanzia, ancorchè abbia perduto la memoria per le cose vicinissime e presenti. E le più antiche reminiscenze sono in noi le più vive e durevoli. Ma elle cominciano giusto da quel punto dove il fanciullo ha già acquistato un linguaggio sufficiente, ovvero da quelle prime idee, che noi concepimmo unitamente ai loro segni, e che noi potemmo fissare colle parole. Come la prima mia ricordanza è di alcune pere moscadelle che io vedeva, e sentiva nominare al tempo stesso. (28. Maggio 1821).

[1104] Il verbo spagnuolo traher o traer che è manifestamente il trahere latino, si adopra alcune volte in significati somigliantissimi a quelli del latino tractare, e de' suoi composti attrectare, contrectare ec. Come traer con la mano, traer entre las manos e simili. Significati ed usi che non hanno niente che fare coi significati o usi noti del latino trahere, nè con quelli dell'italiano trarre o tirare (ch'è tutt'uno), nè del francese tirer. Traher vale alle volte dimenare e muovere dice il Franciosini in traher. Ora per dimenare appunto o in senso simile si adopra spesso il verbo tractare, o l'italiano trattare, come in Dante ec. Vedi la Crusca in Trattare e specialmente §. 5. Ora io penso che questi significati gli avesse antichissimamente il verbo trahere, perduti poi nell'uso dello scrivere, e conservati però nel volgare, sino a passare ad una lingua vivente, figlia d'esso volgare. Ecco com'io la discorro.

Io dico che il verbo tractare al quale sono effettivamente rimasti i detti significati, deriva da trahere, e per conseguenza gli aveva da principio ancor questo verbo; e ne deriva così. I latini dal participio in tus (o dal supino) di molti e molti verbi, soleano, troncando la desinenza in us, e ponendo quella in are (o in ari se deponente) formare un nuovo verbo, che avea forza di esprimere una continuazione, una maggior durata di quell'azione ch'era espressa dal verbo primitivo. E in questo modo io dico che tractare deriva da tractus, participio di trahere, e significando fra le altre cose manu [1105] versare, significa (almeno nell'uso suo primitivo) un'azione più continuata di quella che significava, secondo me, il verbo trahere preso in questo medesimo senso. Veniamo alle prove.

Prima di tutto, che tractare venga da trahere è indubitato, perchè, massime ne' più antichi scrittori, quel verbo ha la significazione nota di trahere, cioè trarre, tirare, strascinare. Così anche quella di distrahere, dilaniare. (Vedi il Forcellini.) Dunque derivando da trahere, ed avendo le sue significazioni note, io dico che quelle altre che ha, e che non paiono appartenere al verbo trahere, furono significazioni primitive, ed oggi ignote, di questo verbo. Colla differenza che tractare propriamente significa sempre un'azione più continuata di quelle significate da trahere, come si può, volendo, osservare anche nei detti significati ch'esso ebbe di tirare ec.

In secondo luogo che i latini avessero questo costume di formare nuovi verbi dai participi in tus di altri verbi primitivi, e questi nuovi verbi significassero la medesima azione che i primitivi, ma più continuata e durevole, lo farò chiaro con esempi.

Da adspicere (verbo composto), participio, [1106] adspectus, i latini fecero adspectare. Ognuno può sentire la maggior durata dell'azione espressa da adspectare rispetto a quella di adspicere.

Cunctaeque profundum
Pontum adspectabant flentes.

dice Virgilio (Aen. 5-614. seq.) delle donne Troiane solitarie sul lido Siciliano. Non avrebbe già in questo senso potuto dire adspiciebant. Così dal semplice di adspicere (cioè specere o spicere, verbo antico), participio spectus, fecero spectare. Azione evidentemente continuatissima perchè spectantur quelle cose che domandano lungo tempo ad essere o vedute o esaminate, come gli spettacoli ec., che non videntur, nè adspiciuntur (propriamente), ma spectantur (e notate che adspicere, e specere o spicere negli antichi, significano azione più lunga di intueri ec. ma adspectare e spectare anche più lunga di loro; e così respectare dal quale abbiamo rispettare che non è atto, ma abito, o azione abituale ec. e così gli altri composti di spectare). Vedi p. 2275. ed Aen. vi 186. adspectans, e osservane la forza, e nota che poteva egualmente dire adspiciens. Così dico dei derivati e composti di spectare, come appunto spectaculum, come exspectare azione continuata per sua natura, e che deriva da spectare, ed esprime quasi il guardare lungamente e da lontano, che fa talvolta quegli che aspetta, nello stessissimo modo che lo spagnuolo aguardar, aspettare. (Vedi se vuoi la p. 1388. fine.)

Da raptus participio di rapere viene raptare cioè strascinare, azione come ognuno vede, ben più continuata e lunga di rapere.

Così da captus participio di capere, si fa [1107] captare, che non importa continuazione di capere o prendere, perchè l'azione del prendere non si può continuare, ma vale cercar di prendere, cioè in somma cercare, accattare e simili; azione continuata. Vedi il Forcellini. E da acceptus di accipere, acceptare, il cui significato continuativo si può vedere nel secondo e 3.o esempio del Forcellini, che significano, non il semplice ricevere, ma il costume continuato di ricevere, e dico continuato, e ben diverso dal frequente. Vedi p.1148. Vedi exceptare in Virg. Georg. 3.274. e p.2348.

Da saltus antico participio di salire (1) (o dal supino saltum ch'è tutt'uno) viene saltare. E qui la forza (dirò così) continuativa di questa formazione di verbi, è manifestissima. Perchè salire propriamente vale saltum edere, e saltare, vale ballare ch'è una continuazione del salire, una serie di salti.

Così da cantus antico participio di canere, abbiamo cantare, verbo che significava primitivamente un'azione ben più continuata che il canere.

Da adventus antico participio di advenire procede adventare, che significa l'azione continuata di avvicinarsi, o stare per arrivare, laddove advenire significa l'atto del giungere o del sopravvenire.

[1108] Del verbo tentare dice il Forcellini che deriva a supino tentum verbi teneo. Est enim (notate) diu et multum tenere ac tractare, ut solent quippiam exploraturi. Vedi p. 2344. e p. 1992. principio.

Così rictare da rictus di ringi, dictare da dictus participio del verbo dicere, e ductare da ductus del verbo ducere, e nuptare da nuptus di nubere, e flexare del vecchio Catone da flexus ec. adfectare da adfectus participio di adficere, e adflictare da adflictus di adfligere; e volutare da volutus di volvere; e consultare da consultus di consulere; commentari e commentare da commentus di comminisci e comminiscere; natare dall'antico natus o natum di nare; e reptare (di cui vedi se vuoi, Forcellini) da reptus o reptum di repere; e offensare da offensus di offendere; e argutare ed argutari (vedi Forcell. da argutus di arguere; e occultare da occultus di occulere; e pressare da pressus di premere (gl'ital. i franc. ec. e il glossar. hanno anche oppressare da oppressus); vedi p. 2052. 2349. e vectare da vectus di vehere. Vedi nel Forcellini gli es. i quali dimostrano che subvectare e convectare denotano propriamente il costume e il mestiere di subvehere ec.

Sectari che importa (chi ben l'osserva) un'azione più continuata e durevole che il verbo sequi, deriva senza fallo da secutus, participio di questo verbo, contratto in sectus. O piuttosto da principio dissero secutari, e poi per contrazione sectari. E acciò che questa sincope non si stimi un mio supposto (un ritrovato, un'immaginazione), ecco il verbo francese exécuter, e lo spagnuolo executar, vale a dire in latino executari, composto di secutari. Anzi io credo che questa prima forma del verbo sectari abbia durato nel volgare latino fino all'ultimo; e lo credo tanto a cagione dei detti verbi francese e spagnuolo, quanto perchè il nostro seguitare non par che derivi da altro che da secutari o sequutari, come seguire da sequi. Giacchè da sectari non avremmo fatto seguitare, ma settare, come affettare da adfectare, [1109] e così altre infinite parole. Del resto anche seguitare presso noi ha propriamente un senso più continuato che seguire. Vedi p. 2117. fine.

Sia poi che l'antico volgare latino, o che quello de' tempi bassi, o quelli finalmente che ne derivarono, li ponessero in uso; certo è che le nostre lingue figlie della latina abbondano di verbi formati dal participio di altri verbi simili latini antichi, laddove questi nuovi verbi non si trovano nella buona latinità; come usare (Glossar. abusare ec. da usus di uti, ec., inventare da inventus participio d'invenio, infettare da infectus participio d'inficio, traslatare da translatus di transferre, benchè da questo verbo gl'italiani abbiano anche trasferire; (translatare è nel Glossario.) fissare e ficcare (fixer, fixar) da fixus ec. (Glossario fixare oculos.); disertare, déserter ec.; despertar da experrectus di expergiscere; vedi p. 2194; votare da votus di vovere; (Glossar. da junctus di jungere lo spagnuolo juntar, (non è nel Glossar. bensì Juncta per Giunta, voce presa da scrittori spagnuoli latinobarbarici); invasare da invasus di invadere; (il Gloss. ha invasatus, cioè obsessus a daemone) confessare (Glossar. da confessus di confiteri; e così mille altri. Vedi p. 1527. e 2023. (I due primi verbi non si trovano nel Du Fresne). Vedi p. 1142. Parecchi de' quali stanno nelle lingue nostre in cambio de' loro primitivi latini, usciti d'uso, e pare che nel formarli non si avesse più riguardo alla natura de' verbi continuativi.

A questo proposito tornerà bene di avvertire una svista del Monti (Proposta di alcune correzioni ed aggiunte al Vocab. della Crusca. vol. 1. par. 2. Milano 1818. alla vedi allettare. p.42. seg.), il quale dice e sostiene che il nostro Allettare (e per conseguenza il latino adlectare ch'è lo stesso che il nostro, come afferma lo stesso Monti p.43.) viene da Letto, come da Latte Allattare, da Esca Adescare, da Lena Allenare ed altri a man piena; che significa Dar letto, e Perchè poi il letto è riposo, e il riposarsi è soavissima e giocondissima cosa, [1110] ne seguì che Allettare, ossia Apprestare il letto, divenne subito per metafora Invitar con lusinghe; e a poco a poco la prepotente forza dell'uso fe' sì che il senso traslato si mise in luogo del proprio e ne usurpò le funzioni. Questa etimologia, se per avventura non è tortamente dedotta, potrebbe di leggieri aprire la strada a trovare anche l'altra di Dilettare e Diletto con tutti i lor derivati, per conseguenza(dico io) del latino delectare, illectare, oblectare e simili. E nega che questi verbi abbiano niente che fare con allicere al quale dà tutt'altra etimologia. (p.44.)

Lascio stare che quel significato metaforico, e la successiva metamorfosi del significato di allettare, se a lui par naturale, a me pare del solito conio delle etimologie famosissime, e che tutto il filo de' suoi ragionamenti si romperebbe e troncherebbe facilmente per esser troppo sottile e debole in questo punto. Ma egli non ha veduto che adlectare (e quindi allettare) fu formato da adlectus participio di adlicio nello stessissimo modo che i tanti verbi soprammentovati, e i tanti altri che si potrebbero mentovare. Ora allettare è azione continuata, e così oblectare che significa trastullare ec. e così dilettare ec. Laddove adlicere è propriamente l'atto del tirare, prendere, [1111] indurre colle lusinghe. E il suo semplice lacio che significa ingannare, indurre in fraude è parimente significativo di azione non continuata. Laddove lactare formato da lacere (diverso da quello formato da lac) significa propriamente un'azione continuata, appresso a poco la stessa che adlectare o allettare. Vedi p. 2078. Giacchè anche nell'etimologia del verbo adlicere s'inganna il Monti (p.44.) facendolo derivare dal licium o liccio degl'incantamenti amorosi. La sua etimologia, dic'egli, di cui non trovo chi sappia darmi un sol cenno, a tutto mio credere è questa. Ma avrebbe trovata la vera etimologia nel Forcellini vedi allicio, e vedi lacio. Adlicio dunque (come inlicio ec. ec.) è composto di ad e lacio (che deriva da lax, fraus) mutata per la composizione la a in i, come in adficio da facio, in adjicio da jacio ec. ec. Del resto sebben diciamo volgarmente e comunemente allettare per porre a letto, e allettarsi per mettersi a letto, questo è un verbo tanto differente dall'adlectare, sebbene uniforme nel suono, quanto è differente nel significato e nell'origine, e uniforme nel suono, letto participio di leggere, da letto nome sostantivo. Vedi il passo di Cicerone addotto dal Monti, e provati di sostituirvi adlicere ad adlectare, se il puoi. In luogo che adlectare venga da lectus, (Festo) dubito che lectus (sustantivo) venga da adlicere. Forcell. in Lectus, i.

Non bisogna confondere questo genere di verbi che io chiamo continuativi, e che significano continuazione o maggior durata dell'azione espressa da' loro verbi originari, con quello de' verbi frequentativi, [1112] che importano frequenza della medesima azione, e hanno al tempo stesso una certa forza diminutiva. Questi (lasciando i frequentativi coll'infinito in essere che non possono esser confusi co' nostri continuativi) si formano essi pure dal participio in us o dal supino in um, di altri verbi, troncandone la desinenza, ma sostituendo in sua vece non la semplice terminazione infinita are, o ari, bensì quella d'itare, o itari se il verbo da cui si formano è deponente (o passivo.) Così da lectus participio di legere, lectitare; così da victus o victum di vivere, victitare; da missus di mittere, missitare; da scriptus di scribere, scriptitare; da esus di edere, esitare; da sessus o sessum di sedere, sessitare; da emptus di emere, emptitare; da factus di facio, factitare; da territus di terreo, territare; da ventus di venio, (o dal sup. ventum), ventitare; da lusus di ludere, lusitare; da haesus o haesum di haerere, haesitare; da sumptus di sumere, sumptitare; da risus di ridere, risitare di Nevio. Eccetto però il caso che il participio o supino di quel verbo dal quale si doveva formare il frequentativo, cadesse in itus o itum, che allora sarebbe stato assai duro aggiungendo la terminazione itare, o itari, fare ititare, o ititari. In questo caso dunque troncata la desinenza us o um del participioo del supino aggiungevano la semplice desinenza are o ari, con che però il frequentativo veniva nè più nè meno a cadere in itare o itari. Così da venditus di vendere facevano venditare (non vendititare); da meritus di merere, meritare; (il quale par continuativo e talora denotante costume), da pavitus antico part. di pavere, pavitare; da solitus ec. solitare; da latitus, antico participio, o da latitum antico sup. di latere, fecero latitare; [1113] da monitus di monere, monitare; da domitus di domare, domitare; da dormitus o dormitum di dormire, dormitare; da licitus di liceri, licitari; da vomitus di vomere, vomitare; da territus, territare; da itus o itum del verbo ire, itare; da pollicitus di polliceri, pollicitari; da exercitus part. di exercere, exercitare; da citus part. di cieo, citare, e i suoi composti; da strepitus o strepitum antico supino o participio di strepere, e da crepitus o crepitum di crepare, strepitare e crepitare; da scitus di sciscere o di scire scitari, sciscitare e sciscitari; da noscitus o noscitum antico sup. o part. di noscere, noscitare; da agitus antico particip. di agere, contratto poscia in agtus, e finalmente mutato in actus, agitare. La quale eccezione merita d'esser notata, giacchè in questi casi la formazione de' frequentativi non differisce da quella de' continuativi, e si potrebbero confonder tra loro. Ed anche qualche verbo terminato in itare o itari, ma formato da un participio o sup. in itus o itum, apparterrà o sempre o talvolta ai continuativi, (come per esempio agitare, domitare ec. e vedi Forcellini in tinnito) vale a dire non cadrà in detta desinenza, se non per esser derivato da un tal participio o supino. Vedi p. 1338. principio. Minitari e minitare formati da minatus di minari e minare, sono così fatti o per contrazione, e troncamento non solo dell'us ma dell'atus del participio, affine di sfuggire il cattivo suono atitare; o per mutazione dell'a del participio in i, fatta allo stesso effetto. Similmente rogitare da rogatus di rogare, coenitare da coenatus di coenare. Vedi p. 1154. Vedi p.1656. capoverso 1.

Mi sono allungato in questo discorso, ed ho voluto spiegare distintamente tutte queste cose, perchè non mi paiono osservate dai Gramatici nè da' vocabolaristi. Il Forcellini chiama indifferentemente frequentativi, tanto i verbi in itare o itari, come quelli che io chiamo continuativi. E s'inganna, perchè [1114] la differenza sì della formazione sì del significato, fa chiara la differenza di queste due sorte di verbi. Per esempio raptare, ch'egli chiama frequentativo di rapere e che significa strascinare, ognun vede che quest'azione non è frequente ma continuata. E se i latini avessero voluto fare un frequentativo di rapere, dal participio raptus avrebbero fatto raptitare e non raptare, anzi Gellio fa menzione effettivamente di tal verbo raptitare, 9. 6. nel qual luogo puoi vedere molti esempi di tali frequentativi in itare formati (com'egli pur nota) da' participii de' verbi originarii. E i verbi augere, salire, jacere, prehendere o prendere, currere, mergere, defendere, capere, dicere, ducere, facere, vehere, venire, pendere, gerere e altri tali che hanno i loro continuativi, auctare, saltare, iactare, prehensare o prensare, cursare, mersare, defensare, captare, dictare, ductare (che i gramatici chiamano contrazione di ductitare e sbagliano), vedi p. 2340. factare, vectare, ventare, pensare, gestare, formati tutti dal loro participio o supino, secondo le leggi da noi osservate; hanno pure i frequentativi auctitare, saltitare, iactitare, prensitare, cursitare, mersitare, defensitare, captitare, dictitare, ductitare, factitare, vectitare, ventitare, pensitare, gestitare, distinti per forma e per significato proprio dai detti continuativi, e non derivati (certo ordinariamente) da questi, (come va dicendo qua e là il Forcellini) ma immediatamente da' verbi originarii. Vedi p. 1201. Il verbo videre, da cui nasce il verbo continuativo anomalo visere (in luogo di visare), ha pure il suo frequentativo visitare, dal participio [1115] visus comune a videre col suo continuativo visere, e ciò per anomalia. Legere e scribere, che hanno i loro frequentativi ec. si crede ancora che abbiano i continuativi lectare e scriptare de' quali vedi il Forcellini vedi Lecto, che non sono frequentativi, nè lo stesso che lectitare e scriptitare, come dice esso Forcellini ib. e vedi Scripto. Così pure del verbo vivere che ha il frequentativo victitare, credono alcuni di trovare in Plauto victare (Captiv. vedi 1. 1. V. 15.) Da prandere che ha il frequentativo pransitare, noi abbiamo pransare che oggi si dice pranzare, ma pranso agg. o partic. e sost. si trova nel Caro e in Dante. (Alberti) Vedi i Diz. spagnuoli. Vedi p. 2194. Vedi p. 1140. e 2021. Da mansus di manere si ha mantare (per mansare), e mansitare. Vedi p. 2149. fine.

Anzi non solo i gramatici non distinguono ch'io sappia il frequentativo dal continuativo, ma neppur conoscono, per quello ch'io sappia, questo genere di verbi, che è pur così numeroso, e importante, e che io chiamo continuativo con voce nuova, perchè nuova è l'osservazione.

Ben è tanto vero, quanto naturale e inevitabile che le significazioni e proprietà primitive de' verbi continuativi, frequentativi, originarii, furono molte volte confuse nell'uso, non solo della barbara latinità, o delle lingue figlie, ma degli stessi buoni ed ottimi scrittori, massime da' non antichissimi. E si adoperò per esempio il continuativo nel significato del suo primo verbo; o perduto il primo verbo restò solo il continuativo, e s'adoprò in vece di quello (come noi italiani, francesi ec. diciamo saltare ec. per quello che i buoni latini dicevano salire, verbo oggi perduto in questa significazione, e trasferito ad un'altra ec. ec. vedi p. 1162. e per lo latino saltare, diciamo ballare, danzare ec.); o forse anche il continuativo talvolta prese la forza del [1116] frequentativo, o qualche volta viceversa; o finalmente il verbo positivo si adoprò in vece del continuativo disusato o no. Differenze menome, e quasi metafisiche, difficilissime o impossibili a conservarsi nelle lingue anche coltissime, e studiatissime; e gelosissime, anzi severissime della proprietà, come la latina; e che dileguandosi appoco appoco, danno luogo alla nascita de' sinonimi, de' quali vedi p. 1477. segg. E il Forcellini nota molte volte che il tale e tale frequentativo è spesso ed anche sempre usato nel senso medio del suo positivo, nè perciò veruno dubita o dell'esistenza di questo genere di verbi, o che quei tali non sieno frequentativi propriamente e originariamente. I verbi formati nuovamente da' participi nelle lingue figlie della latina, non hanno ordinariamente se non la forza del positivo latino. Vedi p. 2022.

Questa facoltà de' continuativi, è una delle bellissime facoltà, non ancora osservata, con cui la lingua latina diversificando regolarmente i suoi verbi e le sue parole, le adattava ad esprimere con precisione le minute differenze delle cose, e traeva dal suo fondo tutto il possibile partito, applicandolo con diverse e stabilite inflessioni e modificazioni a tutti i bisogni del linguaggio; e si serviva delle sue radici per cavarne molte e diverse significazioni, distintissime, chiare, certe, e senza confusione; e moltiplicava con sommo artifizio e poca spesa la sua ricchezza, e accresceva la sua potenza. Questa facoltà manca alla lingua italiana, la qual pure si è fatti i suoi nuovi verbi frequentativi e diminutivi, formandoli da' verbi originarii con modificazioni di desinenza. Verbi derivati, che ora hanno la sola forza frequentativa, come appunto spesseggiare e pazzeggiare, passeggiare ec. punteggiare, da punto o da pungere ec. ora la sola diminutiva, come tagliuzzare, sminuzzolare, albeggiare [1117] (formato però non da altro verbo, ma da nome, come altri pure de' precedenti; che così pure usa felicemente l'italiano), arsicciare (siccome in lat. ustulare, che anche i latini hanno i loro verbi puramente diminutivi); ora l'una e l'altra insieme al modo de' verbi latini in itare, come canticchiare, canterellare, formicolare ec. (vedi il Monti a questa voce, e alla vedi frequentativo). E di altre tali formazioni di verbi e d'altre voci; formazioni arditissime, utilissime a significare le differenze delle cose, e moltiplicare l'uso delle radici, senza confondere i significati, abbonda la lingua italiana in modo singolare, e più (credo io) che la latina, e la stessa greca. Ma de' continuativi manca affatto, se alle volte non dà (come mi pare) questo o simile significato a qualche frequentativo, o vogliamo spesseggiativo. Vedi p. 1155. Manca pure, cred'io, la detta facoltà alla lingua greca, sì gran maestra nel diversificare e modificare le sue radici, e moltiplicare le significazioni; ma per affermarlo mi bisognerebbe più lunga considerazione. E nella stessa lingua latina, ch'ebbe questa bella facoltà da principio, sembra che poi andasse in disuso, e in dimenticanza, continuando forse talvolta ad usarsi, con formare nuovi verbi di tal fatta, ma con una nozione confusa e non precisa del valore di tal formazione, e con significato non ben distinto dagli altri verbi; come fecero pure de' continuativi già formati e introdotti. [1118] Giacchè negli stessi antichi gramatici o filologi latini de' migliori secoli, non trovo notizia nè osservazione positiva di questa proprietà della loro lingua. Vedi p. 1160.

Vo anche più avanti e dico che, secondo me, quasi tutti i verbi latini terminati nell'infinito in tare o tari (dico tare, non itare) non sono altro che continuativi di un verbo positivo o noto o ignoto oggidì, e spesso andato anticamente in disuso, restando solo i suoi derivati, o il suo continuativo, adoperato quindi bene spesso in vece sua. E credo che l'infinito di detti verbi in tare o tari, indichino il participio del verbo positivo, o il supino, troncando la desinenza in are o ari, e ponendo quella in us o in um. Come optare, secondo me, dinota un participio optus di un verbo primitivo e sconosciuto, di cui optare sia il continuativo. E mi conferma in questa opinione il vedere in alcuni di questi verbi conservato per anomalia come abbiamo notato in visere, un participio che non pare appartenente se non ad un altro verbo primitivo, e dal qual participio medesimo io credo formato quel verbo che rimane. Per esempio il verbo potare, che, oltre potatus, ha il participio potus. Io credo che questo participio anomalo in detto [1119] verbo, non sia contrazione di potatus, come dicono i gramatici, ma participio regolare di un verbo che avesse il perfetto povi, come motus ha il perfetto movi, fotus ha fovi, votus vovi, notus novi da nosco, di cui notare è continuativo, e fa nel participio non già notus ma notatus. E la prima voce indicativa di detto verbo originario di potare, sarebbe stata poo, chè appunto da πόω verbo greco antico e disusato in questa e nella più parte delle sue voci, stimano i gramatici che derivi potare. (Forcellini.) Ed osservo che la propria significazione di potare è infatti continuativa, e denota azione più lunga che il verbo bibere, come può sentire ogni orecchio avvezzo alla buona e vera latinità. Saepe est largius vino indulgere, poculis deditum esse, dice il Forcellini di esso verbo. Onde potatio non è propriamente il bere ma beveria ec. cioè un bere continuato, come si può vedere ne' due primi esempi del Forcellini, che sono di Plauto e Cicerone laddove nel terzo ch'è di Seneca, vale lo stesso che potio, cioè bevuta, per la improprietà di quello scrittore più moderno, e meno accurato. E vedete appunto che potio parola derivata da potus participio del verbo perduto ch'io dico, significa azione poco continuata, cioè una semplice bevuta: Cum ipse poculum dedisset, [1120] subito illa in media potione exclamavit, (Cicerone,) cioè nell'atto di bere. Laddove potatio formata da potatus di potare, significa beveria, come ho detto, e non si potrebbe propriamente e convenientemente esprimere con una voce formata dal verbo bibere. Osservazione, secondo me, assai forte, e che serve a dimostrare e confermare sì l'esistenza del detto verbo originario di potare, ed avente il participio potus, sì tutta la mia teoria de' verbi continuativi.

Rechiamo un altro esempio di tali participi anomali dinotanti l'esistenza di un verbo primitivo, di cui quel verbo che resta ed ha detto participio, è, al mio credere, il continuativo. Auctare, come vedemmo p. 1114. è continuativo di augere dal suo participio auctus, ed ha il participio auctatus. Mactare è lo stesso che magis auctare, ma oltre mactatus, ha il participio mactus. E siccome mactatus è magis auctatus, così mactus (e lo dice espressamente Festo) è magis auctus. Ecco dunque evidente un antico e disusato verbo magere o maugere cioè magis augere, di cui mactus è il participio, e mactare il continuativo formato dal participio mactus che impropriamente se gli attribuisce. Vedi p. 1938. capoverso 1. e p. 2136. e 2341.

Il verbo stare, secondo me, indubitatamente è continuativo del verbo esse formato da un antico participio o supino di questo verbo, come stus o stum, [1121] piuttosto da situs o situm, contratto in stus o stum. (2) O forse da prima si disse sitare, come secutari, e solutare da cui soltar per solvere, come ho detto p. 1527. e voltare per volutare ec. L'analogia fra il verbo essere e stare si vede nel nostro particolare stato di essere, e nel franc. été, sebbene i francesi non hanno il verbo stare. Del qual participio situs abbiamo un indizio manifesto nel sido spagnuolo, ch'è participio appunto di ser essere. E forse sussiste ancora il detto participio nel situs dei latini che significa collocato, ma che spesso è usurpato dagli scrittori in significato somigliantissimo a quello di un participio del verbo essere, e che il Vossio con pessima grazia fa derivare da sinere. È noto che presso Plauto (Curcul. 1.1.89.) alcuni leggono site in significato di este, dal che verrebbe situs, così naturalmente come auditus da audite; e che l'antica congiugazione del presente indicativo di esse, era, secondo Varrone, (de L. L. l.8. c.57.) esum, esis, esit; esumus, esitis, esunt. Del rimanente lo stesso Forcellini avvertendo che il verbo stare si trova adoperato più volte in luogo di esse, soggiunge, cum aliqua significatione diuturnitatis (vedi sto), (e ne reca gli esempi), cioè, dico io, secondo la primitiva proprietà di esso verbo che è continuativo di esse. Adsentari che il Forcell. dice esser lo stesso che adsentiri, forse non è altro che un suo continuativo o frequentativo anomalo o contratto da adsentitari o per adsensari. Nel Glossario Isidoriano (op. Isid. t. ult. p.487.) si trova: Sentitare, in animo sensim diiudicare. Vedi p. 2200. Vedi p. 1155. e p. 2145. fine e p. 2324. fine.

A me par di poter asserire, 1. che tutti o quasi tutti i verbi latini radicali (intendo non composti, non derivati, non formati da nomi, come populo da [1122] populus, o da altre voci), e regolari, cioè non soggetti ad anomalie, constano sempre di una sola sillaba radicale e perpetua, e la più parte di tre sole lettere radicali (al modo appunto de' verbi ebraici); come parare, docere, legere, facere, dicere, dove le lettere radicali e costanti sono par, doc, leg, fac, dic. Talvolta di più lettere radicali, ma pure di una sola sillaba, come scribere (che anticamente facea scribsi e scribtum ec. e così gli altri verbi simili, mutato il b in p o viceversa ec. come puoi vedere nel Frontone), dove le lettere radicali sono cinque: scrib, e la sillaba è nondimeno una sola. Talvolta di una sillaba parimente, e di sole due lettere come amare le cui lettere radicali sono am, e così anche ponere, cedere e simili, dove le lettere perpetue sono solamente po e ce, facendo posui, positum, positus; cessi, cessum, cessus: ma questi tali anderebbero piuttosto fra' verbi anomali. Potranno dire che il g di legere non si conserva nel supino lectum e nel participio; che l'a di facere si perde nel perfetto feci, e il c di dicere in dixi. Ma dixi contiene evidentemente il c, essendo lo stesso che dicsi; e il g di legere si muta nel supino e participio in c per più dolcezza; non però si perde nè si trascura come l'o di lego, e come le altre lettere e sillabe che servono alla sola inflessione de' verbi. [1123] E così dite dell'a di facere, mutata nel perfetto in e, o per dolcezza, o per arbitrio, o per innovazioni introdotte dal tempo, e non primitive; ma in ogni modo, mutata e non omessa. Così texi e tectum di tegere, sono lo stesso che tegsi e tegtum. Vedi p. 1153. (3)

2. Dico che tutti i suddetti verbi radicali e regolari, avendo una sola sillaba radicale, hanno due sole sillabe nella prima persona presente singolare indicativa, due parimente nella terza persona, (come i verbi ebraici nella terza persona del perfetto ch'è la loro radice) e tre nell'infinito.

3. Dico che tutti, o almeno quasi tutti i verbi latini regolari che hanno più di una sillaba radicale, più di due sillabe nella prima e terza persona presente singolare indicativa, più di tre sillabe nell'infinito; non sono radicali, ancorchè paiano, ma derivati, ancorchè non si trovi da che fonte.

Bisogna eccettuare da queste regole i verbi regolari della quarta congiugazione che hanno due sillabe radicali e perpetue, come audi in audire. Bisogna, dico, eccettuarli quanto alla regola di una sola sillaba radicale, non quanto a quella di due sole [1124] sillabe nella prima e terza persona indicativa, e di tre sole nell'infinito. Nell'infinito, audire, sentire ec. è chiaro che hanno tre sole sillabe. Così nella terza persona indicativa è chiaro che ne hanno due sole, audit, sentit. Nella prima persona audio, sentio pare che n'abbiano tre. Ma io non dubito che anticamente non si contassero queste e siffatte voci per composte di due sole sillabe, considerando e pronunziando per esempio l'io di audio, come dittongo. Al modo stesso che queste vocali così congiunte sono effettivi dittonghi nella lingua italiana, tanto più somigliante nelle forme sì del discorso, sì delle parole, sì della pronunzia, alla lingua latina antica, di quello che somigli all'aurea latinità.

Così l'antica pronunzia de' dittonghi greci che si pronunziavano sciolti, non impediva che si considerassero come formanti una sola sillaba. De' quali dittonghi parlerò poco appresso. Vedi p. 1151. fine. e 2247.

Queste considerazioni indeboliscono assai anche l'eccezione che abbiamo riconosciuta ne' verbi della 4. congiugazione e provano che se questi pare che abbiano 2. sillabe radicali, ella è piuttosto una differenza accidentale d'inflessione, che proprietà essenziale del verbo assolutamente considerato, e non influisce sul numero intiero delle sue sillabe radicali o no: numero che ne' luoghi specificati, è lo stesso in questi che negli altri verbi.

Lo stesso dico de' verbi della seconda congiugazione, dove doceo, secondo la prosodia latina conosciuta, è trisillabo. Lo stesso di facio, e simili. Lo stesso de' verbi suadere, suescere e simili, (verbi per altro anomali) i quali senza essere della quarta congiugazione, hanno oggi due sillabe radicali, sua e sue, che anticamente, secondo me, erano una sola sillaba.

Secondo la quale opinione, io penso che si potrebbe anche notare come costante nella lingua latina antichissima, che la prima e terza persona singolare [1125] presente indicativa del perfetto, fossero parimente dissillabe in tutti i verbi radicali e regolari, al modo appunto che in ebraico la terza persona di detto tempo e numero. Vedi p. 1231. capoverso 2. Dei verbi della terza congiugazione, questo è manifesto, come in legi e legit, feci e fecit, dixi e dixit. Dei verbi della seconda, non si può disputare, ammessa la suddetta opinione, ch'io credo certissima, (essendo naturale all'orecchio rozzo il considerare due vocali unite come una sillaba sola, e proprio di un certo raffinamento e delicatezza il distinguerla in due sillabe): perchè secondo essa opinione, docui e docuit anticamente furono dissillabi. Restano la prima e la quarta congiugazione, dove amavi ed amavit, audivi ed audivit sono trisillabi. Ora della quarta congiugazione io penso che il perfetto primitivo fosse in ii cioè audii e audiit, perfetto che ancora dura, ed è ancora comune a tutti o quasi tutti i verbi regolari d'essa congiugazione, a molti de' quali manca il perfetto in ivi, come a sentire che fa sensi. Audii ed audiit (che troverete spessissimo scritti all'antica audi ed audit, come altre tali i che ora si scrivono doppi) erano, secondo quello che ho detto, dissillabi. La lettera v, io penso che fosse frapposta posteriormente alle due i di detto perfetto, per più dolcezza. E [1126] tanto sono lungi dal credere che la desinenza in ivi di quel perfetto, fosse primitiva, che anzi stimo che anche la desinenza antichissima del perfetto indicativo della prima congiugazione, non fosse avi, ma ai, nè si dicesse amavi, ma amai, dissillabo secondo il sopraddetto. Nel che mi conferma per una parte l'esempio dell'italiano che dice appunto amai, (e richiamate in questo proposito quello che ho detto p. 1124. mezzo), (come anche udii), e del francese che dice j'aimai; per l'altra parte, e molto più, l'esser nota fra gli eruditi la non grande antichità della lettera v, consonne que l'ancien Orient n'a jamais connue. (Villefroy, Lettres à ses Elèves pour servir d'introduction à l'intelligence des divines Écritures. Lettre 6. à Paris 1751. t.1. p.167.) Vedi p. 2069. principio. E lasciando gli argomenti che si adducono a dimostrare la maggiore antichità de' popoli Orientali rispetto agli Occidentali, e la derivazione di questi e delle loro lingue da quelli, osserverò solamente che la detta lettera manca alla lingua greca, colla quale la latina ha certo comune l'origine, o derivi dalla greca, o le sia, come credo, sorella. E di più dice Prisciano (l. I. p. 554. ap. Putsch.) (così lo cita il Forcell. init. litt. u nella mia ediz. del 400. sta p. 16. fine) che anticamente la lettera u multis italiae populis in usu non erat. E che il v consonante fosse da principio appo i latini una semplice [1127] aspirazione, e questa leggera, si conosce, secondo me dal vedere ch'esso sta nel principio di parecchie parole latine gemelle di altre greche, che in luogo d'essa lettera hanno lo spirito lene o tenue, come ὄϊς ovis, vinum οἶνος, video εἴδο, viscus o viscum ἰξός. (Talora anche in luogo di spirito denso come υἱός, onde gli Eoli Ϝυιός, i latini filius.) Vedi Encyclop. Grammaire. in H. pag. 214. col. 2. sul principio, e in F. ec. E ch'elle sieno parole gemelle, è consenso di tutti i gramatici. Laddove lo spirito denso dei greci solevano i latini cangiarlo in s (e così per un sigma lo scrivevano i greci anticamente), come in ὕπνος che presso i latini si disse prima sumnus (Gell.) e poi somnus ec. Vedi p. 2196. Anzi di questa cosa non resterà più dubbio nessuno se si leggerà quello che dice il Forcellini (vedi Digamma. e vedilo), e Prisciano (p.9. fine-11. e vedilo). Da' quali apparisce che il v consonante appresso gli antichi latini fu lo stessissimo che il digamma eolico (giacchè dagli eoli prese assai, com'è noto, la lingua lat.). Il qual digamma presso gli Eoli era un'aspirazione, o specie di aspirazione che si preponeva alle parole comincianti per vocale, in vece dello spirito, e (nota bene) si frapponeva alle vocali in mezzo alle parole per ischifare l'iato, come in amai, ampliaϜit terminaϜitque ha un'iscrizione presso il Grutero. (Vedi Encyclop. Grammaire, art. F. Cellario, Orthograph. Patav. Comin. 1739. p. 11- 15.) E vedi il luogo di Servio nel Forcellini circa il perfetto della quarta congiugazione. Dalle quali osservazioni essendo chiaro che l'antico v latino fu (come oggi fra' tedeschi) lo stesso che una f, non resta dubbio che non fosse aspirazione, giacchè la f non fu da principio lettera, ma aspirazione, e lieve. E così viceversa gli spagnuoli che da prima dicevano fazer, ferido, afogar, fuso, figo, fuìr, fierro, filo, furto, fumo, fondo, formiga, forno, forca, fender, ora dicono hazer, herido, ahogar, huso, higo, huìr, hierro, hilo, hurto, humo, hondo, hormiga, horno, horca, hender ec. Vedi p. 1139. e 1806. In somma si vede chiaro che la primitiva e regolare uscita de' perfetti 1. e 4. congiug. era ai ed ii, trasmutata in avi ed [1128] ivi per capriccio, per dolcezza, per forza di dialetto, e pronunzia irregolare, corrotta e popolare, che suole sempre e continuamente cambiar faccia alle parole, col successo del tempo, e introdursi finalmente nelle scritture, e convertirsi in regola, come vediamo nella nostra e in tutte le lingue. Vedi p. 1155. capoverso ult. e p. 2242. capoverso 1. e 2327.

Queste osservazioni ci porterebbero anche più avanti non poco, ed avendo veduto che tutti i verbi radicali e regolari latini hanno una sola sillaba radicale, verremmo a dedurne che la lingua latina da principio fu tutta composta di monosillabi, come è probabile e naturale che fossero tutte le lingue primitive (balbettanti come fanno i fanciulli che da principio non pronunziano mai se non monosillabi; (come pa, ma, ta) poi due sole sillabe per parola, accorciando, e contraendo, o troncando quelle che sono più lunghe; e finalmente, ma solo per gradi, si avvezzano a pronunziar parole d'ogni misura, in forza per altro della imitazione, e dell'esempio che hanno di chi le pronunzia, il che non avevano i primi formatori delle lingue) e come è tuttavia la cinese, meno forse discosta di qualunque altra lingua nota, dal suo primo stato, a causa della maravigliosa immutabilità di quel popolo. Ecco come bisogna discorrere.

Ho detto che intendeva per verbi radicali, fra le altre cose, quelli non composti e non derivati da nomi. Ma voleva dire da nomi noti, e da nomi non primitivi, perchè tutti i metafisici moderni s'accordano, che tutte le lingue son cominciate e derivano da' nomi, e il vocabolario primitivo di tutti i popoli, fu sempre una semplice nomenclatura (Sulzer). È dunque indubitato che anche quei verbi latini che paiono radicali, derivano da nomi sconosciuti, giacchè le radici d'ogni lingua furono i nomi soli, e volendo esprimere azioni, [1129] non s'inventarono certo nuove radici, che non sarebbero state intese (giacchè gran tempo dovè passare prima che si pensasse a formare i verbi, e la lingua, cioè la nomenclatura era già stabilita); ma si derivarono dalle radici esistenti, cioè da' nomi. Ora vedendo che i verbi latini che chiamiamo radicali, ossia che non hanno veruna derivazione nota, nè composizione ec. hanno una sola sillaba radicale, si conchiude che le loro radici vere, che certo furono nomi, tutte furono monosillabe, e che il primitivo linguaggio latino, la fonte di tutta la lingua latina, fu tutto monosillabo. Osserviamo per esempio i verbi pacare, regere, vocare, ducere, lucere, necare. Questi cadono tutti, e perfettamente sotto le osservazioni che ho stabilite: hanno una sola sillaba e 3. sole lettere radicali, 3. sillabe all'infinito ec. E tuttavia non gli possiamo chiamare radicali perchè resta notizia de' nomi da cui sono formati, e son tutti monosillabi: pax, rex, vox, dux, lux, nex. E notate che di questi monosillabi, alcuni esprimono delle cose che debbono essere state fra le prime ad esprimersi in ogni linguaggio, come vox, lux, e similmente rex, e dux nella prima società. Così l'antico precare e lacere, che cadrebbono sotto la stessa categoria, sappiamo che vengono da prex e lax monosillabi. Così sperare da spes. Così arcere da arx che significa luogo alto, cima, altezza (idea certo primitiva nelle lingue) e quindi rocca, fortezza. Vedi p. 1204. Così quiescere da quies, partire e partiri da pars, tutte idee primitive. Lactare da lac. Vedi p. 2106. principio. [1130] Se così discorressimo intorno agli altri verbi (dico latini propri ed antichi, e non presi poi manifestamente dal greco, o d'altronde) che hanno una sola sillaba radicale, e che non si vede da qual nome sieno derivate, potremmo forse più volte ritrovare di questi nomi perduti o mal noti, e tutti monosillabi. Legere lo fanno derivare da λέγω; e lex Cicerone e Varrone a legendo. Ma la natura delle cose porta che il nome sia prima del verbo. Oltre ch'è più facile, più conforme al meccanico dell'etimologia, ed al solito progresso delle parole il derivare legere da lex che viceversa. Io penso che lex sia la radice di legere ed avesse primitivamente un significato perduto, diverso da quello di legge, ed atto a produr quelli di legere. Fax vale face, e deriva, come pare, dal greco, ed è tutt'altra parola da quella ch'io voglio dire. Penso cioè che facere derivi da un antichissimo monosillabo fax di significato analogo, e ne trovo un vestigio, anzi lo trovo intero in artifex, pontifex, carnifex ed altri tali composti. La prima parola è composta di ars e fax, la seconda di pons e fax, la terza di caro e fax, cambiato in fex per forza della composizione, come factus diviene fectus ne' composti, adfectus, effectus, confectus ec. e facere [1131] nel perfetto ha feci, e così iacere ha ieci, e jactus fa adiectus, deiectus ec. Similmente che capere derivi da un antico monosillabo caps si può dedurre dai composti particeps, anceps, auceps ec. Fra' quali anceps, io credo assai più con Festo che sia derivato dall'antica preposizione amphi rispondente alla greca ἀμϕί, e troncata in am, e quindi in an dalla composizione (nel che tutti convengono), e da caps appartenente a capere, di quello che a caput, come piace ad altri, fra' quali il Forcellini. Giacchè mi pare che risponda letteralmente al greco ἀμϕιλαϕής composto appunto di ἀμϕί e di λαμβάνω capio, piuttosto che ad ἀμϕιχάρηνος, come lo spiega il Forcellini, sebbene sia stato poi adoperato in significazioni più conformi a questa seconda voce. Ma io credo poi che questo caps sia la radice tanto di capere quanto di caput (ne' di cui composti parimente si ravvisa, come biceps, triceps, praeceps). La qual parola Varrone fa derivare da capere (ap. Lact. de Opif. Dei c. 5.) ed io per lo contrario capere da caput, o dalla stessa radice; dalla quale però io credo derivato prima caput, e poi capere, o che essa radice, significasse da principio caput. Giacchè, lasciando che questo è nome, e quello è verbo, è ben più naturale, [1132] che prima sia stata nominata la parte principale del corpo umano, e poi l'azione del prendere. E non so se possa qui aver niente che fare il nostro cappare (volgarmente capare), che significa pigliare a scelta, e deriva da capo, quasi scegliere capo per capo, cioè cosa per cosa, o scegliere un capo, ossia una cosa, fra altri capi o cose. E così capere da principio avrebbe voluto dire pigliare pel capo, o pigliare un capo cioè una cosa, nominando la parte principale pel tutto, o prendendo la metafora dall'essere il capo la parte principale dell'uomo: onde i latini, (ed anche oggi gl'italiani testa, e i francesi tant par tête, cioè tant par chaque personne. Alberti) dicevano caput per uomo, o persona, o individuo umano. Vedi ancora il §. 6. 7 e 10. della Crusca, voce Capo, e i vocabolari francese e spagnuolo ec. Vedi chef etc. e il lat. caput nelle significazioni di detti §§. della Crusca, e così anche i Lessici greci. Vedi p. 1691.

La radice monosillaba dell'antico specere o spicere si troverebbe similmente ne' composti auspex, haruspex, cioè spex o spax. Così di iungere in coniux o coniunx, cioè iux o iunx ec. Vedi p. 1166. fine. 2367. principio.

E così si scoprirebbe come da pochi monosillabi radicali, o tutti nomi, o quasi tutti, che formavano da principio tutto il linguaggio, allungandoli diversamente, e differenziandoli con variazioni di significato, e con innumerabili inflessioni, composizioni, modificazioni di ogni sorta, giungessero i latini a cavare infinite parole, infinite significazioni, esprimerne le minime differenze delle cose che da principio si confondevano e accumulavano [1133] in ciascuna delle dette poche parole radicali, trarne tutto ciò che doveva servire tanto alla necessità quanto all'utilità ed alla bellezza e a tutti i pregi del discorso, e in somma da un piccolo vocabolario monosillabo (anzi nomenclatura) cavare tutta una lingua delle più ricche, varie, belle, e perfette che sieno state. E così denno essersi formate tutte le lingue colte del mondo ec. Così la Chinese ec. E sarebbe utile e curiosa cosa il formare un albero genealogico di tutte le parole latine derivate, composte ec. da uno di questi monosillabi, come per esempio dux, che somministrerebbe un'infinita figliuolanza, senza contare le tante inflessioni particolari di ciascuno de' verbi o nomi derivati o composti ec. ne' loro diversi casi, o persone e numeri e tempi e modi, e voci (attiva e passiva); e si vedrebbe per l'una parte quanto le vere radici sien poche nella latina come in tutte le lingue, per la naturale difficoltà di porle in uso, e di far nascere la convenzione che sola le può fare intendere e servire; per l'altra parte quanta sia l'immensa fecondità di una sola radice, e le diversissime cose, e differenze loro, ch'ella si adatta ad esprimere mediante i suoi figli ec. in una lingua giudiziosa e ben coltivata.

Raccogliendo il sin qui detto, io penso che se tali osservazioni si facessero in maggior numero e con più diligenza che non si è fatto finora, (della qual diligenza e profondità gl'inglesi e i tedeschi ci hanno già dato l'esempio anche in questi particolari, massime negli [1134] ultimi tempi, come Thiersch ec.) si semplificherebbe infinitamente la classificazione derivativa delle parole, ossia delle famiglie loro; l'analisi delle lingue si spingerebbe quasi sino agli ultimi loro elementi; si giungerebbe forse a conoscere gran parte delle lingue primitive; (vedi Scelta di opusc. interess. Milano 1775. vol. 4. p. 61-64.) lo studio dell'etimologie diverrebbe infinitamente più filosofico, utile ec. e giungerebbe tanto più in là di quello che soglia arrestarsi; facendosi una strada illuminata e sicura per arrivare fin quasi ai primi principii delle parole, e le etimologie stesse particolari, sarebbero meno frivole; si conoscerebbero assai meglio le origini remotissime, le vicende, le gradazioni, i progressi, le formazioni delle lingue e delle parole, e la loro primitiva (e spesso la loro vera) natura e proprietà; e si scoprirebbero moltissime bellissime ed utilissime verità, non solamente sterili e filologiche, ma fecondissime e filosofiche, atteso che la storia delle lingue è poco meno (per consenso di tutti i moderni e veri metafisici) che la storia della mente umana; e se mai fosse perfetta, darebbe anche infinita e vivissima luce alla storia delle nazioni. Vedi p. 1263. capoverso 2.

Osservo che la lingua latina è più atta a queste speculazioni che la greca, contro quello che può parere a prima giunta, per causa della sua minore antichità vera o supposta.

I. L'infinità e l'immensa varietà delle modificazioni che la lingua greca poteva dare alle sue radici, e continuò sempre nel lunghissimo spazio della sua letteratura, e nel grandissimo numero de' suoi scrittori, a poterlo ed a farlo, (principal causa della sua potenza e ricchezza), reca un grande impedimento a scoprire [1135] i primitivi elementi, e le vere ed ultime radici di essa lingua, in mezzo alla confusione alla selva delle innumerabili e differentissime diversificazioni di significato, di forma ec. che hanno continuamente ricevuto, e con cui ci rimangono. Puoi vedere la p. 1242. marg. fine.

II. Le diversissime relazioni ch'ebbero i popoli greci con popoli stranieri d'ogni sorta, mediante il commercio, le guerre, le colonie, le spedizioni d'ogni genere ec. ec. relazioni antichissime ed anteriori a quei primi tempi che noi possiamo conoscere della lingua greca; relazioni che hanno certo influito assaissimo su detta lingua, e moltiplicate le sue ricchezze per l'una parte, per l'altra mandate molte sue proprie ed antichissime radici in disuso, ed altre svisatene ed alteratene (vedi in questo proposito il luogo di Senofon. della lingua Attica); recano altro gravissimo impedimento al nostro fine. Trattandosi massimamente di relazioni con popoli le cui lingue sono quali del tutto sconosciute, quali malissimo note. I latini ebbero altrettante e forse maggiori relazioni con forse maggior numero di popoli, ma in tempi più moderni. Il che 1.o diminuisce la difficoltà delle ricerche: 2.o la lingua latina essendo già formata, anzi sul punto di essere la più colta del mondo dopo la greca, (dico quando incominciarono [1136] le grandi ed estese relazioni de' latini cogli stranieri) era meno soggetta ad esserne alterata, se non altro, nel suo fondo principale: 3° conoscendo noi bastantemente i tempi della lingua latina anteriori a dette relazioni, le alterazioni che poterono poi sopravvenire a essa lingua non pregiudicano alle nostre ricerche, le quali riguardano gli antichissimi elementi di quella lingua che si parlava quando Roma o non era ancor nata, o era fanciulla. Infatti gli eruditi inglesi che hanno cercato di provare l'affinità del sascrito colle lingue antiche Europee, sebben credono la greca derivata dall'origine stessa che la latina, hanno tuttavia scelto piuttosto questa per le loro osservazioni, dicendo che la penisola d'Italia vorrà probabilmente riputarsi più favorevole (della Grecia) alla pura trasmissione della lingua originale, potendo essa essersi tenuta più lontana dalla mescolanza di nazioni circonvicine, e di linguaggi diversi. (Edinburgh Review. Annali di Scienze e lett. Milano 1811. Gennaio. n. 13. p. 38. fine.) E si trova effettivamente maggiore analogia fra certe voci ec. latine e sascrite, che fra le stesse greche e sascrite, e pare che la lingua lat. ne abbia meglio conservate le prime forme. L'H derivata dall'Heth dell'alfabeto fenicio, samaritano ed Ebraico, il quale Heth era un'aspirazione densa o aspra (Encyclop. planches des caractères) simile all'j spagnuolo (Villefroy), ha conservata nel latino la sua qualità di carattere aspirativo, laddove è passata a dinotare una e lunga nel greco, dove antichissimamente era pur segno d'aspirazione o spirito. La f e il v mancanti all'alfabeto Fenicio (Encyclop. l.c.) mancarono pure come vedemmo all'antico alfabeto latino Vedi p. 2004-2329. (e la p. 2371. fine)

III. E questa che son per dire è la ragione principale. Tutti sanno, e dalle cose ancora che abbiamo dette, si può vedere, quanto le lingue si allontanino [1137] immensamente dalla loro prima e rozza forma mediante la coltura. Una lingua non colta, e parlata da un popolo poco in relazione cogli altri, può conservarsi lunghissimo tempo o qual era da principio, o poco diversa, tanto che il primitivo facilmente vi si possa ripescare. La lingua latina fu veramente formata e stabilita e perfezionata solo negli ultimi tempi dell'antichità. Giacchè l'epoca del suo perfezionamento è quella di Cicerone. Ed oltre parecchi monumenti rozzi, ed anteriori non poco a questa perfezione, vale a dire, totale trasformazione della lingua latina primitiva, ci restano ancora molti scrittori di lingua assai meno rozza della prima, e meno colta della Ciceroniana. Mediante le quali cose, come per gradi, possiamo risalire, se non altro, assai vicino ai principii della lingua latina.

Ora per lo contrario la formazione e quasi perfezione della lingua greca appartiene non solo alla più lontana epoca dell'antichità che noi conosciamo distintamente, ma anzi ad un'epoca ancora tenebrosa e favolosa. E il più antico monumento della scrittura greca che ci rimanga, è forse anche (eccetto i libri sacri) la più antica scrittura [1138] che si conosca: dico Omero. E questo scrittore non solamente non è rozzo, ma tale che non ha pari di pregio in veruno de' secoli susseguenti. Nè tale avrebbe potuto essere senza una lingua o perfetta, o quasi. Bisogna dunque supporre (come tutti fanno) avanti Omero, una lunga serie di tempi e di scrittori ne' quali la lingua di rozza e impotente divenisse appoco appoco quale si vede in Omero. Ma i Catoni, i Plauti, i Lucrezi che precederono Omero, non ci restano, come quelli che precederono Cicerone e Virgilio, e neppure si ha certa memoria di nessuno di loro. Anzi da Omero in su ci si spegne ogni lume intorno alla lingua greca. Vedi dunque la gran differenza degli ostacoli allo scoprimento della prima lingua greca, paragonati con quelli per la prima lingua latina. Possiamo dire che nella lingua latina abbiamo la stessa antichità della greca, e contuttociò un'antichità meno antica e più vicina a noi.

Io credo però che la ricerca di questa, ci farà strada alla ricerca delle origini greche. Stante che la lingua latina è sorella della greca, ed arrivando alla fonte di quella, si giunge dunque alla fonte di questa. O se il latino è derivato dal greco, certo n'è derivato in antichissima età, e così verremo ad illuminare mediante le origini latine, quest'antichissima età della lingua greca. Vedi p. 1295.

Se è vera l'opinione del Lanzi che la lingua [1139] Etrusca non sia fuori che un misto dell'antichissimo latino e dell'antichissimo greco, detta lingua, e il suo studio potrà molto giovare a queste nostre ricerche. E vicendevolmente le osservazioni che abbiam fatto, dovranno poter giovare notabilmente alla intelligenza e rischiaramento della lingua Etrusca ancora sì tenebrosa, e per l'altra parte altrettanto interessante. (29. Maggio-5. Giugno 1821)

Alla p.1127. E lo pronunziavano così leggermente, che ora sebbene ne resta un vestigio nella scrittura, convertito nel segno dell'aspirazione, è svanito però del tutto dalla pronunzia, anche come semplice aspirazione. Similmente i francesi, per quello che noi diciamo fuori o fuora e gli spagnuoli fuera dal lat. foras o foris, dicono hors, aspirando però l'h. In luogo di voce i Veneziani dicono ose dileguato il υ. Il ϕ greco, non è, come si sa, che un π aspirato, come si vede anche nelle mutazioni gramaticali e sostituzioni dell'una di tali lettere all'altra. Mancava, come si dice, al primitivo alfabeto greco detto Cadmeo o Fenicio, e vi fu aggiunto, come dicono, da Palamede (Plin. 7.56.) insieme col χ e col ϑ che sono un x  ed un τ aspirati (Servius ad Aen. 2. vers. 81.) Vedi Fabric. B. G. I. 23.  §. 2. e il Lessico dell'Hofmanno, vedi Literae. È anche probabile che mancasse all'Alfabeto ebraico e che il non fosse che un p. lettera che oggi manca a detto alfabeto. Vedi p. 1168. L'alfabeto chiamato Devanagari ossia quello della lingua sascrita, (dalla quale alcuni dotti inglesi fanno derivar la latina) sebbene composto di 50 lettere manca, della f, e invece la detta lingua adopera un b, o un p aspirati. (Annali di Scienze e lettere. Milano 1811, n. 13, p. 43.) ec. ec. (5. Giugno 1821). Considera ancora il nome greco di Giapeto, da Jafet, ebreo o fenicio ec.

[1140] Alla p. 1115. E perchè meglio si veda la differenza reale tra i frequentativi e i continuativi, ogni volta che questi verbi erano usati dagli scrittori, secondo il loro valor proprio, consideriamo quel passo di Virgilio (Aen. II. 458. seq.) dove dice Enea che salì alla sommità della reggia di Priamo assediata da' Greci:

Evado ad summi fastigia culminis: unde
Tela manu miseri iactabant irrita Teucri.

Per poco che s'abbia l'orecchio avvezzo al latino, facilmente si vede come impropria e debole in questo luogo sarebbe la parola iaciebant invece di iactabant. Ma quanto male vi starebbe anche iactitabant, cioè il frequentativo di iacere, si vedrà ponendo mente che detta parola avrebbe significato lanciare spesso, ed anche languidamente; laddove iactabant, continuativo, significa lanciavano assiduamente, e a distesa senza veruna intermissione. E così questo verbo riesce proprissimo, ed ottimamente quadra al bisogno. E l'azione qui viene ad essere continuativa, e non frequentativa, che è troppo poco ad una resistenza ostinata quale Virgilio voleva esprimere. Vedi dunque la differenza fra il continuativo e il frequentativo, e se iactare sia frequentativo come dicono i gramatici. Nè mi si dica che Virgilio voleva esprimere una resistenza debole e inutile, e però volle usare una parola che esprimesse certo languore di azione. Debole e inutile, [1141] rispetto alle forze superiori de' greci, non già debole rispetto alle forze degli assediati, anzi tanta quanta più si poteva. E Virgilio vuol descrivere una resistenza quanto più vana, tanto più disperata. E così quel miseri e quell'irrita che esprimono l'inutilità della resistenza fanno un bello e vivo contrapposto collo iactabant che esprime lo sforzo, l'infaticabilità, l'affanno, l'ostinazione, la ferocia, la fermezza, la pienezza della resistenza, e rende questo luogo sommamente espressivo in virtù della proprietà delle parole, al solito di Virgilio. La qual bellezza, e la piena forza e il vero senso di questo verbo nel detto luogo e in altri simili, come ancora di altri tali verbi in tali usi, e le bellezze d'altri siffatti luoghi, non credo che sieno state mai sentite da nessun moderno, per non essersi mai posto mente alla vera proprietà, alla propria forza, natura, indole di questo genere di verbi che chiamo continuativi. Servio spiega, iactabant: Spargebant, quasi nihil profutura, senso che non ha che far niente con quello che abbiamo osservato, e che deriva dal credere iactare un verbo tra frequentativo e diminutivo, come iactitare o presso a poco; e che tuttavia credo essere il senso nel quale questo e mille altri luoghi simili ed analoghi sono stati e sono intesi da tutti. (6. Giugno 1821). Vedi p. 2343.

[1142] Alla p. 1109. Fra' quali da depositus di deponere il verbo depositare o dipositare italiano, e lo spagnuolo depositar e il latinobarbaro depositare, verbo che continua quanto si può l'azione del deporre, significando il deporre una cosa che non si debba ripigliare così tosto, o il deporla raccomandandola, e commettendola alla fede, o ponendo in cura e custodia altrui, che ognun vede essere azione più lunga del deporre, e quanto il deporre sia più semplice. Il Glossar. latino barbaro ha similmente assertare ec. da assertus ec. usitare frequentativo ec. da usus ec. conservato in italiano, come pure il suo participio in francese ec. Vedi il detto Glossar.

Molti di così fatti verbi che si stimano di origine o barbara o recente, e nati ne' tempi della bassa latinità, o ne' principii delle lingue nostre, io credo che sieno antichi continuativi latini o perduti o non ammessi nell'uso de' buoni scrittori, e pervenuti alla lingue nostre mediante il latino volgare. Portiamone alcune prove.

Versare è continuativo di vertere dal suo participio versus. Il Forcellini lo chiama frequentativo. E io domando se in questi esempi ch'egli adduce (vedi gli esempi del primo §.) versare importa frequenza o continuazione. E così quando Orazio disse

Vos exemplaria graeca
Nocturna versate manu, versate diurna

facilmente si vede che dicendo vertite avrebbe detto assai meno, e significata l'assiduità molto impropriamente. Così discorrete del passivo versari che [1143] significa un'azione o passione della quale non so qual possa essere di sua natura più continua. Così di conversari, adversari ec. Da versare o da transversus, participio di transvertere, deriva transversare, e da questo il traversare, l'attraversare, e l'intraversare italiano, il francese traverser, e lo spagnuolo travessar e atravessar. Ma il verbo transversare escluso dagli onori del Vocabolario sta relegato ne' Glossari, come in quello del Du Cange che l'interpreta transire, trajicere; e il Forcellini lo rigetta appiè del suo Vocabolario nello spurgo delle voci trovate senza autorità competente ne vecchi Dizionari latini, e lo spiega transverso ponere. Nè la recente Appendice al Forcellini lo toglie di quel posto o lo ricorda in veruna guisa. Ora ecco questa parola barbara in un gentilissimo poemetto o idillio del secolo di Augusto o del susseguente, dico in quel poemetto che s'intitola Moretum, (attribuito da alcuni a Virgilio, da altri ad un A. Settimio Sereno o Severo, poeta Falisco del tempo de' Vespasiani) ad imitazione del quale, (cosa finora, ch'io sappia, non osservata) il nostro Baldi scrisse il famoso Celeo, dove quasi traduce i primi versi del poemetto latino. Dice dunque l'autore d'esso poemetto

[1144] Contrahit admistos nunc fontes atque farinas:
transversat durata manu, liquidoque coactos
Interdum grumos spargit sale.
(Vers. 45. seqq.)

Cioè vi passa e ripassa sopra colla mano, attraversa quella pasta già sodetta colla mano. Ecco dunque il verbo transversare, e le nostre parole ec. di origine antica, e latina pura.

Potrebbe darsi che transversare volesse dire a un dipresso versare, cioè rivolgere e dimenare fra le mani. Nondimeno la spiegazione che danno il Gloss. e il Forcell. a transversare, la prep. trans, e il significato della voce transversus ec. par che confermino la mia interpretazione. C'è anche il verbo transvertere di cui vedi Forcell. e di cui transversare par che debba essere il continuativo.

Tiriamo innanzi con altro esempio. Da arctus o arcitus antico participio di arcere preso nel significato di coercere, continere (del quale vedi Festo e il Forcellini che ne dà buoni esempi), viene il continuativo arctare che significa stringere constringere, non già momentaneamente come quando stringiamo la mano ad uno; ma stringere continuatamente, ed in modo che l'azione dello stringere non sia un puro atto, ma un'azione. O da arctare, o da coercere deriva il verbo coarctare che significa ne' buoni scrittori latini ristringere. Ma ne' Glossari latino barbari questo verbo si trova in significato di costringere o forzare, e in questo senso l'adoperò Paolo giureconsulto l'esempio del quale è registrato negli stessi vocabolari latini: e in questo senso assai più che in quello di ristringere (oggi, si può dire dimenticato) s'adopera in Italia coartare e coartazione, quantunque la Crusca non dia questo significato a coartare, [1145] e dandolo a coartazione, s'inganni credendo che nell'unico esempio che riporta, questa parola sia presa in detto senso, giacchè v'è presa nel senso di restrizione; conforme ha dimostrato il Monti (Proposta ec. alla voce Coartazione. vol. 1. par. 2. p. 166.). Il quale condanna come barbare le parole coartare e coartazione prese in forza di Costrignimento, Sforzamento. Ora io credo che questo significato non sia nè barbaro in italiano, nè moderno nel latino, ma antico ed usitato nel latino volgare, quantunque non ammesso nelle buone scritture.

Primieramente osservo che coarctare è continuativo di coercere, e coercere, come ognun sa, ha ne' buoni latini un significato metaforico (più comune forse del proprio) che somiglia molto a quello di forzare. Anzi alcuni gramatici gli danno anche questo significato, sebbene sopra autorità incompetente, cioè quella del libricciuolo De progenie Augusti attribuito a Messala Corvino, dove si legge: Superatos hostes Romae cohabitare coercuit, cioè costrinse. Il quale libretto sebbene dagli eruditi è creduto apocrifo, e dell'età mezzana, tuttavia non è forse d'autorità nè di tempo inferiore a molti e molti altri che sono pur citati nel Vocabolario latino. Laonde, se coercere [1146] significava forzare, o cosa somigliante, è naturalissimo che il suo continuativo coarctare avesse, almeno nel volgare latino, lo stesso o simile significato.

In secondo luogo osservo che la metafora dallo stringere al forzare è così naturale che si trova e nel latino stesso, e (lasciando le altre) in tutte le lingue che ne derivano. Quae tibi scripsi, primum, ut te non sine exemplo monerem: deinde ut in posterum ipse ad eandem temperantiam adstringerer, cum me hac epistola quasi pignore obligavissem, dice Plinio minore (l. 7. ep. 1.). Che altro vuol dire se non costringersi, forzarsi, obbligarsi (com'egli poi spiega) alla temperanza? Altri usi di adstringere (e parimente di obstringere, constringere, e del semplice stringere latino) similissimi a quelli di forzare sono noti ai gramatici. E cogere che in senso metaforico (più comune ancora del proprio) significa forzare, ed è contrazione di coagere, che altro significa propriamente se non se in unum colligere, congregare, condensare, spissare, colligare, constringere? Il suo continuativo coactare si adopra pure da Lucrezio nel significato di forzare. Presso noi stringere, astringere, costringere, [1147] oltre i significati propri hanno anche il metaforico di sforzare. Presso i francesi astreindre e contraindre si sono talmente appropriato il detto senso, che astreindre manca del primitivo significato di stringere, e in contraindre si considera questa significazione propria, come figurata. Il che avviene ancora al secondo e terzo dei detti verbi italiani. Presso gli spagnuoli apretar che significa stringere, vale ancora comunemente hacer fuerza, ossia sforzare; e constreñir o costreñir (da estreñir che significa stringere) non serba altro significato che di sforzare. Estrechar ha quello di stringere per significato proprio e comune, e quello di costringere o sforzare per metaforico. Il legare è una maniera di stringere. Ora, lasciando le significazioni metaforiche del latino obligare, somiglianti a quelle di forzare (4) in italiano, in francese, [1148] in ispagnuolo ognuno sa che obligare, obliger, obligar si adopra continuamente nell'espresso significato di costringere. Mi par dunque ben verisimile che il verbo coarctare (continuativo di coercere), oltre il senso proprio di ristringere, avesse anche, non solo nella bassa latinità, ma nell'antico volgare latino, il senso di forzare. (6-8. Giu. 1821). Vedi p. 1155.

Alla p.1107. Quantunque il Forcellini chiama acceptare frequentativo di accipere, sed, aggiunge, eiusdem fere significationis. Ora la differenza della significazione la può sentire ne' detti esempi ogni buon orecchio, sostituendovi il verbo accipere. E quanto al frequentativo, osservi ciascuno che differenza passi dal ricevere annualmente una tale o tale entrata, ch'è azione continua rispettivamente alla natura del ricevere, al ricevere frequentemente; azione che non importa ordine, nè regola, nè determina il come, nè il quando nè con quali intervalli si riceva.

Ed a questo proposito porterò un luogo di Plauto, dove Arpage venuto per pagare un debito [1149] del suo padrone, dice a Seudolo servo del creditore

Tibi ego dem?

Risponde Seudolo

Mihi hercle vero, qui res rationesque, heri

Ballionis curo, argentum adcepto, expenso, et cui debet, dato.

(Pseud. 2.2. vers. 31. seq.)

Ecco tre continuativi, e nella loro piena forza e proprietà: adceptare da adceptus di adcipere, expensare da expensus di expendere, e datare da datus di dare. Crediamo noi che Plauto abbia posti a caso questi tre verbi in fila, tutti d'una forma, in cambio de' loro positivi? Ma qui stanno e debbono stare i continuativi in luogo de' positivi, perchè questi esprimono una semplice azione, laddove qui s'aveva a significare il costume di far quelle tali azioni. Datare alcuni dicono ch'è lo stesso che dare. (Indice a Plauto). Vedete come s'ingannino, e sbaglino la proprietà dell'idioma latino. Il Forcellini lo chiama frequentativo di dare, e portando un passo di Plinio maggiore, Themison (medico) binas non amplius drachmas (di elleboro) datavit, spiega dare consuevit. Ma il costume è cosa continua (quando anche l'azione non è continua) e non già frequente, e la frequenza viceversa non importa costume. E quando Plauto in altro luogo (Mostell. 3.1. vers. 73.) dice Tu solus, credo, foenore argentum datas; [1150] e Sidonio (lib. 5. ep. 13.), ne tum quidem domum laboriosos redire permittens, cum tributum annuum datavere, usano il continuativo in luogo del positivo, perchè hanno a significare non il semplice atto di dare, ma il costume di dare, che è cosa nè semplice nè frequente, ma continua.

Da sputus o sputum di spuere, sputare. Iamdudum sputo sanguinem, dice Plauto, cioè soglio sputar sangue, e non avrebbe potuto dire spuo. Vedi in tal proposit. Virgil. (Georg. I. 336.) receptet. Ricettare e raccettare in italiano non è azione venti volte più continua, o durevole ec. di ricevere? Vedi anche resultat Georg. IV. 50. ed osserva il risultare ital. franc. e spagn. Puoi vedere p. 2349.

Da ostentus di ostendere, participio, a quel che pare, più antico di ostensus, ebbero i latini il continuativo ostentare.

Altera manu fert lapidem, panem ostentat altera disse Plauto (Aulul. II. 2. vers. 18.), e non avrebbe potuto dir propriamente ostendit, volendo significar uno che quasi ti mette quel pane sotto gli occhi, perchè tu non solamente lo veda, ma lo guardi. E Cicerone metaforicamente (Agrar. II. c. 28.): Agrum Campanum quem vobis ostentant, ipsi cuncupiverunt. Ponete ostendunt invece di ostentant, e vedrete come l'azione diventa più breve, e la sentenza snervata e inopportuna. Lo stesso dico delle altre metafore di ostentare per iactare, gloriari, venditare e simili, tutti significati continuati. (8-9. Giu. 1821). Vedi p. 2355. principio.

Alla p. 1166. Quello che dico de' verbi in tare si deve anche estendere ad altri verbi terminati in altro modo, massimamente in sare per anomalia de' participi o supini da cui derivano; come pulsare (che anticamente, e soprattutto, come nota Quintiliano, presso i Comici, si scrisse anche pultare) [1151] è continuativo di pellere dall'anomalo participio pulsus, e così versare di vertere, ed altri che abbiamo veduto. Voglio però notare che forse pultare creduto lo stesso che pulsare, è contrazione di pulsitare, e diverso originariamente da pulsare quanto è diverso il frequentativo dal continuativo. E quanto a pulsare s'egli sia propriamente continuativo o frequentativo, come lo chiamano, vedilo in questo luogo di Cicerone (De Nat. Deor. 1. c.41.) cum sine ulla intermissione pulsetur. Così da responsus o responsum di respondere, viene responsare continuativo.

Num ancillae aut servi tibi Responsant?
eloquere: impune non erit.
(Plaut. Menaechm. 4.2. vers. 56. seq.)

Cioè ti sogliono rispondere arrogantemente, non già ti rispondono semplicemente ovvero ti rispondono spesso. E nel significato metaforico di resistere il verbo responsare è parimente continuativo, e così quando significa eccheggiare, che è cosa più continuata del rispondere, e per nulla frequente, come ognun vede. (9. Giugno 1821). Così da cessus di cedere viene cessare, il quale chiamano frequentativo, sebbene io non sappia veder cosa più continuata di quella ch'esprime questo verbo. Vedi p. 2076.

Alla p. 1124. margine. E chiunque porrà mente ai versi de' comici, e altresì di Fedro, e degli altri Giambici latini, o se n'abbiano opere intere (come Catullo, le tragedie di Seneca) o frammenti, ci troverà molte altre licenze proprie di quelle sorte di versi, e note agli eruditi; ma anche [1152] potrà di leggieri avvertire che dovunque s'incontrano due o più vocali alla fila, o nel principio o nel mezzo o nel fine delle parole, quelle vocali per lo più e quasi regolarmente stanno per una sillaba sola, come formassero un dittongo, quantunque non lo formino, secondo le leggi ordinarie della prosodia. Fuorchè se dette vocali si trovano appiè de' versi, dove bene spesso (come ne' versi italiani) stanno per due sillabe, ma spesso ancora per una sola, come in questo verso di Fedro:

Repente vocem sancta misit Religio.

(lib. 2. fab. 11 al. 10. vers. 4.)

Questo è un giambo trimetro acataletto, cioè di sei piedi puri, e la penultima breve, non è la sillaba gi di Religio, ma la sillaba li. Similmente in quel verso di Catullo, sebbene in questo e nelle leggi metriche, più diligente assai degli altri, (Carm.18. al. 17. vers. 1.)

O Colonia quae cupis ponte ludere ligneo

la penultima dovendo esser lunga, non è la sillaba gne di ligneo, ma la sillaba li, s'è vera questa lezione di ligneo per longo come altri leggono. Oltre che questo verso trocaico stesicoreo, dovendo essere di quindici sillabe, sarebbe di sedici, se ligneo fosse trisillabo. (La parola ligneo è qui un trocheo, piede di una lunga e una breve, detto anche coreo). E quello che dico de' latini, dico anche dei greci. Nel primo verso della Ricchezza di Aristofane,

῾O ἀργαλέον πρᾶγμ᾽ ἐστίν, ὦ Zεῦ χαὶ ϑεοί

[1153] la parola ἀργαλέον è trisillaba. E notate che scrivendo

῾Ω ἀργαλέον πρᾶγμ᾽ ἐστ᾽, ὦ Zεῦ χαὶ ϑεοί

senza nessuna fatica questo verso riusciva giambo trimetro o senario puro, secondo le regole della prosodia greca. Dal che si vede che quei poeti i quali scrivevano, come dice Tullio dei Comici, a somiglianza del discorso, (Oratoris cap. 55.) adoperavano quasi regolarmente siffatte vocali doppie ec. come dittonghi, e conseguentemente che l'uso quotidiano della favella (tenace dell'antichità molto più che la scrittura) le stimava e pronunziava per dittonghi, o sillabe uniche, sì nella Grecia come nel Lazio. Puoi vedere la nota del Faber al 2. verso del prologo di Fedro, lib.1. e quella pure del Desbillons nelle Addenda ad notas, p. LI. fine. (10. Giugno, dì di Pentecoste. 1821).Vedi p. 2330.

Alla p. 1123. Anzi, secondo me, da principio si diceva legitus, tegitus, agitus, quindi per contrazione, legtus, tegtus, agtus, e finalmente per più dolcezza, lectus, tectus, actus. E chi se ne vuol persuadere, ponga mente al verbo agitare, il quale, secondo quello che abbiamo osservato e dimostrato finora, è formato dal participio (o dal sup.) di agere. [1154] E quindi s'inferisce che l'antico e primo participio di agere non fu actus ma agitus da cui venne agitare, come poi da actus actitare. Vedi il Forcell. in Caveo, fine. e p.2368. Lo stesso dico di cogitare o venga da agitare, o dall'antico coagitus di cogere. Vedi p.2105. capoverso 1. E similmente come da lectus di legere derivarono lectare e lectitare, così dall'antico legitus, il verbo legitare mentovato da Prisciano. (10. Giugno 1821). Vedi p.1167.

Alla p. 1113. marg. Se però rogitare non deriva da un antico participio rogitus di rogare (come domitus di domare, crepitus ovvero il sup. crepitum di crepare, e tali altri) del che mi dà forte sospetto la nostra voce rogito participio sostantivato da rogare, in vece di rogato. Da lactatus allattato, lactitare ec. Restitare non saprei se da restatus, o restitus, ambedue inusati, e se da resisto, o resto. Vedi p. 2359. La bassa latinità diceva parimente rogitus us nello stesso significato, ed anche addiettivamente rogitus a um, e roitus in luogo appunto di rogatus, del che vedi il Du Cange. Del resto anche da paratus di parare, da imperatus d'imperare, da volatus o volatum di volare, da vocatus di vocare (vedi Forcell. circa vocitare che par verbo continuativo dinotante costume), e da mussatus di mussare i latini fecero paritare, imperitare, volitare, vocitare, e mussitare; e generalmente pare che questo fosse il costume nel formare o i frequentativi o i continuativi da' participii in atus della prima congiugazione; di cambiare cioè l'a del participio in i, per isfuggire il cattivo suono per esempio di mussatare, o mussatitare. (Eccetto però datare ec.) Così da mutuatus di mutuare fecero mutitare sincopato da mutuitare se crediamo a quelli che derivano questo verbo mutitare dal precedente mutuare. Altri lo derivano da mutare, e fa parimente al caso nostro. (11. Giugno 1821). Vedi p. 2079. e 2192. fine. e 2199. principio.

[1155] Alla p. 1148. Lo spagnuolo pintar, cioè dipingere derivato certo dal participio del verbo pingere, sembra che se non altro dinoti un antico participio pinctus, in vece di pictus, participio regolare e proprio di pingere, come tinctus di tingere, cinctus di cingere, planctus o planctum di plangere ec. (e vedi p. 1153. capoverso ult. donde raccoglierai che il primo e vero participio passivo di tali verbi era pingitus, tingitus ec.) e conservatosi, a quel che pare, nel volgare latino. (11. Giugno 1821). Non diciamo noi pinto, dipinto ec.? Pitto solamente in poesia come il Rucellai nelle Api. I francesi peint ec.

Alla p. 1121. Così dubitare deriva da dubitus o dubitum o dubiatum (vedi p.1154.) di un antico dubiare mentovato da Festo, e conservato nell'antico italiano. Questo però terminando in itare può anche, secondo il detto alla p.1113. essere un verbo tra frequentativo e diminuitivo, sul gusto di haesitare da haerere, che somiglia anche nel significato. Vedi p. 1166. fine. (11 Giu. 1821).

Alla p.1117. Nostri soli continuativi sono i verbi venire e andare uniti a' gerundi de' verbi denotanti l'azione che vogliamo significare, come venir facendo, andar dicendo. I quali modi però hanno meno forza, e meno significazione della continuità, che non ne hanno propriamente i continuativi latini. E dimostrano una languida continuazione della cosa, un'azione più languida, e meno continua, ed anche interrotta; e di più un'azione meno perfetta. Vedi p. 1212. capoverso 1. e p. 2328. (11. Giugno 1821).

Alla p. 1128. Da queste osservazioni apparisce che la desinenza italiana della prima persona attiva singolare del perfetto indicativo, dico la desinenza in ai, è la vera e primitiva desinenza latina di detta persona, conservatasi per tanti secoli dopo sparita dalle scritture, o senza mai esservi ammessa, mediante il volgare latino; e per tanti altri, mediante la nostra lingua che gli [1156] è succeduta. Desinenza conservatasi anche nella scrittura francese, nostra sorella, ma perduta nella pronunzia, conforme alla qual pronunzia gli spagnuoli (altri nostri fratelli) scrivono e dicono amè ec. Voce senza fallo derivata dall'antichissimo amai, mutato il dittongo ai nella lettera e, forse a cagione del commercio scambievole ch'ebbero i francesi e gli spagnuoli, e le lingue e poesie loro ne' principii di queste e di quelle: commercio notabilissimo, lungo, vivo, e frequente; e conosciuto dagli eruditi, (Andres t. ii. p. 281. fine, e segg.) e che in ordine alla forma di molte parole e frasi è la sola cagione per cui la lingua spagnuola somiglia alla latina meno della nostra, quantunque in genere somigli e la lat. e la nostra assai più della francese. Così nel futuro amarè ec. ec. somiglia alla lingua francese pronunziata.

Quanto alla cagione per cui si trasmise col tempo alle lettere a ed i il digamma eolico, e poi il v, affine d'evitare, come dicono, l'iato, secondo il costume eolico, osserverò alcune cose che gioveranno anche a tutta questa parte del nostro discorso, e dalle quali potremo forse dedurre che il detto costume non venne veramente dal popolo, come ho detto p. 1128. il quale anzi pare che conservasse la pronunzia antica fino a tramandarla ai nostri idiomi, [1157] ma venne piuttosto, o nella massima parte, dagli scrittori, o dal ripulimento della rozza lingua latina antica.

Il concorso delle vocali suol essere accetto generalmente alle lingue (se non altro de' popoli meridionali d'occidente) tanto più, quanto elle sono più vicine ai loro principii, ovvero ancora quanto sono più antiche, e quanto più la loro formazione si dovè a tempi vicini alla naturalezza de' costumi e de' gusti. Per lo più vanno perdendo questa inclinazione col tempo, e col ripulimento, e si considera come duro e sgradevole il concorso delle vocali che da principio s'aveva per fonte di dolcezza e di leggiadria. La lingua latina che noi conosciamo, cioè la lingua polita e formata e scritta non ama il concorso delle vocali, perch'ella fu polita e formata e scritta in tempi appunto politi e civili, e i più lontani forse dell'antichità dalla prima naturalezza; nell'ultima epoca dell'antichità; presso una nazione già molto civile ec. Per lo contrario la lingua greca stabilita e formata, e ridotta a perfette scritture in tempi antichissimi, gradì nelle scritture il concorso delle vocali, lo considerò come dolcezza e dilicatezza; e perciò la lingua greca che noi conosciamo e possiamo conoscere, cioè la scritta, [1158] ama il concorso delle vocali, specialmente quella lingua che appartiene agli scrittori più antichi, e nel tempo stesso più grandi, più classici, più puri, e più veramente greci.

E siccome la prosodia greca era già formata ai tempi d'Omero, (sia ch'egli la trovasse, o la formasse da se) la latina lo fu tanti e tanti secoli dopo, così fra la poesia dell'una e dell'altra lingua si osserva una notabile differenza in questo proposito, la quale conferma grandemente il mio discorso. Ed è che nella poesia latina se una parola finita per vocale è seguita da un'altra che incominci per vocale, l'ultima vocale della parola precedente è mangiata dalla seguente, si perde, e non si conta fra le sillabe del verso. All'opposto nella poesia greca non è mangiata, nè si perde o altera in verun modo, e si conta per sillaba, come fosse seguita da consonante; fuorchè se il poeta non la toglie via del tutto, surrogandole un apostrofo. Così dico dei dittonghi nello stesso caso, parimente elisi nella poesia latina, e intatti nella greca.

Parimente la lingua italiana antica, quella lingua de' trecentisti, che quanto alla dolcezza e leggiadria non ha pari in nessun altro secolo, non [1159] solo non isfugge il concorso delle vocali, ma lo ama. Proprietà che la nostra lingua è venuta perdendo appoco appoco, quanto più s'è allontanata dalla condizione primitiva; e che oggi non solo dal massimo numero degli scrittori cioè da quelli di poca vaglia, ma da più eleganti, è per lo più sfuggita come vizio, e come causa di brutto e duro suono, in luogo di dolcezza o di grazia. Massimamente però gli scrittori più triviali (dico quanto alla lingua e lo stile), o affettati o no, di questo e de' due ultimi secoli, par ch'abbiano una somma paura che due o più vocali s'incontrino, e storcono le parole in mille maniere per evitare questo disastro.

E così stimo che accada a tutte le lingue in ragione del tempo, dell'indole sua, e del ripulimento di esse lingue. E accadde, io penso, anche alla lingua greca. Giacchè, lasciando quello che si può notare negli scrittori greci più recenti, i dittonghi che da principio, e lungo tempo nel seguito si pronunziavano sciolti, si cominciarono a pronunziar chiusi, e questo costume, come osservò il Visconti, risale fino al tempo di Callimaco, se è veramente di Callimaco un epigramma che porta il suo nome, dove alle parole ναιχὶ χαλός si fa che l'eco risponda ἄλλος ἔχει (epig. 30), la qual cosa dimostra che lo scrittore dell'epigramma pronunziava nechi ed echi come i greci moderni, per naichi ed echei. E come io non [1160] dubito che i latini anticamente non pronunziassero i loro dittonghi sciolti siccome i greci, così mi persuado facilmente che a' tempi di Cicerone e di Virgilio li pronunziassero chiusi come oggi si pronunziano. (12. Giugno 1821).

Alla p. 1118. Perchè meglio s'intenda questa teoria de' verbi continuativi, ne osserveremo e ne distingueremo la natura più intimamente ed accuratamente che non abbiamo fatto finora. Atto ed azione propriamente, differiscono tra loro. L'atto, largamente parlando, non ha parti, l'azione sì. L'atto non è continuato, l'azione sì. Questi due verbali actus ed actio, sì nel latino come nell'italiano, (ed anche nel francese ec.) e non solamente questi, ma anche gli altri di simile formazione, a considerarli esattamente, differiscono in questo, che il primo considera l'agente come nel punto, il secondo come nello spazio, o nel tempo. Certo non si dà cosa veramente e assolutamente indivisibile, ma se considereremo le opere dell'uomo o di qualunque agente, vedremo che alcune ci si presentano come indivisibili, e non continuate, altre come divisibili e continuate. Quando per tanto il verbo positivo latino significa atto, il verbo continuativo significa azione. [1161] Per esempio vertere significa atto, versare azione. Il voltare non può farsi veramente in un punto solo, ma la lingua necessariamente considera l'atto del voltare come indivisibile e non continuato. Laddove quello che in latino si chiama versare, come il voltare per un certo tempo una ruota, si considera naturalmente come azione continuata, fatta non già nell'istante, ma nello spazio, e composta di parti. Questa dunque è azione, quello è atto, e quest'azione è composta di molti di quegli atti. Spessissimo avviene che ciò che l'uomo o la lingua considera come atto sia più durevole di un'azione dello stesso genere. Come, per non dipartirci dall'esempio recato, l'azione del voltare una ruota per lo spazio, poniamo, di una mezz'ora, è più breve dell'atto di voltare sossopra una gran pietra, che non si possa rivolgere senza l'opera d'una o più ore. E tuttavia quell'azione in latino si esprimerebbe col verbo continuativo versare, quest'atto benchè più lungo dell'azione, non potrebbe mai dirsi versare, ma si esprimerebbe col positivo vertere. Perchè quest'atto, ancorchè lungo, rappresentandocisi complessivamente al pensiero, ci desta un'idea unica, non [1162] continuata, semplice: laddove quell'azione ci si presenta come moltiplice, composta, e continuata. Similmente jacere significa atto, jactare, azione.

Quando poi il verbo positivo latino esprime esso stesso non atto, ma azione, come sequi, ec. il continuativo significa la stessa azione più lunga e durevole, o più continua o costante, come sectari ec.

E finalmente spesse volte il continuativo significa l'usanza, il costume di fare quella tale azione o atto significato dal verbo positivo, come acceptare, datare, captare (vedi il Forcellini), secondo che abbiamo veduto, significano il costume di ricevere, dare, prendere. (Forse captare nel senso per esempio di captare aves o pisces appartiene piuttosto alla classe precedente de' continuativi dall'atto all'azione.) Noi abbiamo appunto volgere, voltare (cioè volutare), e voltolare, o rivolgere, rivoltare ec. positivo, continuativo e frequentativo.

Queste osservazioni debbono sempre più farci ammirare la sottigliezza, e la squisita perfezione della lingua latina, che forse non ha l'uguale in simili prerogative e facoltà. (12. Giugno 1821). Vedi p.2033. fine.

Alla p. 1115. marg. in fine. Che se il verbo salire è stato usato dall'Ariosto, dall'Alamanni, dal Caro e da altri nel significato dell'italiano saltare, come afferma il Monti (Proposta ec. Esame di alcune voci, alla vedi ascendere. vol. 1. par. 2. p. 65.), e bene, ciò non prova che quel verbo abbia tale significazione in nostra lingua, ma solo presso gli scrittori, e detto verbo in tal senso non è veramente italiano, ma latinismo, [1163] come tanti altri, e latinismo non lodevole, a differenza di molti altri, e non meritevole di passare in uso o nel discorso o nelle scritture. Il francese saillir ha conservato alcuni significati figurati del latino salire, e lo spagnuolo salir per uscire (nel qual senso anche l'italiano salire fu adoprato dall'Ariosto) si avvicina pure al metaforico latino di salire per celeriter emergere. E vedi se lo spagnuolo salir ha altri significati. (13. Giugno 1821)

Il miglior uso ed effetto della ragione e della riflessione, è distruggere o minorare nell'uomo la ragione e la riflessione, e l'uso e gli effetti loro. (13. Giugno 1821).

Domandato il tale qual cosa al mondo fosse più rara, rispose, quella ch'è di tutti, cioè il senso comune. (13. Giugno 1821).

Altra prova dell'antico odio nazionale. Presso gli antichi latini o romani, forestiero e nemico si denotavano colla stessa parola hostis. Vedi Giordani nella lettera al Monti, in fine, (Proposta ec. vol. 1. par. 2. p. 265. fine. alle voci Effemeride. Endica. Epidemia.) il Forcellini, e il mio pensiero su questa voce, p.205. fin. dove si porta anche l'esempio simile, della lingua Celtica. (13. Giugno 1821).

[1164] I Toscani che dicono bi ci di, perchè dicono effe, emme, enne, erre, esse (vedi la Crusca) e non effi, emmi ec.? anzi iffi, immi ec.? (13. Giugno 1821).

A quello che ho notato altrove dell'antichità della nostra frase gridare a testa, ec. aggiungi delle francesi, crier à pleine tête, à tue tête, du haut de sa tête, delle quali vedi l'Alberti vedi Tête, e vedi pure i Diz. spagnuoli. (13. Giugno 1821).

L'invidia, passione naturalissima, e primo vizio del primo figlio dell'uomo, secondo la S. Scrittura, è un effetto, e un indizio manifesto dell'odio naturale dell'uomo verso l'uomo, nella società, quantunque imperfettissima, e piccolissima. Giacchè s'invidia anche quello che noi abbiamo, ed anche in maggior grado; s'invidia ancor quello che altri possiede senza il menomo nostro danno; ancor quello che ci è impossibile assolutamente di avere, e che neanche ci converrebbe; e finalmente quasi ancor quello che non desideriamo, e che anche potendo avere non vorremmo. Così che il solo e puro bene altrui, il solo aspetto dell'altrui supposta felicità, ci è grave naturalmente per se stessa, ed è il soggetto di questa passione, la quale per conseguenza non può derivare se non dall'odio verso gli altri, derivante dall'amor proprio, ma derivante, se m'è lecito di [1165] così spiegarmi, nel modo stesso nel quale dicono i teologi che la persona del Verbo procede dal Padre, e lo Spirito Santo da entrambi, cioè non v'è stato un momento in cui il Padre esistesse, e il Verbo o lo Spirito Santo non esistesse. (13. Giugno 1821).

La convenienza al suo fine, e quindi l'utilità ec. è quello in cui consiste la bellezza di tutte le cose, e fuor della quale nessuna cosa è bella. (13. Giugno 1821).

Tutti quanti i giovani, benchè qual più qual meno, sono per natura disposti all'entusiasmo, e ne provano. Ma l'entusiasmo de' giovani oggidì, coll'uso del mondo e coll'esperienza delle cose che quelli da principio vedevano da lontano, si spegne non in altro modo nè per diversa cagione, che una facella per difetto di alimento: anche durando la gioventù, e la potenza naturale dell'entusiasmo. (13. Giugno 1821).

Quante controversie sul significato di quelle parole di Orazio intorno a Cleopatra vinta nella battaglia Aziaca: (Od. 37. lib. 1. vers. 23. seq.)

Nec latentes

Classe cita reparavit oras!

[1166] Vedi il Forcellini e i comentatori. E nessuno l'ha bene inteso. Acrone: nec latentes classe cita reparavit oras: fines regni latentes: id est non colligit denuo exercitum ex intimis regni partibus. Porfirione altro antico Scoliaste: nec latentes c. c. r. oras: hoc est: Nec fugit in latentes, id est intimas Aegypti regiones ut vires inde repararet. Nè mai s'intenderà e spiegherà perfettamente senza l'antico italiano, il quale c'insegna un significato del verbo reparare che non è conosciuto ai Lessicografi latini. Ed è quello di ricoverarsi, nel qual senso i nostri antichi dicevano, ed ancor noi possiamo dire, riparare o ripararsi a un luogo o in un luogo. Orazio dunque vuol dire, e dice espressamente: Non si ricoverò, non rifuggì alle recondite, alle riposte parti d'Egitto. Come se in luogo di reparavit avesse detto petiit, ma reparavit ha maggior forza di esprimere la fuga e il timore. (14. Giugno 1821).

Alla p. 1155. marg. Così nictare e nictari derivano dall'antico participio nictus o supino nictum dell'antico e inusitato nivere, o come altri vogliono, di niti. Vedi p. 1150. fine. (14. Giugno 1821).

Alla p. 1132. Così nelle parole simplex, duplex, [1167] triplex, multiplex e altre tali, si potrebbe ritrovare la radice monosillaba del verbo plicare (i greci dicono πλέχειν) del quale io credo che sia continuativo anomalo il verbo plectere ne' significati di piegare, intrecciare e simili. (14. Giugno 1821). Vedi p.2225. capoverso 1.

Alla p. 1154. principio. E lo stesso dico de' verbi d'altre forme. Come l'antico participio di noscere si deduce dal verbo noscitare formato da noscitus, come notare da notus. Così di pascere dal verbo pascitare formato da pascitus in luogo di pastus. E non solo di altre forme, anche d'altre congiugazioni. Come doctus che sia contrazione di docitus facilmente rilevasi da nocitus e nociturus di nocere, verbo che non differisce materialmente da docere se non che d'una lettera: da placitus di placere, verbo regolarissimo della stessa congiugazione seconda, e da molti altri simili participii. Se doctus fosse il vero participio lo sarebbe plactus dirittamente in vece di placitus. Da coerceo non coarctus o coerctus, ma coercitus, sebben poi contratto in coarctare ec. Il supino paritum e il participio paritus di parere cioè partorire, in luogo de' quali sono più usitati partum e partus, deducesi però necessariamente da pariturus. E parturus, ch'io sappia, non si dice mai. Vedi p.2009. e 2200. capoverso 2.

Io stimo probabile che il verbo sollicitare intorno all'origine del quale vanno a tastoni gli etimologisti che lo derivano da citare, venga piuttosto [1168] da quel medesimo verbo da cui vedemmo formato adlicere (cioè dal verbo lacere) che ora fa nel participio adlectus, onde adlectare, e anticamente faceva, secondo me, adlicitus. E così penso che sollicitare sia lo stesso che sublicitare dal participio sublicitus di un antico sublicere (altro composto di lacere) dal qual participio contratto in sublectus abbiamo effettivamente in Plauto il verbo sublectare. Di maniera che il significato appunto di adlicere, invitare, che i Vocabolaristi danno a sollicitare come traslato e secondario, dovrebbe considerarsi come primo e proprio. Questa però non intendo di darla se non come congettura. (15. Giugno 1821).

Alla p. 1139. Del che si potrebbono addurre molte prove che lascieremo agli eruditi, contentandoci di questa sola osservazione la quale dimostrerà che al più il פ ebraico era un p, che talora si aspirava, e somigliante al ϕ de' greci ch'è un p aspirato, come abbiam detto. L'alfabeto Fenicio dal quale derivò l'alfabeto greco, e per conseguenza il latino, o derivato dal greco, o dalla medesima fonte del greco, era lo stesso che il Samaritano, e l'alfabeto Samaritano era l'antico alfabeto ebraico. Ora che l'alfabeto fenicio mancasse della lettera f, o al [1169] più si servisse in sua vece di un p aspirato si dimostra, fra le molte altre prove, ed oltre quello che abbiamo detto, che il ϕ mancava all'antico alfabeto greco detto Cadmeo o Fenicio; da questo, che i latini chiamavano, com'è noto, i Cartaginesi originari di Fenicia, Poeni, Poenici, Punici, cioè Fenici, gr. Φοίνιχες, servendosi come vedete di un p semplice in luogo di un p aspirato che usavano i greci in questo nome, e della f che vi usiamo noi. E così pure chiamavano non solamente phoeniceum, ma anche poeniceum e puniceum senza aspirazione, quel colore che i greci chiamavano ϕοινίχεος e per contrazione ϕοινιχοῦς. Il che anche può dimostrare che gli antichi latini (il cui alfabeto derivò pure, come vedemmo, dal Fenicio) mancavano di un carattere proprio ad esprimere la f, ed anche forse della pronunzia di questa lettera. Ovvero che il ϕ de' greci da' quali essi presero forse i detti nomi (specialmente quelli del detto colore che derivano da ϕοῖνιξ palma), si pronunziava anche come un p semplice. Vedi Forcellini in H. Pontedera p.14. (leggi assolutamente le sue prime 2 lettere, necessarie a questo mio discorso). I greci stessi scrivevano anticamente ΠΗ per Φ Vedi Encyclop. in H. p. 215. (15. Giugno 1821).

L'ardore giovanile è la maggior forza, l'apice, la perfezione, l'ἀχμή della natura umana. Si consideri dunque la convenienza di quei sistemi politici, nei quali l'ἀχμή dell'uomo, cioè l'ardore e [1170] la forza giovanile, non è punto considerata, ed è messa del tutto fuori del calcolo, come ho detto in altro pensiero. (15. Giugno 1821).

Si consideri per l'una parte che cosa sarebbe la civiltà senza l'uso della moneta. Oltre ch'ella non potrebbe reggersi, non sarebbe neppur giunta mai ad un punto di gran lunga inferiore al presente, essendo la moneta, di prima necessità ad un commercio vivo ed esteso, e questo commercio scambievole vivo ed esteso, tanto delle nazioni, quanto degl'individui di ciascuna, essendo forse la principal fonte dei progressi della civiltà, o della corruzione umana. E se bisognassero prove di una proposizione così manifesta, si potrebbe addurre, fra gli altri infiniti de' popoli selvaggi ec., l'esempio di Sparta che, avendo poco uso della moneta per le leggi di Licurgo, in mezzo al paese più civile del mondo a quei tempi, cioè la Grecia, si mantenne sì lungo spazio, e incorrotta, e quasi stazionaria, o certo la sua civiltà, o corruzione, fu sempre di molti gradi minore di quella degli altri popoli greci, e le andò sempre molti passi indietro.

[1171] Per l'altra parte si consideri l'immensa difficoltà, l'immenso spazio che ha dovuto percorrere lo spirito umano prima di pur pensare a ridurre all'uso suo quotidiano, materie così nascoste dalla natura, così difficili a trarsi in luce, così difficili, non dico a lavorarsi, ma a dar sospetto che potessero mai esser lavorate, e solamente modificate e cambiate alquanto di forma. Anzi prima di trovare i metalli. E dopo tutto ciò, prima di pensare a ridurre ed erigere in rappresentanti di tutte le cose o necessarie, o utili o dilettevoli, de' pezzi di materia per se stessa (massime anticamente) o inutile, o poco utile, disadatta, pesantissima, e (riguardo ai metalli che formarono le prime monete, cioè rame o ferro ec.) bruttissime ancora a vedersi. E quanto spazio passasse effettivamente prima di tutto ciò, si deduce anche dal fatto, e dal vedere che a' tempi d'Omero, o almeno a' tempi troiani (benchè certo non incolti), o mancava, o era di poco e raro uso la moneta.

E qui torno a domandare se la natura poteva ragionevolmente porre sì grandi, numerosi, incredibili ostacoli al ritrovamento di un mezzo necessario e principale per ottener quella che noi chiamiamo [1172] perfezione e felicità del genere umano, cioè l'incivilimento; e dico al ritrovamento dell'uso della moneta.

Osservate poi, nella stessa moderna perfezione delle arti, le immense fatiche e miserie che son necessarie per proccurar la moneta alla società. Cominciate dal lavoro delle miniere, ed estrazion dei metalli, e discendete fino all'ultima opera del conio. Osservate quanti uomini sono necessitati ad una regolare e stabile infelicità, a malattie, a morti, a schiavitù (o gratuita e violenta, o mercenaria) a disastri, a miserie, a pene, a travagli d'ogni sorta, per proccurare agli altri uomini questo mezzo di civiltà, e preteso mezzo di felicità. Ditemi quindi 1. se è credibile che la natura abbia posta da principio la perfezione e felicità degli uomini a questo prezzo, cioè al prezzo dell'infelicità regolare di una metà degli uomini. (e dico una metà, considerando non solo questo, ma anche gli altri rami della pretesa perfezione sociale, che costano il medesimo prezzo.) Ditemi 2. se queste miserie de' nostri simili sono consentanee a quella medesima civiltà, alla quale servono. È noto come la schiavitù sia [1173] difesa da molti e molti politici ec. e conservata poi nel fatto anche contro le teorie, come necessaria al comodo, alla perfezione, al bene, alla civiltà della società. E quello che dico della moneta, dico pure delle derrate che ci vengono da lontanissime parti, mediante le stesse o simili miserie, schiavitù ec. come il zucchero, caffè ec. ec. e si hanno per necessarie alla perfezione della società. Vedi p. 1182.

E vedete da questo, come la civiltà (secondo il costume di tutte le false teorie) contraddica a se stessa anche in teorica, ed oltracciò non possa sussistere senza circostanze che ripugnano alla sua natura, e sono assolutamente incivili, anzi barbare in tutta la verità e la forza del termine. Sicchè la perfetta civiltà non può sussistere senza la barbarie perfetta, la perfezione della società senza la imperfezione (e imperfezione nello stesso senso e genere in cui s'intende la detta perfezione); e tolta questa imperfezione, si taglierebbero le radici alla pretesa perfezione della società.

Torno a domandare se tali contraddizioni ed assurdi è presumibile che fossero ordinati e disposti primordialmente dalla natura, intorno alla perfezione, vale a dire al ben essere della principal creatura terrena, cioè l'uomo.

[1174] E notate che l'uso della moneta quanto è necessario a quella che oggi si chiama perfezione dello stato sociale, tanto nuoce a quella perfezione ch'io vo predicando; giacchè il detto uso è l'uno de' principalissimi ostacoli alla conservazione dell'uguaglianza fra gli uomini, e quindi degli stati liberi, alla preponderanza del merito vero e della virtù ec. ec. e l'una delle principalissime cagioni che introducono, e appoco appoco costringono la società all'oppressione, al dispotismo, alla servitù, alla gravitazione delle une classi sulle altre, insomma estinguono la vita morale ed intima delle nazioni, e le nazioni medesime in quanto erano nazioni. (16. Giugno 1821). Quel che si è detto della moneta si può dire di mille altri usi ec. necessari alla società o civiltà, e pur d'invenzione ec. difficilissima, come la scrittura, la stampa ec.

Ho detto più volte che la letteratura francese è precisamente letteratura moderna, ed è quanto dire che non è letteratura. Perchè considerando bene vedremo che i tempi moderni hanno filosofia, dottrina, scienze d'ogni sorta, ma non hanno propriamente letteratura, e se l'hanno, non è moderna, ma di carattere antico, ed è quasi un innesto dell'antico sul moderno. L'immaginazione ch'è la base della letteratura strettamente considerata, [1175] sì poetica come prosaica, non è propria, anzi impropria de' tempi moderni, e se anche oggi si trova in qualche individuo, non è moderna, perchè non solamente non deriva dalla natura de' tempi, ma questa l'è sommamente contraria, anzi nemica e micidiale. E vedete infatti che la letteratura francese, nata e formata in tempi moderni, è la meno immaginosa non solo delle antiche, ma anche di tutte le moderne letterature. E per questo appunto è letteratura pienamente moderna, cioè falsissima, perchè il predominio odierno della ragione quanto giova alle scienze, e a tutte le cognizioni del vero e dell'utile (così detto), tanto nuoce alla letteratura e a tutte le arti del bello e del grande, il cui fondamento, la cui sorgente e nutrice è la sola natura, bisognosa bensì di un mezzano aiuto della ragione, ma sommamente schiva del suo predominio che l'uccide, come pur troppo vediamo nei nostri costumi, e in tutta la nostra vita d'oggidì. (16. Giugno 1821).

Quanto più cresce il mondo rispetto all'individuo, tanto più l'individuo impiccolisce. I nostri antichi, conoscendo pochissima parte di mondo, [1176] ed essendo in relazione con molto più piccola parte, e bene spesso colla sola loro patria, erano grandissimi. Noi conoscendo tutto il mondo, ed essendo in relazione con tutto il mondo, siamo piccolissimi. Applicate questo pensiero ai diversissimi aspetti sotto i quali si verifica che essendo cresciuto il mondo, l'individuo s'è impiccolito sì fisicamente che moralmente; e vedrete esser vero in tutti i sensi che l'uomo e le sue facoltà impiccoliscono a misura che il mondo cresce in riguardo loro. (16. Giugno 1821).

Ho detto altrove che il troppo, spesse volte è padre del nulla. Osserviamolo ora nel genio e nelle facoltà della mente. Certi ingegni straordinarissimi che la natura alcune volte ha prodotti quasi per miracolo, sono stati o del tutto o quasi inutili, appunto a cagione della soverchia forza o del loro intelletto o della loro immaginazione, che finiva nel non potersi risolvere in nulla, nè dare alcun frutto determinato.

1. Questi tali geni sommi hanno consumato rapidamente il loro corpo e le stesse loro facoltà mentali, lo stesso genio. La soverchia delicatezza de' loro organi li rende e più facili a consumarsi, e più facili a guastarsi, rimanendo inferiori di facoltà agli organi i meno delicati, e i più imperfetti. Testimonio Pascal, morto di trentanove [1177] anni, ed era già soggetto a una specie di pazzia. Testimonio Ermogene che forse fu uomo insigne e straordinario, sebbene il suo secolo non gli permettesse di parer tale anche a noi, durante quel poco di tempo che gli durò l'uso delle sue facoltà mentali. Testimonio quel Genetlio di cui parla Esichio Milesio e Suida, il quale non era che un portento di memoria; ma quello ch'io dico dell'intelletto o della fantasia, dico pure della memoria, e si sono spesso veduti uomini che erano portenti di memoria da giovani, divenir maraviglie di dimenticanza da vecchi, o ancor prima. Vedi il Cancellieri, Degli uomini di gran memoria ec. S'io volessi qui noverare gli uomini insigni che hanno sofferto dal lato del loro fisico, non per altro che a cagione del loro troppo ingegno; e le morti immature che paiono essere inevitabili agli uomini di genio straordinariamente prematuro, e prematuramente sviluppato e coltivato, non finirei mai. Vedi in proposito del Chatterton famoso poeta morto di 19 anni, lo Spettatore di Milano, Quaderno 68. p. 276. Parte straniera.

2. Questi geni straordinari, penetrano in certi [1178] misteri, in certe parti della natura così riposte; scuoprono e vedono tante cose, che la stessa copia e profondità delle loro concezioni, ne impedisce la chiarezza tanto riguardo a essi stessi, quanto al comunicarle altrui; ne impedisce l'ordine, insomma vince le loro stesse facoltà, e non è capace, a cagione dell'eccesso, di essere determinata, circoscritta, e ridotta a frutto. La forza della loro mente soverchia la capacità della stessa mente, perchè insomma la natura, e la copia delle verità esistenti è molto maggiore della capacità e delle facoltà dell'uomo. E il troppo vedere, il troppo concepire, rende questi tali ingegni, sterili e infruttuosi; e se scrivono, i loro scritti o sono di poco conto, ed anche aridi espressamente e poveri (come quelli di Ermogene); o certo minori assai del loro ingegno. Come quegli animali inetti alla generazione per l'eccesso della forza generativa (i muli). E la stupidità della vita è ordinariamente il carattere di tali persone, o mentre ancora son giovani, o da vecchi, come narrano che fosse detto a Pico Mirandolano. Quello che dico dell'intelletto e della filosofia, dico pure della immaginazione e delle arti che ne derivano. Esempio del Tasso, della sua pazzia, dell'essere i suoi [1179] componimenti, quantunque bellissimi, certo inferiori alla sua facoltà, ed a quegli stessi degli altri tre sommi italiani, a niuno de' quali egli fu realmente minore. E lo stesso dico eziandio di qualunque altra facoltà e disciplina particolare. (17. Giugno 1821).

Non è verisimile che la lingua chinese si sia conservata la stessa per sì lunga serie di secoli, a differenza di tutte le altre lingue. Eppure i suoi più antichi scrittori s'intendono mediante le stesse regole appresso a poco, che servono ad intendere i moderni. Ma la cagione è che la loro scrittura è indipendente quasi dalla lingua, come ho detto altrove, e (come pure ho detto) la lingua chinese potrebbe perire, e la loro scrittura conservarsi e intendersi nè più nè meno. Così dunque io non dubito che la loro antica lingua, malgrado l'immutabilità straordinaria di quel popolo, se non è perita, sia certo alterata. Il che non si può conoscere, mancando monumenti dell'antica lingua, benchè restino monumenti dell'antica scrittura. La quale ha patito bensì anch'essa, e va soffrendo le sue diversificazioni; ma i caratteri (indipendenti dalla lingua nel chinese) non essendo nelle mani e nell'uso del popolo, (massime nella China, [1180] dove l'arte di leggere e scrivere è sì difficile) conservano molto più facilmente le loro forme essenziali e la loro significazione, di quello che facciano le parole che sono nell'uso quotidiano e universale degl'idioti e de' colti, della gente d'ogni costume, d'ogni opinione, d'ogni naturale, d'ogni mestiere, d'ogni vita, e accidenti di vita. (A questo proposito ecco un passo di Voltaire portato dal Monti Proposta ec. vol. ii. par. 1. p. 159. Quasi tutti i vocaboli che frequentemente cadono nel linguaggio della conversazione, ricevono molte digradazioni, lo svolgimento delle quali è difficile: il che ne' vocaboli tecnici non accade, perchè più preciso e meno arbitrario è il loro significato.) E lo vediamo pur nel latino, perduta la lingua, e conservati i caratteri, quanto alle forme essenziali, e al valore. Così nel greco ec. Ora nella China, conservato l'uso, la forma, e il significato de' caratteri antichi, è conservata la piena intelligenza delle antiche scritture, quando anche oggi si leggessero con parole e in una lingua tutta diversa da quella in cui gli Antichi Chinesi le leggevano. (17. Giugno 1821).

Dell'antico significato di fabula onde favella, e di μῦϑος vedi le note Variorum al i. lib. di Fedro, prologo, verso ult. (18. Giugno 1821).

Noi diciamo fuso sostantivo mascolino singolare, e fusa plurale femminino, secondo la proprietà della lingua nostra di dare a parecchie voci nel plurale, la desinenza del neutro plurale latino, del che vedi il Ciampi De usu linguae italicae saltem a saeculo sexto, dove mostra come molti di questi nostri plurali femminini in a derivino da un latino popolare [1181] ec. Queste tali desinenze italiane pare che indichino de' neutri latini corrispondenti, e quel fusa dell'italiano pare che indichi un neutro latino fusum, o almeno il suo plurale fusa, come da brachia facciamo le braccia, da cornua, le corna, da genicula, diminutivo di genua (Forcellini), le ginocchia, da poma, le poma, da ossa, le ossa, da fila, le fila, da membra, le membra, da fundamenta, le fondamenta, da castella, le castella, da labia, le labbia, da labra, le labbra, da gesta, le gesta, da ligna, vestigia, le legna, le vestigia, da ova, le uova, da terga, le terga, da flagella, le flagella, le cervella, ec. le vestimenta, le ornamenta (vedi la Crusca in vestimento), ec. le corna, le ciglia ec. da vasa, le vasa (Crusca, e Tansillo, Podere, capit.3. terz. 2.) ec. Notate che quando gesto significa gestus us, non diciamo le gesta ma i gesti. E allora solo diciamo le gesta, quando gesto si piglia in senso neutro, e vuol dire cosa fatta, come in Corn. Nep. Obscuriora sunt eius gesta pleraque. (Vedi il Gloss. in Gesta.) Così diciamo interiori aggettivamente, ma le interiora (ed anche però gl'interiori) assolutamente per entragni, cioè in senso neutro, come Vegezio, Torsiones vocant, et interiorum incisiones. Vedi p. 2340. fine. Ma nè fusumfusa non si trovano ne' Vocabolari latini, ma solamente fusus che fa nel plurale fusi. Or ecco ne' frammenti di Simmaco scoperti dal Mai (Q. Aurelii Summachi Vedi C. Octo Orationum ineditarum partes. Orat. 3. scil. Laudes in Gratianum Augustum, cap. 9. Mediol. 1815. p. 35.): Et vere si fas est praesagio futura conicere, iamdudum aureum saeculum currunt fusa Parcarum. Così ha il Codice Ambrosiano antichissimo, cioè di verso la metà del sesto secolo almeno, vale a dire un secolo al più dopo la morte dell'autore. E che non sia sbaglio di scrittura si conosce anche dal vedere che scrivendo fusi guasterebbesi quel ritmo di cui Simmaco era tanto vago e sollecito, e così perpetuo seguace, come può sapere ognuno che l'abbia [1182] letto, e come si può notare a prima giunta anche negli altri scrittori di quella età e delle circonvicine, e generalmente di tutti gli scrittori latini e greci di corrotta e affettata eleganza e rettorica. Questa voce fusa è stata notata dal Mai nell'Indice rerum notabiliorum, e dal Furlanetto nell'Appendice al Forcellini. Vedi pure il Forcell. e il Gloss. in saccus, sextarius, poichè noi diciamo le sacca, le staia. Dal che si potrebbe dedurre che l'antico volgo latino dicesse similmente murum, pugnum, fructum, lectum, sostantivo, digitum, anellum, risum, nel genere neutro, o almeno nel plurale, (oltre il mascolino che abbiamo in tali plurali anche noi) mura, pugna, fructa, lecta, digita, anella, risa, come noi diciamo le mura, le pugna, le frutta, le letta, le dita, le anella, le risa, e simili, quantunque non resti notizia precisa di queste voci latine, come fino a pochi anni addietro non si aveva notizia della voce che abbiamo veduta e che restava pure nell'italiano. Fructa e mura neutri plurali si ritrovano anche nel latino barbaro. (Du Cange.) Lectum sostantivo neutro è usato da Ulpiano nel Digesto, e vedi Forcellini. (18. Giugno 1821). Risus us dicono i buoni latini. Eppure essi dicono jussus us e parimente jussum i; e così altri tali verbali della quarta congiugazione (che risus è un puro verbale) gli fanno talora neutri della seconda, come pur gustum i, per gustus us, ec. su di che vedi p. 2146. e 2010. se vuoi.

Alla p. 1173. Così dico pure delle gemme, e di tanti altri oggetti o di uso o di lusso, difficilissimi a procacciarsi, e non possibili senza infiniti travagli e disastri, ma che d'altra parte si considerano appresso a poco come necessari alla vita civile, e servono effettivamente, o sono anche necessari al commercio fra le nazioni, (che senza molti di tali oggetti, e di tali bisogni, non sussisterebbe), fonte principale della civiltà e quindi della pretesa felicità del genere umano.

[1183] Il pensiero precedente intorno all'effettiva necessità di tanti oggetti di lusso ec. per mantenere e dar motivo al commercio, necessario alla civiltà, quando anche i detti oggetti non sieno effettivamente e per se stessi nè bisognevoli nè utili alla vita, merita di essere ampliato: perchè i detti oggetti costando infiniti travagli all'umanità, si vede come sia necessaria alla civiltà l'inciviltà, alla perfezione l'imperfezione (nel senso in cui chiamiamo perfezione il suo contrario), alla umanità e delicatezza e raffinatezza ec. la barbarie della società. (18. Giugno 1821).

Quello che ho detto altrove intorno alla diversa impressione che fanno ne' fanciulli i nomi propri (e si può aggiungere le parole di ogni genere), e alle diverse idee che loro applicano di bellezza o di bruttezza, secondo le circostanze accidentali di quell'età, serve anche a dimostrare come sia vero che il bello è puramente relativo, e come l'idea del bello determinato non derivi dalla bellezza propria ed assoluta di tale o tale altra cosa, ma da circostanze affatto estrinseche al genere e alla sfera del bello.

Ed ampliando questa osservazione, se noi vorremo vedere come i fanciulli appoco appoco si formino [1184] l'idea delle proporzioni e delle convenienze determinate e speciali; e come senz'alcuna idea innata nè di proporzioni nè di convenienze particolari e applicate, giungano pur brevemente a giudicar quella cosa bella e quell'altra brutta, e quella buona, e quell'altra cattiva; e ad accordarsi più o meno col giudizio universale intorno alla bruttezza o bellezza, bontà o il suo contrario, senza però averne nell'intelletto o nella immaginazione alcun tipo; consideriamo per modo di esempio il progresso delle idee de' fanciulli circa le forme dell'uomo, e vediamo come appoco appoco arrivino a giudicare e a sentire la bellezza e la bruttezza estrinseca degl'individui umani.

Il fanciullo quando nasce non ha veruna idea del quali sieno e debbano essere le forme dell'uomo: (eccetto per quello ch'ei sente materialmente e può concepire delle sue proprie membra e parti, mediante l'esperienza de' sensi.) (Ma se egli non ha l'idea di dette forme, e questo è costante presso tutti gl'ideologi, come potrà averla della loro bellezza? Come potrà aver l'idea della qualità, non avendo quella del soggetto? E così discorrete di tutti gli altri oggetti suscettibili di bellezza, di nessuno de' quali il fanciullo ha idea innata. Come dunque potrà avere idea della bellezza, prima di aver la menoma idea di quelle cose che ponno esser belle? Poniamo un essere non soltanto possibile, ma reale, e che noi pur sappiamo ch'esista, senza però conoscerlo in altro conto. Che idea abbiamo noi della sua bellezza o bruttezza? Ma se è assolutamente ignoto quel bello e quel brutto che appartiene a forme ignote ec., dunque il bello non è assoluto.) L'acquista però ben presto col vedere, toccare ec. E vedendo per esempio in tutte le persone che lo circondano, il naso o la bocca di quella tal misura che noi chiamiamo proporzionata, si forma necessariamente e naturalmente l'idea che quella tal parte dell'uomo sia e debba essere di quella tal misura. Ecco subito l'idea di una proporzione non assoluta, ma relativa; idea non innata, ma acquisita, non derivata [1185] dalla natura nè dall'essenza delle cose, nè da un tipo e da una nozione preesistente nel suo intelletto, nè da un ordine necessario, ma dall'assuefazione del senso della vista circa quel tale oggetto, e dall'arbitrio della natura che ha fatto realmente la maggior parte degli uomini in quel tal modo.

Acquistata così per solissima assuefazione l'idea delle proporzioni o convenienze, il fanciullo si forma facilmente quella delle sproporzioni e sconvenienze, che è sempre e necessariamente posteriore a quella dei loro contrari, e perciò l'idea del brutto e del cattivo è posteriore a quella del buono e del bello, (il che non sarebbe se fosse assoluta e primitiva e ingenita nell'uomo, e appartenente all'essenza e natura della sua mente e della sua facoltà concettiva) e deriva non da un tipo, ma dalla detta idea in questo modo che son per dire. Seguendo l'esempio che abbiamo scelto, se il fanciullo vede un naso molto più lungo o più corto di quello ch'è assuefatto a vedere, concepisce subito il senso della sproporzione e sconvenienza, cioè di una mera contraddizione con la sua propria abitudine di vedere, e forma il giudizio dello sproporzionato e sconveniente, ossia del brutto. Ed eccolo ben presto d'accordo col giudizio universale degli uomini circa la bellezza e la bruttezza determinata, [1186] senza averne portata nè ricevuta dalla natura o dalla ragione verun'idea.

Ma ecco prove più trionfanti di questa mia proposizione, cioè che l'idea d'ogni proporzione, d'ogni convenienza, d'ogni bello, d'ogni buono determinato e specifico, e di tutti i loro contrari, deriva dalla semplice assuefazione.

I. Se quel naso sarà poco più lungo, o quella bocca poco più larga, quantunque lo sia tanto che basti ad eccitare negli uomini il giudizio e il senso della bruttezza, il fanciullo non concepirà questo giudizio nè questo senso in verun modo. Che la cosa vada così, n'è testimonio l'esperienza di chiunque è stato fanciullo, e vorrà sovvenirsi di ciò che gli accadeva in quell'età. E qual è la ragione? La ragione è che il fanciullo avendo acquistato solamente una scarsa e debole idea delle proporzioni, perchè poco ha veduto, e poco ha confrontato, ha parimente una scarsa ed inesatta e non sottile nè minuta idea delle sproporzioni, e non se n'accorge nè le sente, se non quando quel tale oggetto si oppone vivamente e fortemente alla sua abitudine. Solamente col molto vedere, egli arriva a formarsi senza pensarvi, un giudizio, un discernimento, un senso fino per distinguere il bello dal brutto. Alle volte per l'opposto pare al fanciullo notabilissima una sproporzione o sconvenienza, che gli altri neppure osservano. E ne deduce un senso di bruttezza che gli altri non provano. La ragione è la poca assuefazione, l'aver poco veduto, il che gli fa trovare strano quello che non è strano, e brutto quindi o assai brutto, quello che non è brutto, o poco. Come ciò, se il brutto fosse assoluto? Un fanciullo raccontava che una persona aveva due nasi, perchè aveva osservata sul suo naso una piccola differenza di colore, in parte più rosso, in parte meno. E di questa cosa nessun altro si avvedeva senz'apposita osservazione. Che vuol dir [1187] questo? Se l'idea del bello e del brutto determinato, fosse assoluta e naturale ed innata, avrebbe mestieri il fanciullo di crescere, e di esercitare i suoi sensi, e di esperienza, per acquistare un'idea, non dico perfetta, ma sufficiente, della bellezza o bruttezza determinata? Il vedere che ne ha bisogno, non dimostra evidentemente che il giudizio e il senso della bruttezza o bellezza deriva unicamente dall'assuefazione e dal confronto, e che nessun oggetto al mondo sarebbe nè bello nè brutto, nè buono nè cattivo, se non ci fosse con che confrontarlo, massime nella sua specie? E ciò viene a dire che nessuna cosa è bella nè buona assolutamente, e per se stessa; e quindi non esiste un bello nè un buono assoluto.

Il perfezionamento del gusto in ogni materia, sia nelle arti, sia riguardo alla bellezza umana, sia in letteratura ec. ec. si considera come una prova del bello assoluto, ed è tutto l'opposto. Come si raffina il gusto de' pittori, degli scultori, de' musici, degli architetti, de' galanti, de' poeti, degli scrittori? Col molto vedere o sentire di quei tali oggetti sui quali il detto gusto si deve esercitare; coll'esperienza, col confronto, coll'assuefazione. Come dunque questo gusto può dipendere da un tipo assoluto, universale, immutabile, necessario, naturale, preesistente? Quello ch'io [1188] dico de' fanciulli, dico anche de' villani, e di tutti quelli che si chiamano o di rozzo, o di cattivo, o di non formato gusto in ogni qualsivoglia genere di cose: lo dico di chi non è avvezzo a vedere opere di pittura, il quale ognuno sa e dice che non può giudicare del bello pittorico; lo dico di chi non è accostumato alla lettura de' buoni poeti, il quale non può mai giudicare del bello poetico, del bello dello stile ec. ec. ec. Come il giudizio e il senso del fanciullo intorno al bello, è da principio necessariamente grossolanissimo, cosa che dimostra evidentemente come il detto giudizio dipenda dall'assuefazione, così il giudizio e il senso della massima parte degli uomini circa il bello, resta sempre imperfettissimo non per altro, se non perchè la massima parte degli uomini non acquista mai una tal esperienza da poter formare quel giudizio minuto, esatto e distinto, che si chiama gusto fino. Cioè 1. non considera bene le minute parti degli oggetti, per poterle confrontare, e formarsene quindi l'idea della proporzione determinata, idea ch'egli non ha. 2. non ha l'abito di confrontare minutamente, ch'è l'unico mezzo di giudicare minutamente della proporzione e sproporzione, bellezza o bruttezza, buono o cattivo. Così andate discorrendo, e applicate queste osservazioni a tutte le facoltà e cognizioni umane. E dal vedere che il senso [1189] del bello è suscettivo di raffinamento e accrescimento sì ne' fanciulli, e sì negli uomini già formati, deducete ch'esso non è dunque innato nè assoluto, giacchè quello che ha bisogno di essere acquistato e formato non è ingenito; e quello che essendo suscettivo di accrescimento è per conseguenza suscettivo di cangiamento, non è nè può essere assoluto.

Dunque io non riconosco negli individui veruna differenza di naturale disposizione ed ingegno a riconoscere e sentire il bello ed il brutto ec.? Anzi la riconosco, ma non l'attribuisco a quello a cui si suole attribuire: cioè ad un sognato magnetismo che trasporti gl'ingegni privilegiati verso il bello, e glielo faccia sentire, e scoprire senza veruna dipendenza dall'assuefazione, dall'esperienza, dal confronto; ad una simpatia dell'ingegno con un bello esistente nella natura astratta; ad un favore della natura che si riveli spontaneamente a questi geni privilegiati ec. ec. Tutti sogni. Il genio del bello, come il genio della verità e della filosofia, consiste unicamente nella delicatezza degli organi che rende l'uomo d'ingegno 1. facile ed inclinato a riflettere, ad osservare, [1190] a notare, a scoprire le minute cose, e le minime differenze: 2. a paragonare, e nel paragone ad essere diligente, minuto, e ritrovare le minime disparità, le minime somiglianze, le menome contrapposizioni, i menomi rapporti: 3. ad assuefarsi in poco tempo, e con poca esperienza, poco vedere ec. poco uso insomma de' sensi, poco esercizio materiale delle sue facoltà, contrarre un'abitudine: 4. a potere, mediante quello che già conosce, indovinare in breve tempo anche quello che non conosce, in virtù della gran forza comparativa che gli viene dalla delicatezza de' suoi organi; la qual forza fa ch'egli ne' pochi dati che ha, scuopra tutti i possibili rapporti scambievoli, e ne deduca tutte le possibili conseguenze. Per esempio (non uscendo dalla materia che abbiamo scelta) un fanciullo provvisto di quello che si chiama genio, ha meno bisogno di vedere, di quello che n'abbia un altro d'ingegno ottuso e torpido, per formarsi un'idea della bellezza umana; perchè concepisce più presto l'idea delle proporzioni determinate, mediante una più minuta ed attenta considerazione degli oggetti che vede, ed una più esatta comparazione di questi oggetti fra loro. Verbigrazia quel fanciullo d'ingegno [1191] torpido non si accorgerà della piccola differenza di struttura che è fra quella bocca o quella fronte che vede, e quelle ch'è accostumato a vedere. Un fanciullo d'ingegno fino, penetrante, arguto, riflessivo, cioè di organi delicati, mobili, rapidi, pieghevoli, pronti, si accorgerà o subito, o più presto, di detta differenza, e concepirà il senso e il giudizio della sproporzione, e della bruttezza; perchè gli oggetti che ha veduti gli ha osservati meglio, e osserva meglio questo che or vede, e gli uni e l'altro gli fanno o gli hanno fatto, più viva, più chiara e più costante impressione; dal che deriva la maggior facilità ed esattezza della comparazione ch'egli fa in questo punto; comparazione ch'è l'unica fonte dell'idea delle proporzioni e convenienze. Ecco tutto il genio. Così discorrete proporzionatamente di tutte le altre età, e di tutti gli altri oggetti e facoltà, e vedrete come il genio di qualunque sorta, non sia mai altro che una facoltà osservativa e comparativa, derivante dalla delicatezza, e più o meno perfetta struttura degli organi, che è quello che si chiama maggiore o minore ingegno.

II. Se un fanciullo ha dintorno a se persone o di forme notabilmente diverse, o di forme tutte brutte, e che tutte convengano in una certa specie di bruttezza, l'idea ch'egli si forma della bellezza, e della proporzione, è incertissima nel primo caso, e sta solamente sui generali (cioè su quelle sole proporzioni che sono comuni a tutte le persone che lo circondano): e nel secondo caso, egli concepisce espressamente per bello, quello [1192] ch'è brutto, e che poi col più e più vedere altre persone, arriva finalmente a riconoscere per brutto. Qui chiamo in testimonio l'esperienza di tutti gli uomini del mondo, acciò mi dicano quanto l'idea loro circa la bellezza e la bruttezza si sia venuta cambiando secondo l'età, cioè a misura dell'esperienza della loro vista: e come quasi tutti abbiano da fanciulli giudicate belle delle fisonomie, delle persone ec. che in altra età sono loro sembrate brutte, e tali sembravano anche agli altri. Il che deriva 1. dalla ragione ora detta, 2. dalla poca pratica di vedere che ristringeva la facoltà del loro giudizio, e l'idea che essi avevano delle proporzioni, limitandola necessariamente e in ogni caso, alla sola idea delle proporzioni generali e comuni a tutti gli uomini, 3. da circostanze affatto estrinseche al bello: per esempio la nostra balia ci par sempre bella, e così tutte quelle persone che ci accarezzano da fanciulli ec. ec. Allora il giudizio della bellezza era effetto di queste tali impressioni (e non del bello). E si giudicava poi bello appoco appoco, quello che somigliava a queste tali fisonomie, sulle quali ci eravamo formata l'idea del bello umano, ancorchè fossero bruttissime. E siccome le impressioni della fanciullezza sono vivissime, così per effetto loro, [1193] e delle così dette simpatie ed antipatie, che sono uno de' loro effetti, accade che per lungo tempo e forse sempre, ci troviamo inclinati a giudicare favorevolmente di persone bruttissime, ma somiglianti a quelle che da piccoli ci parvero belle, e massime di queste medesime; le quali, ancorchè brutte, non ci parranno mai più, brutte veramente; ma solo il nuovo abito di vedere, e quindi il nuovo modo che abbiamo contratto di giudicare della bellezza, ce le faranno giudicare, ma non parer brutte. E ci bisognerà sempre una riflessione, ed un confronto espresso colle nostre nuove idee del bello, per giudicar brutte quelle persone, che a prima vista, e senza considerazione, non ci parranno mai tali. Massime se il nostro ingegno è torpido e difficile a contrarre nuove abitudini: perchè nel caso contrario più facilmente ci riesce di formare intorno all'estrinseco di quelle persone un giudizio conforme alle nuove idee del bello che abbiamo acquistato colla maggiore esperienza de' sensi. Prove più certe che l'idea del bello non sia nè assoluta, nè innata, nè naturale, nè immutabile, nè dipendente da un tipo (col quale avremmo potuto paragonare quelle fisonomie), non credo che si possano desiderare.

[1194] III. L'uomo, se ben considereremo, non giudica mai della bellezza nè della bruttezza, se non comparativamente, e l'idea del bello è sempre comparativa e quindi relativa. Noi giudichiamo della bellezza estrinseca dell'uomo, sia reale, sia imitata, molto più finamente che di qualunque altro bello fisico. Perchè? Perchè naturalmente facciamo ed abbiamo fatto maggiore attenzione alle forme de' nostri simili, che di qualunque altro oggetto, e ne abbiamo notate le menome parti, le possiamo paragonare fra loro, e quelle di un individuo con quelle di un altro, o della generalità; e in questo modo, abbiamo distinta e minuta ed esatta l'idea acquisita delle proporzioni e convenienze relative alla figura dell'uomo, e delle sproporzioni e sconvenienze, che è quanto dire della bellezza e della bruttezza umana. Ma poniamo un individuo umano che non abbia mai veduto alcuno de' suoi simili. Egli non saprà giudicare della bruttezza o bellezza loro in nessun modo, quando ne vegga qualcuno, massimamente se ne vede qualcuno isolato. Se però egli non avrà posta molta attenzione alle sue proprie forme, alla sua fisonomia, specchiandosi per esempio nelle fontane ec. Ed allora il giudizio ch'egli porterà delle forme di quel tal uomo, sarà pur comparativo, cioè comparativo alla sua propria [1195] forma, e quindi non si accorderà col giudizio generale, o solamente a caso. E se egli avrà avuta molta pratica di qualche altra specie di animali, come cani o cavalli ec. egli sarà molto meglio a portata di giudicare della bellezza di questi, che di quella dell'uomo. E nel detto giudizio sarà meglio d'accordo col giudizio comune degli uomini. Dico degli uomini, e non già di quegli stessi animali, i quali, come gli uomini, ponendo maggiore attenzione alle forme de' loro simili, ne giudicano molto diversamente, e più distintamente ed esattamente degli uomini: in proporzione però della facoltà de' loro organi molto meno disposti o meno esercitati ad osservare, a paragonare, a riflettere, di quelli dell'uomo, e massime dell'uomo o del fanciullo incivilito più o meno. Bensì è vero che quel tal uomo che abbiamo supposto, si sentirà forse inclinato verso quel suo simile più di quello che fosse verso qualunque altra specie d'animali, con cui fosse addomesticato; e massimamente se quel suo simile è di diverso sesso. Ma questa è inclinazione materiale ed innata della natura sua, del tutto indipendente dall'idea del bello, e dal giudizio delle forme: è inclinazione e πάϑος ossia passione, e non idea. E questo tal uomo, vedendo molti suoi simili tutti in un tratto per la prima volta, non conoscerà fra loro, nelle loro forme e fisonomie ec. quasi alcuna differenza, come è già noto che accade per esempio all'Europeo che vede per la prima volta degli Etiopi, o de' Lapponi. Tutti gli paiono appresso a poco della stessa forma e fisonomia, e nessuno più bello nè più brutto [1196] degli altri. Questo appunto accade al fanciullo, nel primo veder uomini che gli accade, e va poi appoco appoco acquistando l'idea ed il senso della loro bellezza o bruttezza, per sola comparazione, cominciando a notare le minute parti, e paragonandole, e scoprendo le minute differenze negl'individui. Questo è ciò che ci accade negli animali, i quali tutti ci paiono appresso a poco per esempio della stessa fisonomia (dentro i limiti di una stessa specie); e quando anche facendoci l'occhio appoco appoco, arriviamo a portare un giudizio comparativo circa la bellezza comparativa delle loro forme, 1. questo ci accade solamente negli animali che più si trattano e più si osservano, come cavalli, cani, buoi ec. chè della bellezza per esempio del lione individuo, nessun uomo ch'io sappia, nè si arroga, nè pensa pure di giudicare: 2. questo giudizio è certo assai meno esatto di quello degli stessi animali di quella specie, ed è credibile che bene spesso sia contrarissimo al giudizio degli stessi animali, perchè noi giudichiamo delle loro forme colle idee che abbiamo delle proporzioni (diverse dalle loro), e comparativamente piuttosto ad altre specie, e ad altri oggetti, che alla propria specie loro, del che dirò poco appresso. Un bambino e un animale confondono facilmente un pupazzo, una statua, una pittura ec. cogli oggetti che rappresentano, perchè sopra questi hanno fatta poca osservazione: meno facilmente però, o meno durevolmente, se l'oggetto rappresentato è della propria specie e forma, perchè nella forma della loro specie hanno posta naturalmente più attenzione.

Quell'uomo che io ho supposto, se non avesse [1197] bene osservato il suo proprio colore, e vedesse un Nero e un Bianco allo stesso tempo, non saprebbe punto decidere qual de' due fosse più bello, nè qual de' due colori meglio convenisse alla specie umana. E se non avesse bene osservate le sue proprie forme, e vedesse al tempo stesso un Lappone, un italiano, un Patagone, non saprebbe decidere quale di queste tre forme fosse più bella, e non sentirebbe differenza di bellezza o bruttezza in nessuno di loro. Il che dimostra ch'egli non ha veruna regola o norma innata ed assoluta per giudicare del bello, neppure umano.

L'uomo non può mai formarsi l'idea di una bellezza isolata, vale a dire che il bello assoluto non esiste, nè altrove, nè nella idea, nella fantasia, nell'intelletto naturale e primitivo dell'uomo. Figuratevi che ci sia mostrato un oggetto forestiero, e che questo sia il primo e l'unico che noi vediamo nel suo genere. Noi o non giudichiamo in nessun modo della sua bellezza o bruttezza, nè la sentiamo; ovvero ne giudichiamo comparativamente ad altri generi di cose, e ad altre proporzioni, e così per lo più andiamo errati, e probabilmente giudicheremo brutto un oggetto che nel suo paese è giudicato bellissimo, e che lo è nel suo genere effettivamente; o viceversa. Figuratevi [1198] di vedere un uccello Americano di specie da voi non prima veduta. Questa è specie e non genere, e voi per giudicarne potete paragonarla alle altre specie di uccelli che conoscete. Tuttavia probabilmente sbaglierete il giudizio; voglio dire, per esempio vi parranno sproporzioni quelle che agli Americani assuefatti a vederne, parranno proporzioni, e bellezza: e viceversa agli Americani parranno sproporzionati e brutti molti uccelli di specie e di forme assai differenti dai loro, e ch'essi non sono accostumati a vedere. Così discorrete d'ogni sorta di oggetti o naturali o artifiziali.

E passando da queste osservazioni, al buono e al cattivo, vedrete come nessuna cosa possibile sia buona nè cattiva, nè più o meno perfetta ec. isolatamente, ma solo comparativamente; e che per conseguenza non esiste il buono nè il cattivo assoluto, ma solo il relativo.

Voglio prevenire un'obbiezione. Diranno che l'uomo naturalmente, e senza osservazione ed esame preferisce un altro uomo, o una donna giovane a una vecchia, e che quindi l'idea della bellezza è assoluta.

1. Potrei dire che al fanciullo non accade così prima di avere acquistata coll'esperienza de' sensi, [1199] la facoltà comparativa: ed aggiungerei che io mi ricordo di aver da fanciullo giudicato belli alcuni vecchi, e più belli ancora di altre persone ch'erano giovani. E ciò per le ragioni dette p. 1191. fine-1193.

2. Ma la vera e piena risposta è che questo non appartiene alla sfera della bellezza.

Il metafisico non deve lasciarsi imporre dai nomi, ma distinguere le diverse cose che si denotano sotto uno stesso nome. Vedi in tal proposito p. 1234-36. e specialmente p. 1237. Un colore isolato e vivo, che piace, si chiama bello, e non è. Un suono isolato che diletta, senza gradazioni nè armonia, non appartiene al bello. Bellezza non è altro che armonia e convenienza. Bruttezza è sproporzione e sconvenienza. Queste sono proposizioni non contrastate da nessun filosofo, per poco che abbia osservato. Quali cose si convengano o disconvengano insieme, si crede che la natura dell'uomo l'insegni, e che dipenda dall'ordine primordiale e necessario delle cose, e questo io lo nego. La quistione è qui. Dove non entra armonia nè convenienza, la quistione non entra. Una cosa che piace senza armonia nè convenienza, appartiene alla sfera di altri piaceri. Quel colore vivo, ci diletta, perchè i nostri organi son così fatti, che quella sensazione li solletichi gradevolmente. [1200] Questa è sensazione (dipendente dall'arbitrio della natura circa le quali cose sieno piacevoli a questa o a quella specie di esseri) e non idea; e quindi il detto piacere, benchè venga per la vista, non appartiene alla bellezza, più di quello che vi appartenga il piacere che dà un cibo alle papille del nostro palato, o il piacere venereo ec. (Lascio che anche questi tali piaceri non sono assoluti neppure dentro i limiti di una sola specie, anzi neppure di un solo individuo, e dipendono sommamente, almeno in gran parte, dall'assuefazione.) L'uomo è più inclinato al suo simile giovane, che al suo simile vecchio. Così anche gli altri animali. Questa non è idea, ma inclinazione, tendenza, e passione; ed è fuori della teoria del bello, perch'è fuori ancora della sfera dell'armonia. Le tendenze sono innate e comuni a tutti gli uomini; le idee no. Ma nel detto caso la mente non giudica; bensì il fisico dell'uomo si sente inclinato, e trasportato. Non tutti i piaceri che vengono per la vista appartengono alla bellezza, sebbene gli oggetti che producono i detti piaceri, si chiamano ordinariamente belli; ma quelli soli che derivano dall'armonia e convenienza, sì delle parti fra loro, sì del tutto col suo fine.

Io credo poi ancora che la stessa idea dell'uomo che le cose debbano convenire fra loro, non sia innata ma acquisita, e derivi dall'assuefazione in questo modo. Io sono avvezzo a vedere per esempio negli uomini [1201] le tali e tali forme. Se ne vedo delle differenti e contrarie, le chiamo sconvenienti, perchè elle mi producono un effetto contrario alla mia assuefazione. Sviluppate quest'idea. (20. Giugno 1821).

Perchè la parzialità è sempre odiosa e intollerabile, quando anche colui che favorisce o benefica alcuno più degli altri, non tolga niente agli altri del loro dovuto, nè di quello che darebbe loro in ogni caso, nè li disfavorisca in nessun modo? Per l'odio naturale dell'uomo verso l'uomo, inseparabile dall'amor proprio. E vedi in questo proposito la parabola del padre di famiglia e degli operai del Vangelo. (21. Giugno, dì del Corpus Domini. 1821). Vedi p. 1205. fine.

Alla p. 1114. verso il fine. Il Forcellini ora fa derivare i continuativi da' frequentativi, (come ductare da ductitare) ora questi da quelli. I continuativi da' frequentativi non derivano mai. Quanto ai frequentativi da' continuativi, io non nego che talvolta non possano essere derivati dai participi o supini di questi ultimi, cangiata l'a di detti participii o supini, in i, secondo quello che abbiamo stabilito p. 1154. Nel qual caso i verbi continuativi venivano a diventar positivi relativamente al frequentativo che se ne formava. Per esempio saltitare può forse anche venire da saltatus di saltare, cambiata l'a in i, ed essere frequentativo o diminutivo non di salire, ma di saltare, cioè ballare. Infatti esso non vale saltellare, ma ballonzare o ballonzolare. Questo però, posto che talvolta avvenga, avviene di rado, e la massima parte de' frequentativi derivano immediatamente da' positivi, e sono affatto indipendenti da' continuativi degli stessi verbi, o abbiano questi, o non abbiano continuativi. Ed è curioso che il Forcellini bene spesso chiama per esempio cursare frequentativo di currere, e cursitare che cosa? frequentativo di cursare. Vedi p.2011. (21. Giugno 1821).

[1202] Alla p.767. Le parole che per se stesse sono meri suoni, e così le lingue intere, in tanto sono segni delle idee, e servono alla loro significazione, in quanto gli uomini convengono scambievolmente di applicarle a tale e tale idea, e riconoscerle per segni di essa. Ora il principal mezzo di questa convenzione umana, in una società alquanto formata, si è la scrittura. Le lingue che o mancano o scarseggiano di questo mezzo di convenzione per intendersi, e spiegarsi distintamente, ed esprimere tutte le cose esattamente, restano sempre o affatto impotenti, o poverissime, e debolissime; e così accade a tutte le lingue finchè non sono estesamente applicate alla scrittura. Come convenire scambievolmente in tutta una nazione, di dare a quella tal parola quella tal significazione certa determinata e stabile, e di riconoscerla universalmente per segno di quella tal cosa o idea? Come arricchire la lingua, accrescere le significazioni di una stessa parola, stabilire l'uso e l'intelligenza comune di una metafora o traslato, dare alla lingua una tal facoltà di tale o tal formazione di voci o di modi che significhi regolarmente tale o tal altro genere di cose o idee? Come poi regolare ed uniformare e ridurre sotto leggi conformi in tutta la nazione la sintassi, le inflessioni dinotanti i diversi accidenti di una stessa parola, ec. ec.? Tutte queste cose sono impossibili [1203] senza la scrittura, perchè manca il mezzo di una convenzione universale, senza cui la lingua non è lingua ma suono. La viva voce di ciascheduno, poco ed a pochi si estende. Le scritture vanno per le mani di tutta la nazione, e durano anche dopo che quegli che le fece, non può più parlare. Gl'individui di una nazione non possono convenir tutti fra loro di veruna cosa a uno a uno. Ed un individuo, ancorchè di sommo ingegno, non può mettere in uso una parola, una frase, una regola di lingua, un significato, e renderne comune e stabilirne l'intelligenza colla sola sua voce, e favella (di cui tanto pochi e solo istantaneamente possono partecipare), se non lentissimamente e difficilissimamente. Ora le lingue le più estese sono sempre nate dall'individuo, e vi fu sempre il primo che inventò e pronunziò quella parola, quella frase, quel significato ec. In qualunque modo si sieno formate le lingue primitive, e gli uomini abbiano cominciato ad intendersi ed esprimersi scambievolmente mediante gli organi della favella, certo è che questo non è avvenuto se non a pochissimo per volta, sinchè una lingua non è stata applicata alla scrittura; perchè la convenzione individuale di ciascheduno, non può essere se non lentissima e difficilissima. Di più è certo che l'uso di tutte le lingue nel loro nascere fu ristretto [1204] a una piccolissima società, dove la convenzione era meno difficile, perchè fra un piccolo numero d'individui. Ma trattandosi di arricchire, accrescere, regolare, ordinare, perfezionare, e in qualunque modo migliorare una lingua già parlata da una nazione, dove la convenzione che deriva dall'uso è lentissima, difficilissima, e per lo più parziale e diversa, il principale e forse l'unico mezzo di convenzione universale (senza cui la lingua comune non può ricevere nè miglioramento nè peggioramento), è la scrittura, e fra le scritture quella che 1. va per le mano di tutti, 2. è conforme ne' suoi principii, e nelle sue regole, vale a dire la letteratura largamente considerata. Perchè la scrittura non letterata, o non importante in qualunque modo per se stessa, come lettere cioè epistole ec. ec. è soggetta quasi agli stessi inconvenienti della viva voce, cioè si comunica a pochi, (forse anche a meno di quelli a cui si comunica la voce di un individuo) e non è uniforme nè costante nelle sue qualità. Insomma si richiede un genere di scrittura che sia nazionale, e possa produrre, stabilire, regolare e mantenere la convenzione universale circa la lingua. (22. Giugno 1821).

Alla p. 1129. Bisogna notare che i gramatici e vocabolisti intorno a parecchi di questi e simili verbi e nomi portano opinione contraria al parer nostro, cioè fanno derivare i nomi da' verbi, come vedremo [1205] di lex da legere, e come rex da regere, laddove noi regere da rex, conforme porta la sana filosofia, e ideologia, e la considerazione del progresso naturale delle idee. Che certo molto prima ebbero gli uomini un nome da significare colui da cui veniva il comando, che un altro da significar l'azione stessa del comandare. L'idea dell'azione la più materiale, e per conseguenza l'idea espressa da' verbi, è sempre metafisica, e quindi posteriore a quella significata da' nomi. Vedi in proposito la p. 1388-91. Dico posteriore ad esser significata, non sempre però posteriore nella concezione; ma benchè anteriore nella concezione (come in questo esempio) l'uomo stabilì prima un segno per esprimere colui che la faceva, e che era materiale e visibile, (come il re, cioè quegli che comanda) di quello che arrivasse a fissare e determinare con un segno l'idea metafisica di ciò che questi faceva. Perchè questa idea benchè seconda nell'ordine, fu la prima idea ch'egli concepisse chiaramente, in modo da poterla determinare e circoscrivere con un segno. Così che ella è anteriore come idea chiara, benchè posteriore come idea semplicemente. E quello che bisogna cercare in riguardo alle lingue è l'ordine e la successione non delle idee assolutamente ma delle idee chiare che l'uomo ha concepite, giacchè queste sole egli ha potuto e può significare. Vedi Sulzer p. 53. Ma bisogna perdonare ai gramatici se finora non sono stati ideologi; bensì non bisogna che il filologo illuminato dalla filosofia, si lasci imporre dalla loro opinione in quelle cose che ripugnano all'analisi e alla scienza dell'umano intelletto. (22. Giugno 1821).

Alla p. 1201. Ho già detto altrove di una donna sterile che bastonava una cavalla pregna dicendo, [1206] Tu gravida, e io no? Io credo che un padre storpio difficilmente possa vedere con compiacenza i suoi figli sani, e non provare un certo stimolo a odiarli, o una difficoltà ad amarli, che facilmente si convertirà in odio, e riceverà poi scioccamente il nome di antipatia, quasi fosse una passione innata, e senza causa morale. Del che si potrebbero portare infinite prove di fatto, come dell'odio delle madri brutte verso le figlie belle, e delle persecuzioni che bene spesso fanno per tal cagione a giovani innocentissime, senza che nè queste nè esse medesime vedano bene il perchè. Così de' padri di poco ingegno o in qualunque modo sfortunati, verso i figli di molto ingegno, o in qualunque modo avvantaggiati su di loro. Così (e questa è cosa generalissima) de' vecchi verso i giovani (siano anche loro figliuoli, (anzi massimamente in simili casi) e femmine o maschi ec. ec.); ogni volta che i vecchi non hanno deposto i desiderii giovanili, ed ogni volta che i giovani, ancorchè innocentissimi ed ottimi, non si conducano da vecchi. Così tra fratelli e sorelle ec. ec. Tanto naturalmente l'amor proprio inseparabile dai viventi, produce e quasi si trasforma nell'odio degli altri oggetti, anche di quelli che la natura ci ha maggiormente raccomandati (al nostro stesso amor proprio) e resi più cari. (22. Giugno 1821).

[1207] Quante cose si potrebbero dire circa l'infinita varietà delle opinioni e del senso degli uomini, rispetto all'armonia delle parole. Lascio i diversissimi e contrarissimi giudizi dell'orecchio sulla bellezza esterna delle parole, secondo le diversissime lingue, climi, nazioni, assuefazioni; ed intorno alla dolcezza, alla grazia, sì delle parole, che delle lettere e delle pronunzie ec. In un luogo parrà graziosa una pronunzia forestiera, in un altro sgraziata quella, e graziosa un'altra pur forestiera; secondo i differenti contrasti colle abitudini di ciascun paese o tempo, contrasti che ora producono il senso della grazia, ora l'opposto ec. ec. Vedi p. 1263. Lascio le differentissime armonie de' periodi della prosa parlata o scritta, secondo, non solamente le diverse lingue e nazioni e climi, ma anche i diversi tempi, e i diversi scrittori o parlatori d'una stessa lingua e nazione, e d'un medesimo tempo. Osserverò solo alcune cose relative all'armonia de' versi. Un forestiero o un fanciullo balbettante, sentendo versi italiani, non solo non vi sente alcun diletto all'orecchio, ma non si accorge di verun'armonia, nè li distingue dalla prosa; se pure non si accorge e non prova qualche piccolo, anzi menomo diletto nella conformità regolare della loro cadenza, cioè nella rima. La quale sarebbe sembrata spiacevolissima e barbara agli antichi greci e latini, ec. alle cui lingue si poteva adattare niente meno che alle nostre, ed a quelle stesse forme di versi che usavano, che bene spesso o somigliano, o sono a un dipresso le medesime che parecchie delle nostre, massimamente italiane. E di più sarebbe stata loro più facile, stante il maggior numero di consonanze che avevano, ed anche [1208] il maggior numero di parole, considerando se non altro (per non entrare adesso nel paragone della ricchezza) l'infinita copia e varietà delle inflessioni di ciascun loro verbo o nome ec. Così che avrebbero potuto usar la rima meglio di noi, e più gradevolmente, cioè più naturalmente, forzando meno il senso, il verso, l'armonia della sua struttura, il ritmo, ec. E nondimeno la fuggivano tanto quanto noi la cerchiamo, ed a noi stessi, avvezzi all'armonia de' loro versi, parrebbero barbari e disgustosi ponendovi la rima.

Se esistesse un'assoluta armonia, cioè a dire un'assoluta convenienza e relazione fra i suoni articolati, e se i versi italiani (che è pur la lingua e la poesia stimata la più armonica del mondo) fossero assolutamente armoniosi, lo sentirebbe tanto il forestiero e il fanciullo ignorante della lingua, quanto l'italiano adulto nè più nè meno. E se quest'assoluta armonia, e questi versi assolutamente armonici fossero assoluta e natural cagione di diletto per se stessi, lo sarebbero universalmente, e non più all'italiano che allo straniero e al fanciullo.

Tutti coloro che non sanno il latino o il greco, di qualunque nazione sieno, non sentono armonia veruna ne' versi latini o greci, se pur non sono assuefatti lungamente ad udirne per qualsivoglia circostanza, [1209] ed allora notandone appoco [appoco] le minute parti, e le minute corrispondenze, e relazioni, e regolarità, non si formano l'orecchio a sentirne e gustarne l'armonia. Il qual processo è necessario anche a chi meglio intenda il latino ed il greco.

Il nostro volgo trova una certa armonia negl'inni ecclesiastici ec. e nessuna ne troverebbe in Virgilio. Perchè? perchè gl'inni ecclesiastici somigliano sì per la struttura, l'andamento e il metro, sì bene spesso per la rima, ai versi italiani che il volgo pure è avvezzo a udire e cantare per le strade. E poi, perch'egli è avvezzo ad udire appunto quei tali barbari versi e metri latini.

Un italiano assai colto, ma non avvezzo a legger poesia nostra, leggendogli una canzone del Petrarca, mi disse quasi vergognandosi, che trovava privo d'armonia quel metro, e che il suo orecchio non ne era punto dilettato. Il qual metro somiglia a quello delle odi greche composte di strofe, di antistrofe, e d'epodo, ed ha un'armonia così nobile e grave, ed atto alla lirica sublime. Soggiunse ch'egli non sentiva il diletto dell'armonia fuorchè nelle ottave, e in qualcuno de' nostri metri che chiamiamo anacreontici. Notate ch'egli non aveva punto [1210] quell'orecchio che si chiama cattivo.

Domandate a un francese, ancorchè bene istruito dell'italiano o dell'inglese, s'egli sente verun'armonia ne' versi sciolti più belli, o ne' versi bianchi degl'inglesi.

Ciascuna nazione ha avuto ed ha i suoi metri particolari, tanto per la struttura di ciascun verso, quanto per la loro combinazione, disposizione e distribuzione, ossia per le strofe ec. E questi in proporzione della differenza maggiore o minore de' climi, opinioni, assuefazioni, tempi (giacchè le stesse nazioni altri n'avevano anticamente, altri poi, altri oggi) ec. ec. sono diversissimi, e spesso affatto o inarmonici, o disarmonici per gli stranieri, secondo la misura dell'essere straniero, come noi verso i francesi dall'una parte, dall'altra verso gli orientali ec. ec. È impossibile allo straniero il sentirvi armonia nè diletto, senza una di queste condizioni 1. lungo uso di quella lingua; ma non basta, anzi è nullo quest'uso, se non vi si aggiunge il lungo uso di quella poesia. 2. somiglianza o affinità di quei metri co' metri della propria nazione; come fra quelli degl'italiani e degli spagnuoli. La difficoltà del sentire l'armonia de' versi stranieri è maggiore o minore in proporzione ch'ella è più o meno diversa dall'armonia de' nostrali, o da quella o quelle a cui siamo avvezzi. 3. abito fatto ad altre armonie forestiere affini a quella di cui si tratta. 4. orecchio esercitato a tante e sì diverse armonie, che mediante una forza riflessiva, osservativa, e comparativa straordinariamente accresciuta, sia in grado di avvertire e conoscere o subito o ben presto la natura di quelle combinazioni forestiere, gli elementi di quell'armonia, e il ritorno de' loro regolati rapporti rispettivi; sia in grado di assuefar presto l'orecchio, ed abbia una facilità di contrarre abitudine, ch'è propria degli animi e degl'ingegni pieghevoli e adattabili, cioè in somma de' grandi ingegni; ec. ec. e possa in poco tempo arrivare a [1211] scoprire e discernere in detta armonia quello che i nazionali ci scuoprono.

È impossibile al nazionale avvezzo, e formato l'orecchio all'armonia de' suoi metri, per quanto sia chiamata barbara, dura, dissonante ec. dagli stranieri, il non sentirla meglio, e il non trovarla più dilettevole di qualunque altra armonia forestiera, ancorchè giudicata bellissima ec. Fuorchè formando (che è difficilissimo e forse non accade mai) un'assuefazione nuova che vinca la passata.

Chi di noi sente l'armonia de' versi orientali, o delle strofe loro? Non parlo de' versi tedeschi o inglesi, o della prosa tedesca misurata ec. in ordine agl'italiani. I quali molto più presto e facilmente riconoscono un'armonia ne' versi francesi, perchè lingua ed armonia più affine alla loro.

Si pretende, ed è probabilissimo che parecchi libri scritturali sieno metrici. Ma in quali metri sieno composti nessuno l'ha trovato, benchè molti l'abbiano cercato. E non si potrà mai trovare se non a caso, non essendoci regola che c'insegni qual fosse quella che agli Ebrei pareva armonia rispetto alle parole. E ciò per qual altra ragione, se non perchè non esiste armonia assoluta? Se esistesse, la regola sarebbe trovata, massime esistendo tutte intere e ordinate quelle parole, che si pretendono aver formato un'armonia. [1212] (23. Giugno 1821). Vedi p. 1233. fine.

Alla p. 1155. Alle volte, anzi bene spesso dinotano l'appoco appoco, il corso il progresso dell'azione, per lo più lento, anzi hanno forza bene spesso di esprimere appunto la lentezza dell'azione, e non si usano ad altro fine. Ovvero esprimono formalmente la debolezza dell'azione, ed hanno come una forza diminutiva uguale o simile a quella de' verbi latini terminati in itare. Hanno simili modi anche gli spagnuoli e francesi, e gli adoprano in simili significati. (24. Giugno 1821). Vedi p. 1233. capoverso 2.

Non è ella cosa notissima, comunissima, frequentissima, e certa per la esperienza quasi di ciascuno, che certe persone che da principio, o vedendole a prima giunta, ci paion brutte, appoco appoco, assuefacendoci a vederle, e scemandosi coll'assuefazione il senso de' loro difetti esteriori, ci vengono parendo meno brutte, più sopportabili, più piacevoli, e finalmente bene spesso anche belle, e bellissime? E poi perdendo l'assuefazione di vederle, ci torneranno forse a parer brutte. Così dico di ogni altro genere di oggetti sensibili o no. Molti de' quali che per una primitiva assuefazione di vederli e trattarli ci parvero belli da principio, cioè prima di esserci formata un'idea distinta e fissa del bello; veduti poi dopo lungo intervallo, ci paiono brutti e bruttissimi. Che vuol dir ciò? Se esistesse un bello assoluto, la sua idea sarebbe continua, indelebile, inalterabile, uniforme in tutti gli uomini, nè si potrebbe o perdere o acquistare, o indebolire o rinforzare, o minorare o accrescere, [1213] o in qualunque modo cambiare (e cambiare in idee contrarie, come abbiamo veduto) coll'assuefazione, dalla quale non dipenderebbe. (24. Giugno 1821).

Da qualche tempo tutte le lingue colte di Europa hanno un buon numero di voci comuni, massime in politica e in filosofia, ed intendo anche quella filosofia che entra tuttogiorno nella conversazone, fino nella conversazione o nel discorso meno colto, meno studiato, meno artifiziato. Non parlo poi delle voci pertinenti alle scienze, dove quasi tutta l'Europa conviene. Ma una grandissima parte di quelle parole che esprimono cose più sottili, e dirò così, più spirituali di quelle che potevano arrivare ad esprimere le lingue antiche e le nostre medesime ne' passati secoli; ovvero esprimono le stesse cose espresse in dette lingue, ma più sottilmente e finamente, secondo il progresso e la raffinatezza delle cognizioni e della metafisica e della scienza dell'uomo in questi ultimi tempi; e in somma tutte o quasi tutte quelle parole ch'esprimono precisamente un'idea al tempo stesso sottile, e chiara o almeno perfetta ed intera; grandissima parte, dico, di queste voci, sono le stesse in tutte le lingue colte d'Europa, eccetto piccole modificazioni particolari, per lo più nella desinenza. Così che vengono a formare una specie di piccola lingua, o un vocabolario, strettamente universale. E dico strettamente universale, cioè non come è universale la lingua francese, ch'è lingua secondaria [1214] di tutto il mondo civile. Ma questo vocabolario ch'io dico, è parte della lingua primaria e propria di tutte le nazioni, e serve all'uso quotidiano di tutte le lingue, e degli scrittori e parlatori di tutta l'Europa colta. Ora la massima parte di questo Vocabolario universale manca affatto alla lingua italiana accettata e riconosciuta per classica e pura; e quello ch'è puro in tutta l'Europa, è impuro in Italia. Questo è voler veramente e consigliatamente metter l'Italia fuori di questo mondo e fuori di questo secolo. Tutto il mondo civile facendo oggi quasi una sola nazione, è naturale che le voci più importanti, ed esprimenti le cose che appartengono all'intima natura universale, sieno comuni, ed uniformi da per tutto, come è comune ed uniforme una lingua che tutta l'Europa adopera oggi più universalmente e frequentemente che mai in altro tempo, appunto per la detta ragione, cioè la lingua francese. E siccome le scienze sono state sempre uguali dappertutto (a differenza della letteratura), perciò la repubblica scientifica diffusa per tutta l'Europa ha sempre avuto una nomenclatura universale ed uniforme nelle lingue le più difformi, ed intesa da per tutto egualmente. Così sono oggi uguali (per necessità e per natura del tempo) le cognizioni metafisiche, filosofiche, politiche ec. la cui massa e il cui sistema semplicizzato e uniformato, è comune oggi [1215] più o meno a tutto il mondo civile; naturale conseguenza dell'andamento del secolo. Quindi è ben congruente, e conforme alla natura delle cose, che almeno la massima parte del vocabolario che serve a trattarle ed esprimerle, sia uniforme generalmente, tendendo oggi tutto il mondo a uniformarsi. E le lingue sono sempre il termometro de' costumi, delle opinioni ec. delle nazioni e de' tempi, e seguono per natura l'andamento di questi.

Diranno che buona parte del detto vocabolario deriva dalla lingua francese, e ciò stante la somma influenza di quella lingua e letteratura nelle lingue e letterature moderne, cagionata da quello che ho detto altrove. Ma venisse ancora dalla lingua tartara, siccome l'uso decide della purità e bontà delle parole e dei modi, io credo che quello ch'è buono e conveniente per tutte le lingue d'Europa, debba esserlo (massime in un secolo della qualità che ho detto) anche per l'Italia, che sta pure nel mezzo d'Europa, e non è già la Nuova Olanda, nè la terra di Jesso. E se hanno accettate, ed usano continuamente le dette voci, quelle lingue Europee che non hanno punto che fare colla francese, quanto più dovrà farlo, e più facilmente, e con più naturalezza e vantaggio la nostra lingua, ch'è sorella carnale della francese? Le origini di dette parole, a noi [1216] riescono familiari e domestiche, perchè in gran parte derivano dal latino, benchè applicate ad altre significazioni che non avevano, nè potevano aver nel latino, mancando i latini di quelle idee. Spessissimo vengono dal greco, che a noi non è più, anzi meno alieno, di quello che sia alle altre lingue colte moderne. Spesso sono interamente italiane cioè stanno già materialmente nel nostro linguaggio, benchè in significato diverso, e meno sottile, o meno preciso, perchè i nostri antichi non poterono aver quelle idee, che oggi abbiamo noi, non perciò meno italiani di loro, nè quelle idee sono meno italiane perchè i nostri antichi non le arrivarono a concepire, o solo confusamente, secondo la natura de' tempi, e lo stato dello spirito umano.

Si condannino (come e quanto ragion vuole) e si chiamino barbari i gallicismi, ma non (se così posso dire) gli europeismi, che non fu mai barbaro quello che fu proprio di tutto il mondo civile, e proprio per ragione appunto della civiltà, come l'uso di queste voci che deriva dalla stessa civiltà e dalla stessa scienza d'Europa.

Osservate per esempio le parole genio, sentimentale, dispotismo, analisi, analizzare, demagogo, fanatismo, originalità ec. e tante simili che tutto il mondo intende, tutto il mondo adopera in una stessa e precisa significazione, e il solo italiano non può adoperare (o non può in quel significato), perchè? perchè i puristi le scartano, e perchè i nostri antichi, non potendo aver quelle idee, non poterono pronunziare nè scrivere quelle parole in quei sensi. Ma così accade in ordine alle stesse parole, a tutte le lingue del mondo che pur non hanno scrupolo di adoperarle. Piuttosto avrebbero scrupolo e vergogna di non saper esprimere un'idea chiara per loro, e chiara per tutto [1217] il mondo civile, mentre per la espressione delle idee chiare son fatte e inventate e perfezionate le lingue. Come infatti noi, non volendo usar queste parole, non possiamo esprimere le idee chiare che rappresentano, o dobbiamo esprimere delle idee chiare e precise (e ciò nella stessa mente nostra), confusamente e indeterminatamente: e poi diciamo che l'italiano è copiosissimo, e basta a tutto, ed avanza. Sicchè bisogna tacere, o scriver cose da bisavoli, e poi lagnarsi che l'italiana letteratura e filosofia resta un secolo e mezzo addietro a tutte le altre. E come no, senza la lingua?

Aggiungo che quando anche potessimo ritrovare nel nostro Vocabolario o nella nostra lingua, o formare da essa lingua altre parole che esprimessero le stesse idee, bene spesso faremmo male ad usarle perchè non saremmo intesi nè dagli stranieri, nè dagli stessi italiani, e quell'idea che desteremmo non sarebbe nè potrebbe mai esser precisa; e non otterremmo l'effetto dovuto e preciso di tali parole, che è quanto dire, le useremmo invano, o quasi come puri suoni.

1. Fu tempo dove agli uomini ed agli scrittori bastava di giovare, di farsi intendere, di rendersi famosi dentro i limiti della propria nazione. Ma oggi, nello stato d'Europa che ho detto di sopra, non acquista fama nè grande nè durevole quello scrittore il cui nome e i cui scritti non passano i termini del [1218] proprio paese. Nè in questa presente condizione di cose può molto e immortalmente giovare alla sua patria chi non viene almeno indirettamente a giovare più o meno anche al resto del mondo civile. Nel rimanente quella gloria o quel nome che fu ristretto a una sola nazione fu sempre, ed anche anticamente poco durevole, nella stessa nazione ancora. Fra mille esempi, basti nominare i Bardi; molti de' quali si sa confusamente e genericamente che furono famosissimi nelle loro nazioni, ed oggi per esempio nella Scozia appena resta il nome e la memoria oscura di pochissimi degli stessi antichi Bardi Scozzesi. Quello che dico degli scrittori, dico anche degli altri generi di persone famose ec. ma degli scrittori in maggior grado, perchè i fatti degli uomini poco durano, e poco si possono stendere ma le voci e i pensieri loro consegnati agli scritti, sopravvivono lunghissimo tempo, e possono giovare a tutta l'umanità; nè lo scrittore, massimamente in questo presente stato del mondo, si deve contentare della utilità della sua sola patria, potendo con quel medesimo che impiega per lei, proccurare il vantaggio di tutte le altre nazioni.

2. Ho detto che difficilmente ci faremmo intendere, e susciteremmo precisamente l'idea che vorremmo significare, e che è precisamente espressa dalle parole [1219] corrispondenti già usitate in Europa. La filosofia (con tutti quanti i diversissimi suoi rami) è scienza. Tutte le scienze giunte ad un certo grado di formazione e di stabilità hanno sempre avuto i loro termini, ossia la loro propria nomenclatura, e così propria, che volendola cambiare, si sarebbe cambiato faccia a quella tale scienza. Com'è avvenuto che la rinnovazione della Chimica, ha portato la rinnovazione della sua nomenclatura, e di tutta quella parte di nomenclatura fisica o d'altre scienze, che apparteneva, o era influita dalle cognizioni chimiche vecchie o nuove. E la nomenclatura di qualunque scienza è stata sempre così legata con lei, che dovunque ell'è entrata, v'è anche entrata quella stessa nomenclatura, comunque e dovunque formata, e comunque pur fosse inesatta nell'etimologie ec. purchè fosse esatta nell'intendimento e nel senso che le si attribuiva. La Chimica ha nuova nomenclatura, perch'è scienza nuova e diversa dall'antica. E così accade alle altre scienze quando si rinnuovano o in tutto o in parte. Perdono l'antica nomenclatura, e ne acquistano altra, che diviene però universale come la prima. E quando fra diverse e lontane nazioni poco note o strette fra loro, trovate differenza di nomenclatura in una medesima scienza, certo è che quella scienza è diversa notabilmente nelle rispettive nazioni e lingue. Vedi p. 1229. Quindi i termini di tutte le scienze, esatte o no, ma alquanto stabilite sono stati sempre universali, nè sarebbe mai possibile nel trattarle, l'adoperare altri termini da quelli universalmente conosciuti, intesi e adoperati, senza nuocere sommamente alla chiarezza, e toglier via la precisione. La qual precisione non deriva propriamente e principalmente da altro se non dalla convenzione che applica a quella parola quel preciso significato, bene spesso metaforico, ma passato in proprissimo. Mutando la parola, è tolta via la forza della convenzione, e quindi, benchè la nuova parola equivalga quanto alla sua origine, alla sua proprietà intrinseca ec. non equivale quanto all'effetto, perchè il [1220] lettore o uditore non concepisce più quell'idea precisa e netta che concepiva mediante la parola usitata, la qual era aiutata dalla convenzione, o sia dall'assuefazione di attribuirgli e d'intenderla in quel preciso significato. Converrebbe rinnovare appoco appoco l'assuefazione, applicandola a queste nuove parole, il che porterebbe necessariamente un lungo intervallo di oscurità e confusione nella intelligenza degli scrittori, finchè la nuova nomenclatura non arrivasse a prendere nella mente nostra in tutto e per tutto il posto dell'usitata, e a farvi, per così dire, quel letto che questa vi aveva già fatto. Nè questo sarebbe il solo danno, o difficoltà; ma converrebbe che questa nuova nomenclatura diventasse universale, altrimenti restringendosi a una sola nazione o lingua, ne seguirebbero i danni che ho specificati all'articolo 1. e le nazioni non s'intenderebbero fra loro nelle idee che denno essere da per tutto egualmente precise, e precisamente intese. E se una sola fosse la nazione che in qualunque scienza avesse una nomenclatura diversa dalle altre nazioni, quella nazione in ordine a quella scienza sarebbe come fuori del mondo e del secolo, tanto per l'effetto de' suoi scrittori sugli stranieri, quanto (ch'è peggio) per l'effetto degli scrittori stranieri su di lei. [1221] Posto poi il caso ch'ella arrivasse a rendere quella nomenclatura universale, ognun vede che siamo da capo colla quistione, e che la universalità resterebbe, e solo avrebbe fatto passaggio inutilmente (e con danno temporaneo) da una ad altra nomenclatura: ed allora io dico che sarebbe pazzo quello scrittore o quel paese che non vi si volesse uniformare.

La filosofia dunque ha i suoi termini come tutte le altre scienze. E siccome l'odierna filosofia è così 1. raffinata, 2. dilatata nelle sue parti e influenze, così che si può dire che tutta la vita umana oggi è filosofica, o almeno è tutta soggetta alle speculazioni della filosofia; perciò accade che i termini filosofici sieno moltissimi, e cadano spessissimo nel discorso familiare, e regnino in grandissima parte delle cognizioni, delle discipline, degli scritti presenti. E perchè questi termini, come ho detto, sono in gran parte uniformi per tutta Europa, perciò oggi il linguaggio di tutta Europa nelle espressioni delle idee sottili o sottilmente considerate, è presso a poco uniforme, anche nella conversazione.

Ed è ben ragionevole che la filosofia divenuta scienza così profonda, sottile, accurata, ed appresso a poco uniforme e concorde da per tutto (a differenza delle antiche filosofie), e, quel ch'è notabilissimo nel nostro proposito, sempre più chiara e certa nelle sue nozioni, e determinata, abbia [1222] i suoi termini stabili e universalmente uniformi, massime in tanta uniformità, e stretto commercio d'Europa: quando anche le vecchie, informi ed oscure, incerte, mal determinate, e sciocche filosofie che s'insegnavano nelle scuole, ebbero la loro nomenclatura stabile e universale, fuor di cui non sarebbero state intese in nessuna parte d'Europa, benchè tanto meno uniforme ed unita fra se. Di questi termini dell'antica filosofia, di questi termini scolastici universalmente adoperati ne' bassi tempi e fino agli ultimi secoli, abbonda la lingua italiana. E perchè ebbero la fortuna d'essere usati da' nostri vecchi, perciò questi termini, quantunque derivati da barbare origini, e appartenenti a scienze che non erano scienze, si chiamano purissimi in Italia; e i termini dell'odierna filosofia, derivati dalla massima civiltà d'Europa, appartenenti alla prima delle scienze, e questa condotta a sì alto grado, si chiamano impurissimi, perchè ignoti agli antichi; quasi che a noi toccasse il venerare e il conservare, e non lo scusare per l'una parte, per l'altra discacciare l'ignoranza antica. E che l'ignoranza de' passati dovesse esser la misura e la norma del sapere dei presenti.

[1223] Se dunque l'odierna filosofia, quella filosofia che abbraccia per così dire tutto questo secolo, tutte le cose e tutte le cognizioni presenti, ha e deve avere i suoi termini costanti, ed uniformi in qualunque luogo ella è trattata, noi dobbiamo adottarli ed usarli, e conformarci a quelli che tutto il mondo usa. E non è più tempo di cambiarli, e formarci una nomenclatura filosofica italiana, cioè cavata tutta dalle fonti della nostra lingua. Questo avrebbe potuto essere, se la massima parte dell'odierna filosofia fosse derivata dall'Italia. Ed allora le altre nazioni, senza veruna ripugnanza avrebbero usata nella filosofia, la nomenclatura fabbricata in Italia. Ma avendo lasciato far tutto agli stranieri, ed arrivar questa scienza a sì alto grado senza quasi nessuna opera nostra, o dobbiamo seguitare a non curarla, ignorarla, e non trattarla; o volendo trattarla ci conviene adottare quella nomenclatura che troviamo già stabilita e generalmente intesa, fuor della quale non saremmo bene intesi nè dagli stranieri, nè da' nostri medesimi, come apparisce dalle sopraddette ragioni. Alle quali aggiungo come corollario, dimostrato dal fatto, che tutte quelle parole che [1224] hanno espressa precisamente e sottilmente un'idea sottile e precisa, di qualunque genere, e in qualunque ramo delle cognizioni, sono state o sempre o quasi sempre universali, ed usate in qualsivoglia lingua da tutti quelli che hanno concepita e voluta significare quella stessa idea strettamente. E quella tale idea è passata dal primo individuo che la concepì chiaramente, agli altri individui, e alle altre nazioni, non altrimenti che in compagnia di quella tal parola. Appunto perchè questa fina precisione di significato, non deriva nè può derivare se non da una stretta e appositissima convenzione, difficilissima a rinnovare, e a moltiplicare secondo le lingue.

Per tutte queste ragioni, sarebbe opera degna di questo secolo, ed utilissima alle lingue non meno che alla filosofia, un Vocabolario universale Europeo che comprendesse quelle parole significanti precisamente un'idea chiara, sottile, e precisa, che sono comuni a tutte o alla maggior parte delle moderne lingue colte. E massimamente quelle parole che appartengono a tutto quello che oggi s'intende sotto il nome di filosofia, ed a tutte le cognizioni ch'ella abbraccia. Giacchè le scienze materiali, o le scienze esatte non hanno tanto bisogno di questo servigio, essendo bastantemente riconosciute e fisse le loro nomenclature, e le idee che queste significano non essendo così facili [1225] o a sfuggire, o ad oscurarsi e confondersi e divenire incerte e indeterminate, come quelle della filosofia. Dovrebbe chi prendesse questo assunto definire e circoscrivere colla possibile diligenza il significato preciso di tali parole o termini, e recarne dalle diverse lingue dov'elle sono in uso, esempi giudiziosamente scelti di scrittori veramente accurati e filosofi, e massime quegli esempi dov'è contenuta una definizione filosofica dell'idea significata dalla parola; esempi che non sarebbero difficili a trovarsi in tanta copia di scrittori profondissimi e sottilissimi e acutissimi di questo e del passato secolo, e anche del precedente. In maniera simile si contenne Samuele Johnson nel Dizionario della lingua inglese, lingua che sa veramente esser filosofica, ed abbonda di scrittori di tal genere. Se il compilatore di tal Dizionario fosse italiano, ci renderebbe anche gran servigio, ponendovi gli esempi de' migliori italiani che hanno trattato simili materie; e in caso che si trovassero voci italiane perfettamente corrispondenti, sia nel Vocabolario nostro sia ne' nostri buoni scrittori qualunque, sia nell'uso, farebbe utilissima cosa, ponendole a fronte ec. con che verrebbe a fare un Vocabolario italiano filosofico, cosa veramente da sospirarsi, e per conoscere e per mostrare e per usare le nostre ricchezze, se ne abbiamo.

Questo Vocabolario che sarebbe utilissimo a tutta l'Europa, lo sarebbe massimamente all'Italia, la quale dovrebbe vedere quanta copia di parole che tutta l'Europa pronunzia e scrive, e riconosce per necessarie, ella disprezzi e proscriva, senz'averne alcuna da surrogar loro. E la lingua italiana dovrebbe adottare le dette voci senza timore di corrompersi più di quello che si sieno corrotte coll'adottarle, [1226] tutte le altre lingue europee. E non dovrebbe volere, anzi vergognarsi, che un tal vocabolario essendo Europeo, non fosse italiano quasi che l'italiano non fosse Europeo, nè di questo secolo ec. E dovrebbe riconoscerle per voci nobilissime, perchè inseparabilmente spettanti e legate alla più nobile delle scienze umane ch'è la filosofia. Vedi p. 1231. fine.

Con ciò non vengo mica a dire ch'ella debba, anzi pur possa adoperare, e molto meno profondere siffatte voci nella bella letteratura e massime nella poesia. Non v'è bontà dove non è convenienza. Alle scienze son buone e convengono le voci precise, alla bella letteratura le proprie. Ho già distinto in altro luogo le parole dai termini, e mostrata la differenza che è dalla proprietà delle voci alla nudità e precisione. È proprio ufficio de' poeti e degli scrittori ameni il coprire quanto si possa le nudità delle cose, come è ufficio degli scienziati e de' filosofi il rivelarla. Quindi le parole precise convengono a questi, e sconvengono per lo più a quelli; a dirittura l'uno a l'altro. Allo scienziato le parole più convenienti sono le più precise, ed esprimenti un'idea più nuda. Al poeta e al letterato per lo contrario le parole più vaghe, ed esprimenti idee più incerte, o un maggior numero d'idee ec. Queste almeno gli denno esser le più care, e quelle altre che sono l'estremo opposto, le più odiose. Vedi p. 1234. capoverso 1. e 1312. capoverso 2. Ho detto e ripeto che i termini in letteratura e massime in poesia faranno sempre pessimo e bruttissimo effetto. Qui peccano assai gli stranieri, e non dobbiamo imitarli. Ho detto che la lingua francese (e intendo quella della letteratura e della poesia) si corrompe per la profusione de' termini, ossia delle voci di nudo e secco significato, perch'ella si compone oramai tutta quanta di termini, abbandonando e dimenticando le parole: che noi non dobbiamo mai nè [1227] dimenticare nè perdere nè dismettere, perchè perderemmo la letteratura e la poesia, riducendo tutti i generi di scrivere al genere matematico. Le dette voci ch'io raccomando alla lingua italiana, sono ottime e necessarie, non sono ignobili, ma non sono eleganti. La bella letteratura alla quale è debito quello che si chiama eleganza, non le deve adoperare, se non come voci aliene, e come si adoprano talvolta le voci forestiere, notando ch'elle son tali, e come gli ottimi latini scrivevano alcune voci in greco, così per incidenza. I diversi stili domandano diverse parole, e come quello ch'è nobile per la prosa, è ignobile bene spesso per la poesia, così quello ch'è nobile ed ottimo per un genere di prosa, è ignobilissimo per un altro. I latini ai quali in prosa non era punto ignobile il dire per esempio tribunus militum o plebis, o centurio, o triumvir ec. non l'avrebbero mai detto in poesia, perchè queste parole d'un significato troppo nudo e preciso, non convengono al verso, benchè gli convengano le parole proprie, e benchè l'idea rappresentata sia non solo non ignobile, ma anche nobilissima. I termini della filosofia scolastica, riconosciuti dalla nostra lingua per purissimi, sarebbero stati barbari nell'antica nostra poesia, come nella moderna, ed anche nella prosa elegante, s'ella gli avesse adoperati come parole sue proprie. [1228] E se Dante le profuse nel suo poema, e così pur fecero altri poeti, e parecchi scrittori di prosa letteraria in quei tempi, ciò si condona alla mezza barbarie, o vogliamo dire alla civiltà bambina di quella letteratura e di que' secoli, ch'erano però purissimi quanto alla lingua. Ma altro è la purità, altro l'eleganza di una voce, e la sua convenienza, bellezza, e nobiltà, rispettiva alle diverse materie, o anche solo ai diversi stili: giacchè anche volendo trattar materie filosofiche in uno stile elegante, e in una bella prosa, ci converrebbe fuggir tali termini, perchè allora la natura dello stile domanda più l'eleganza e bellezza che la precisione, e questa va posposta. (Del resto in tal caso, la filosofia è l'uno de' principali pregi della letteratura e poesia, sì antica che moderna, atteso però quello che ho detto p. 1313. la quale vedi.) Io dico che l'Italia dee riconoscere i detti termini ec. per puri, cioè propri della sua lingua, come delle altre, ma non già per eleganti. La bella letteratura, e massime la poesia, non hanno che fare colla filosofia sottile, severa ed accurata; avendo per oggetto in bello, ch'è quanto dire il falso, perchè il vero (così volendo il tristo fato dell'uomo) non fu mai bello. Ora oggetto della filosofia qualunque, come di tutte le scienze, è il vero: e perciò dove regna la filosofia, quivi non è vera poesia. La qual cosa [1229] molti famosi stranieri o non la vedono, o adoprano (o si conducono) in modo come non la vedessero o non volessero vederla. E forse anche così porta la loro natura fatta piuttosto alle scienze che alle arti ec. Ma la poesia quanto è più filosofica, tanto meno è poesia. (26. Giugno 1821). Vedi p.1231.

Alla p. 1219. marg. La filosofia e le scienze greche passarono ai latini, passarono agli Arabi; e portarono nel latino e nell'Arabo le loro voci greche. Gli Arabi vi aggiunsero alcune cose, e inventarono qualche scienza, o parte di scienze; e i nomi Arabi insieme con dette aggiunte e invenzioni, sono diffusi universalmente in Europa. Così sempre è accaduto negli antichi, ne' mezzani, ne' moderni tempi. La filosofia Chinese per esempio ha nomenclatura diversa dalla nostra, ed ognun sa quanto ella ne differisca: oltre ch'ella non può in nessun modo chiamarsi scienza esatta nè simile all'esatte, come la moderna nostra. Così dico delle altre scienze chinesi. Così della filosofia degli Ebrei, che avendo altra nomenclatura, ha, rispetto alla nostra, un'idea di originalità, massime in quelle parti dove i loro nomi differiscono da quelli della filosofia latina, [1230] (divenuti poi comuni in Europa ec.) nella qual lingua conosciamo i libri Ebraici. Oltre che l'Ebraica filosofia è pure inesatta come ho spiegato di sopra, e quindi tanto meno copiosa ne' termini, e meno precisa ne' loro significati. ec. ec. ec. (26. Giugno 1821).

Da repere che anche il Forcellini dice esser metatesi di ἕρπω, oltre l'inerpicare del quale ho detto altrove, ed oltre il latinismo repere che nella Crusca ha un esempio di Dante, e uno del Soderini, ebbero i nostri antichi anche ripire, voce italiana d'uso, e volgare in quei tempi, come sembra, e adoprata anch'essa nel significato di inerpicarsi, ἀνέρπειν, o di salire, montar su, come puoi vedere ne' due esempi delle Storie Pistolesi nella Crusca, e in questi della Storia della Guerra di Semifonte scritta da M. Pace da Certaldo, Firenze 1753. il quale autore fu tra il 200 e il 300. Gli Fiorentini appoggiate le scale di già ripivano (p. 37): e Videro... alcuni già avere appoggiate le scale, e far pruova di ripire. (p. 46.) Esempi portati nella Lettera a V. Monti di Vincenzo Lancetti, Proposta di alcune Correzioni ed Aggiunte al Vocab. della Crusca, vol. 2. par. 1. Milano 1819. Appendice, p. 284. Quindi ripido, cioè Erto, Malagevole a salire, spiega la Crusca, e ripidezza astratto di ripido, voci non latine: e da repere, repente, per molto erto, ripido, dice la Crusca, che ne porta due [1231] esempi del trecento. Il Du Cange non ha niente in proposito. (27. Giugno 1821).

Alla p. 1229. E infatti gran parte, e forse la maggiore delle poesie straniere, riescono e sono piuttosto trattati profondissimi di psicologia, d'ideologia ec. che poesia. E quivi la filosofia nuoce e distrugge la poesia, e la poesia guasta e pregiudica la filosofia. Tra questa e quella esiste una barriera insormontabile, una nemicizia giurata e mortale, che non si può nè toglier di mezzo, e riconciliare, nè dissimulare. E così dico proporzionatamente del resto della bella letteratura propriamente e veramente considerata. (27. Giugno 1821).

Alla p. 1125, marg. - ossia le radici de' verbi ebraici chiamati perfetti, tutte composte di tre lettere nè più nè meno, e di due sillabe, ed anche gl'imperfetti fuorchè i Deficienti (come dicono) in Ghaiin, quando per contrazione perdono la seconda radicale nella terza singolare del Preterito di kal attivo (cioè della prima coniugazione attiva); e i Quiescenti detti in Ghaiin Vau, i quali avendo pur tre lettere, hanno però una sola sillaba nella radice. Questo genere di radici dissillabe e trilettere, io credo che sia comune e regolare anche nell'Arabo, nel Siriaco e in altre lingue orientali. (27. Giugno 1821).

Alla p. 1126. Dovrebbe, dico adottare, fra queste voci, tutte quelle che non hanno, nè possono avere nell'italiano un preciso equivalente, cioè preciso nella significazione, e preciso nell'intelligenza e nell'effetto. [1232] Perchè se qualcuna di tali voci ha già nell'uso o dello scrivere o del parlare italiano, una voce corrispondente che produca lo stesso preciso effetto, quantunque diversa materialmente; o se si può formare dalle nostre radici, o riporre in uso qualche parola dismessa che indichi la stessa idea in modo da suscitarla con piena e perfetta precisione, e senza oscurità nè veruna minima incertezza, e senza niente di vago o di dissimile, nella mente del lettore, o uditore; non nego, anzi affermo, che in tal caso (che quando si ponga ben mente a tutte e a ciascuna delle dette condizioni sarà rarissimo) faremo bene a preferir queste voci nostre, alle sopraddette, benchè universali, e benchè in tal caso pure, non saremmo in diritto di riprenderle come impure, mentre son pure, cioè comunemente usate, e precisamente intese in tutta l'Europa. (27. Giugno 1821).

La trattabilità e facilità della lingua francese, ond'ella è così agevole a scriver bene e spiegarsi bene sì per lo straniero che l'adopra o l'ascolta, sì pel nazionale, non deriva dall'esser ella uno strumento pieghevole e souple (qualità negatale espressamente dal Thomas) ec. ma dall'essere un piccolo strumento, e quindi manuale, εὐμεταχείριστος, maneggiabile, [1233] facile a rivoltarsi per tutti i versi, e ad adoprare in ogni cosa. ec. (27. Giugno 1821).

Quello che ho detto de' termini filosofici comuni oggi a tutta Europa, bisogna anche estenderlo ai nomi appartenenti al commercio, alle arti, alle manifatture, agli oggetti di lusso ec. ec. che da qualunque lingua e nazione abbiano ricevuto il nome, lo conservano in gran parte per tutte le lingue e nazioni, e così è sempre accaduto. Quanto però al Vocabolario ch'io propongo, il comprendervi questi nomi, sarebbe anche meno necessario di quelli appartenenti alle scienze esatte o materiali. (28. Giugno 1821).

Alla p. 1212. Talvolta anche adopriamo i detti modi, a espresso fine di denotare azione interrotta, e il di quando in quando, come per esempio dicendo il Tasso viene ornando i suoi versi di falsi ornamenti, vogliamo dire, di quando in quando gli orna ec. e vogliamo significare minor continuità che se dicessimo orna i suoi versi ec. il che verrebbe a dire che lo facesse sempre o quasi sempre; o se dicessimo suole ornare ec. (28. Giugno 1821).

Alla p. 1212. principio. Se esistesse un'armonia assoluta in ordine ai suoni articolati o alle parole, tutte le versificazioni in qualunque lingua e tempo, avrebbero [1234] avuto ed avrebbero le stesse armonie, e renderebbero le stesse consonanze, che in un batter d'occhio si ravviserebbero dal forestiero, come dal nazionale, e dal contemporaneo ec. Quando per lo contrario il forestiero non solo non vi trova alcuna conformità coll'armonia della versificazione sua nazionale, ma bene spesso non si accorge nè si può accorgere che quella tale sia versificazione, se non se n'accorge per la materia, e per essere scritta in linee distinte, o per la rima, che non ha punto che fare col ritmo, nè colla misura. (28. Giugno 1821).

Alla p. 1226. marg. fine. L'analisi delle cose è la morte della bellezza o della grandezza loro, e la morte della poesia. Così l'analisi delle idee, il risolverle nelle loro parti ed elementi, e il presentare nude e isolate e senza veruno accompagnamento d'idee concomitanti, le dette parti o elementi d'idee. Questo appunto è ciò che fanno i termini, e qui consiste la differenza ch'è tra la precisione, e la proprietà delle voci. La massima parte delle voci filosofiche divenute comuni oggidì, e mancanti a tutti o quasi tutti gli antichi linguaggi, non esprimono veramente idee che mancassero assolutamente ai nostri antichi. Ma come è già stabilito dagl'ideologi [1235] che il progresso delle cognizioni umane consiste nel conoscere che un'idea ne contiene un'altra (così Locke, Tracy ec.), e questa un'altra ec.; nell'avvicinarsi sempre più agli elementi delle cose, e decomporre sempre più le nostre idee, per iscoprire e determinare le sostanze (dirò così) semplici e universali che le compongono (giacchè in qualsivoglia genere di cognizioni, di operazioni meccaniche ancora ec. gli elementi conosciuti, in tanto non sono universali, in quanto non sono perfettamente semplici e primi); (vedi in questo proposito la p. 1287. fine) così la massima parte di dette voci, non fa altro che esprimere idee già contenute nelle idee antiche, ma ora separate dalle altre parti delle idee madri, mediante l'analisi che il progresso dello spirito umano ha fatto naturalmente di queste idee madri, risolvendole nelle loro parti, elementari o no (che il giungere agli elementi delle idee è l'ultimo confine delle cognizioni); e distinguendo l'una parte dall'altra, con dare a ciascuna parte distinta il suo nome, e formarne un'idea separata, laddove gli antichi confondevano le dette parti, o idee suddivise (che per noi sono oggi altrettante distinte idee) in un'idea sola. Quindi la secchezza che risulta dall'uso de' termini, i quali ci destano un'idea quanto più si possa scompagnata, solitaria e circoscritta; laddove la bellezza del discorso e della poesia consiste nel destarci gruppi d'idee, e nel fare errare la nostra mente nella moltitudine delle concezioni, e nel loro vago, confuso, indeterminato, incircoscritto. Il che si ottiene colle parole proprie, ch'esprimono un'idea composta di molte parti, e legata [1236] con molte idee concomitanti; ma non si ottiene colle parole precise o co' termini (sieno filosofici, politici, diplomatici, spettanti alle scienze, manifatture, arti ec. ec.) i quali esprimono un'idea più semplice e nuda che si possa. Nudità e secchezza distruttrice e incompatibile colla poesia, e proporzionatamente, colla bella letteratura.

P. e. genio nel senso francese, esprime un'idea ch'era compresa nell'ingenium, o nell'ingegno italiano, ma non era distinta dalle altre parti dell'idea espressa da ingenium. E tuttavia quest'idea suddivisa, espressa da genio, non è di gran lunga elementare, e contiene essa stessa molte idee, ed è composta di molte parti, ma difficilissime a separarsi e distinguersi. Non è idea semplice benchè non si possa facilmente dividere nè definire dalle parti, o dal'intima natura. Lo spirito umano, e seco la lingua, va sin dove può; e l'uno e l'altra andranno certo più avanti, e scopriranno coll'analisi le parti dell'idea espressa da genio, ed applicheranno a queste parti o idee nuovamente scoperte, cioè distinte, nuove parole, o nuovi usi di parole. Così egoismo che non è amor proprio, ma una delle infinite sue specie, ed egoista ch'è la qualità del secolo, e in italiano non si può significare.

Così cuore in quel senso metaforico che è sì comune a tutte le lingue moderne fin dai loro principii, era voce sconosciuta in detto senso alle lingue antiche, e non però era sconosciuta l'idea ec. ma non bene distinta da mente, animo ec. ec. ec. ec. Così immaginazione o fantasia, per quella facoltà sì notabile ed essenziale della mente umana, che noi dinotiamo con questi nomi, ignoti in tal senso alla buona latinità e grecità, benchè da esse derivino. Ed altri nomi non avevano per dinotarla, sicchè anche queste parole (italianissime) e questo senso, vengono da barbara origine. (28. Giugno 1821).

[1237] Nè solamente col progresso dello spirito umano si sono distinte e denominate le diverse parti componenti un'idea che gli antichi linguaggi denominavano con una voce complessiva di tutte esse parti, o idee contenute; ma anche si sono distinte e denominate con diverse voci non poche idee che per essere in qualche modo somiglianti, o analoghe ad altre idee, non si sapevano per l'addietro distinguer da queste, e si denotavano con una stessa voce, benchè fossero essenzialmente diverse e d'altra specie o genere. Vedi per esempio quello che ho detto p.1199-200. circa il bello, e quello ch'essendo piacevole alla vista, non è però bello, nè appartiene alla sfera della bellezza, benchè ne' linguaggi comuni, si chiami bello, e l'intelletto volgare non lo distingua dal vero bello.

Da queste osservazioni e da quelle del pensiero precedente, inferite 1. che quelli i quali scartano tali nuove parole o termini, e vietano la novità nelle lingue, pretendono formalmente d'impedire l'andamento, e rompere il corso, e fermare immobilmente e per sempre il progresso dello spirito umano, posto il quale, la lingua necessariamente progredisce, e si arricchisce di parole sempre più precise, distinte, sottili, uniformi ed universali, e in somma di termini; e [1238] vicendevolmente senza il progresso della lingua (e progresso di questa precisa natura, e non d'altra, che poco influisce) è nullo il progresso dello spirito umano, il quale non può stabilire ed assicurare, e perpetuare il possesso delle sue nuove scoperte e osservazioni, se non mediante nuove parole o nuove significazioni fisse, certe, determinate, indubitabili, riconosciute; e di più, uniformi, perchè se non sono uniformi, il progresso dello spirito umano sarà inevitabilmente ristretto a quella tal nazione, che parla quella lingua dove si sono formate le dette nuove parole; o a quelle sole nazioni che le hanno bene intese e adottate.

2. Che tali parole o termini, sono affatto incompatibili coll'essenza della poesia, e l'abuso loro, guasta affatto, e perde e trasforma in filosofia, o discorso di scienze ec. la bella letteratura. (29. Giugno, dì mio natalizio. 1821).

Già non accade avvertire che tali parole universali in Europa, non riuscirebbero nè nuove, nè per verun conto più difficili, oscure, incerte ai lettori italiani, di quello riescono agli stranieri, non ostante che in Italia non sieno riconosciute per proprie della lingua, cioè per voci pure, nè ammesse ne' Vocabolari. E di questo è cagione 1. l'uso giornaliero [1239] del parlare italiano, il quale vorrei che non avesse altro di forestiero e di barbaro, che l'uso di siffatte parole. 2. l'uso di molti scrittori italiani moderni, i quali parimente vorrei che non meritassero altro rimprovero fuorchè di avere adoperato tali voci. 3. l'intelligenza e l'uso del francese, familiare agl'italiani come agli altri, dal qual francese son derivate, o nel quale son ricevute e comuni, e per via e mezzo del quale ci sono ordinariamente pervenute o tutte o quasi tutte simili parole. Circostanza notabile e favorevolissima all'introduzione di tali voci in nostra lingua, mentre quasi tutte le moderne cognizioni, colle voci loro appartenenti, ci vengono pel canale di una lingua sorella, e già ridotte in forma facilmente adattabile al nostro idioma, massime dopo averci familiarizzato l'orecchio mediante l'uso fattone da essa lingua 1.o sì comune in Italia e per tutto, 2.o. sì affine alla nostra. (29. Giugno, dì di S. Pietro. 1821).

Spesso è utilissimo il cercar la prova di una verità già certa, e riconosciuta, e non controversa. Una verità isolata, come ho detto altrove, poco giova, massime al filosofo, e al progresso dell'intelletto. Cercandone la prova, se ne conoscono i rapporti, e le ramificazioni (sommo scopo della filosofia): e si scoprono pure [1240] bene spesso molte analoghe verità, o ignote, o poco note, o dei rapporti loro, sconosciuti ec.: si rimonta insomma bene spesso dal noto all'ignoto, o dal certo all'incerto, o dal chiaro all'oscuro, ch'è il processo del vero filosofo nella ricerca della verità. E perciò i geometri non si contentano di avere scoperta una proposizione, se non ne trovano la dimostrazione. E Pitagora immolò un'Ecatombe per la trovata dimostrazione del teorema dell'ipotenusa, della cui verità era già certo, ed ognuno poteva accertarsene colla misura. Però giova il cercare la dimostrazione di una verità già dimostrata da altri, senza aver notizia della dimostrazione già fatta. Perchè i diversi ingegni prendendo diverse vie, scoprono diverse verità e rapporti, benchè partendo da uno stesso punto, o collimando a una stessa meta o centro ec. (29. Giugno 1821).

Una delle principali, vere, ed insite cagioni della vera e propria ricchezza e varietà della lingua italiana, è la sua immensa facoltà dei derivati, che mette a larghissimo frutto le sue radici. Osserviamo solamente le diverse formazioni che dalle sue radici ella può fare de' verbi frequentativi o diminutivi. Colla desinenza in eggiare come da schiaffo, [1241] da vezzo, da arma, da poeta, o poetare, da verso, schiaffeggiare, vezzeggiare, armeggiare, poeteggiare, verseggiare, (e così da vano o vanare, vaneggiare, e pargoleggiare, e spalleggiare ec. e da favore, come favorare, e favorire, così favoreggiare); in icciare come da arso arsicciare; in icchiare, come da canto canticchiare; in ellare come da salto saltellare; in erellare, come pur da salto salterellare, e da canto canterellare; in olare, come da spruzzo spruzzolare, da vòlto voltolare, da rotare, rinfocare, rotolare, rinfocolare, da giuocare, giuocolare, da muggire o mugghiare, mugolare, muggiolare, mugiolare; in igginare, come da piovere piovvigginare; in uzzare, come da taglio tagliuzzare; in acchiare come da foro foracchiare; in ecchiare, come da morso, roso, sonno, morsecchiare, rosecchiare, sonnecchiare; (e così punzecchiare che anche si dice punzellare); in azzare come da scorrere scorrazzare, da volare svolazzare; in eare come da ruota o rotare roteare (che la Crusca chiama Vedi A. non so perchè) alla spagnuola rodear, blanquear cioè biancheggiare e imbiancare ec.; in ucchiare, come da bacio baciucchiare; in onzare come da ballo ballonzare; ed in altri modi ancora, che neppur qui finisce il novero, senza contare i sopraffrequentativi, o sopraddiminutivi, come ballonzolare, sminuzzolare ec. ec. ovvero diminutivi de' frequentativi o viceversa. E queste, e le altre formazioni sono di significato certo, determinato, riconosciuto, convenuto e costante, in modo che vedendo una tal formazione, e conoscendo il significato della voce originaria, s'intende subito la modificazione che detta parola formata esprime, dell'idea espressa dalla parola materna. La pazza idea per tanto (ch'è l'ultimo eccesso della pedanteria) di voler proibire la formazione di nuovi derivati, è lo stesso che seccare una delle principali e più proprie ed innate sorgenti della ricchezza di nostra lingua. Vedi [1242] in questo proposito p. 1116-17. Io non dubito (e l'esempio portato lo conferma) che nella immensità e varietà della facoltà certa stabile e definita ch'ella ha dei derivati, e nell'uso che ne sa fare, e ne ha fatto, la lingua nostra non vinca la latina, e la stessa greca. Alla quale però si rassomiglia assai anche per questa moltiplicità di forme nelle derivazioni che hanno un medesimo o simile significato, a differenza della latina, non già povera, ma più regolata e con più certezza circoscritta in ciò, come nel resto. Vedi la p.1134. fine. (29. Giugno 1821). Queste sono le vere cagioni e fonti per cui (se non le chiuderemo) la nostra lingua resterà sempre superiore in ricchezza alle moderne, malgrado i nuovi vocaboli ec. particolari, ch'elle vanno tuttogiorno acquistando. Vedi p.1292. capoverso 1.

Alla p. 302. principio. In prova di quello che ho detto della utilità che risulta ai governi dai partiti loro contrarii, osservate cosa già nota, che non è luogo dove la religion cattolica, anzi la cristiana, (e così qualunque altra) sia più rilasciata nell'esterno ancora, e massime nell'interno, come in quel paese dov'ella è non solo dominante ma unica, cioè in Italia, che di più è la sua sede. (La Spagna, come finora non civile, e fuori del mondo colto, non fa eccezione). E proporzionatamente scendendo sì per le stesse province d'Italia più vicine o più commercianti ec. con religioni diverse, sì per le diverse nazioni, come la Francia ec. sino alla Germania e all'Inghilterra ec. si trova che dove la religion cattolica o le altre cristiane, sono più avvilite, più vicine e frammiste a religioni diverse e contrarie, sette ec. quivi appunto il loro culto esterno ed interno è più che mai vivo, sodo, vero, efficace, e fermo. (29. Giugno 1821).

[1243] Osserviamo il grand'effetto prodotto nelle nostre sensazioni dalle piccole e minime differenze reali nella statura degli uomini. Osserviamo pure la differenza delle proporzioni circa la statura delle donne, e come una donna alta ci paia bene spesso di maggiore statura che un uomo mediocre, e posta al paragone si trovi il contrario. ec. Osserviamo finalmente che le stesse proporzionate differenze in altri oggetti di qualunque genere, non sono mai capaci di produrre in noi gli stessi effetti, nè proporzionati a quelli delle stature umane. E quindi inferiamo quanto la continua osservazione ci renda sottili conoscitori, ed affini le nostre sensazioni circa le forme esteriori de' nostri simili: e come per conseguenza l'idea delle proporzioni determinate non si acquisti se non a forza di osservazione, e di abitudine; e quanto sia relativa, giacchè la menoma differenza reale, ci par grandissima in questi oggetti, e menoma, qual è, in tutti gli altri. (30. Giugno 1821).

Altre cagioni di fatto della ricchezza e varietà della lingua italiana, oltre la copia degli scrittori, come ho detto altrove sono

1. Il non aver noi mai rinunziato alle nostre [1244] ricchezze di quantunque antico possesso, a differenza della lingua francese, a cui non gioverebbe neppure l'avere avuta altrettanta copia di scrittori e di secoli letterati, quanti noi. Neppure alla varietà, ed anche a quella ricchezza che serve precisamente all'esatta espressione delle cose, gioverebbe alla lingua francese l'avere avuto in questi due secoli dopo la sua rigenerazione, tanti e più scrittori quanti noi in cinque secoli. Non le gioverebbe dico, quanto giova alla nostra lingua la moltitudine dei secoli, e quindi la maggior varietà degli scrittori, delle opinioni, de' gusti, degli stili, delle materie da loro trattate; varietà che non si può trovare nello stesso grado in due secoli soli, benchè fossero più copiosi di scrittori, che questi 5. insieme: e varietà che serve infinitamente alla ricchezza di una lingua, ed alla esattezza e minutezza del suo poter esprimere, giacch'è stata applicata ad esprimere tanto più diverse cose, da tanto più diversi ingegni, e più diversamente disposti; e in tanto più diversi modi. Neppure la lingua tedesca ha rinunziato alle sue antiche ricchezze e possedimenti, come si vede nel Verter, abbondante di studiati e begli ed espressivi arcaismi.

[1245] 2. La gran vivacità, immaginosità, fecondità, e varietà degl'ingegni degli scrittori nostri, qualità proprie della nazione adattabile a ogni sorta di assunti, e di caratteri, e d'imprese, e di fini.

3. Il moltissimo che la nostra lingua scritta, (giacchè della ricchezza e varietà di questa intendiamo parlare, e questa intendiamo paragonare colle straniere) ha preso dalla lingua parlata e popolare. Or come ciò, se io dico, che la principale, anzi necessaria fonte della ricchezza e perfezione di una lingua, sono gli scrittori, e questi, letterati? Ecco il come.

Ho detto, ed è vero, che la convenzione, sola cosa che può render parola una parola, cioè segno effettivo di un'idea, non può mai esser molto estesa, nè uniforme e regolata, nè nazionale, se non per mezzo della letteratura. Ma un popolo, massimamente vivacissimo come l'italiano, e in particolare il toscano, e di più, civilizzato assai (qual fu il toscano e l'italiano fra tutti i popoli Europei, e prima di tutti), e posto in gran corrispondenza cogli altri popoli (come appunto la Toscana, sì per la fama della sua coltura, sì per le circostanze sue politiche, la sua libertà, e specialmente il suo commercio) (5) [1246] inventa naturalmente, o adotta, infinite parole, infinite locuzioni, e infiniti generi e forme sì di queste che di quelle, l'uso però e l'intelligenza delle quali, se non sono ricevute dalla letteratura, la quale le diffonde per la nazione, ne stabilisce la forma, ne precisa il significato, ne assicura la durata, poco si estendono, poca precisione acquistano, restano facilmente incerte, ondeggianti, e arbitrarie, e presto si perdono, sottentrandone delle nuove. Vedi p. 1344. Ora la letteratura italiana ha fatto appunto quello che ho specificato. Ha ricevute con particolare, e fra tutte le letterature singolar cura, amorevolezza e piacere, le voci, i modi, le forme del popolo segnatamente toscano: e da questo è venuto

1. Che le parole modi ec. che sarebbero state proprie di una sola provincia, e bene spesso di una sola città ed anche meno, ricevute e accarezzate e stabilite nell'uso letterario, prima dagli scrittori di quella provincia ec. poi da quelli che vi andavano per imparar la lingua, o a qualunque effetto, poi dalla totalità degli scrittori italiani, son divenute italiane, di toscane o altro che erano. Ed è avvenuto questo alle toscane più che alle altre, perchè i primi buoni scrittori italiani sono stati di quel paese, e ne hanno diffuso e stabilito nella letteratura italiana [1247] le parole ec. ed anche perchè quel dialetto forse ancora per se stesso, era più grazioso, ed anche meno irregolare, meno goffo e meno storpiato e barbaro degli altri, e meno difforme a se stesso, nelle strutture, nelle forme delle parole e modi ec.

2. Non essendo mai cessato negli scrittori toscani e italiani lo studio e l'imitazione competente (gli abusi ora non si contano) della favella popolare, massime toscana (a differenza di quello ch'è accaduto in tutte le altre letterature un poco formate); n'è seguito che la lingua italiana presente, mediante la sua letteratura, sia ricca delle parole, modi ec. venuti in uso in uno de' suoi popoli più vivaci, immaginosi e inventivi, dal principio della lingua fino al di d'oggi: parole e modi ec. che non avrebbero avuto se non cortissima durata, e pochissima estensione, se non fossero state adottate e stabilite dalla letteratura, che le ha fatte e perpetue, e nazionali. E così la letteratura e non il popolo, anche riguardo alle voci popolari, viene ad essere la vera e principale sorgente della ricchezza e perfezione di nostra lingua.

3. Gridino a piacer loro i mezzi filosofi. Ricchezza che importi varietà, bellezza, espressione, efficacia, forza, brio, grazia, facilità, mollezza, naturalezza, non l'avrà mai, non l'ebbe e non l'ha veruna lingua, che non abbia moltissimo, [1248] e non da principio soltanto, ma continuamente approfittato ed attinto al linguaggio popolare, non già scrivendo come il popolo parla, ma riducendo ciò ch'ella prende dal popolo, alle forme alle leggi universali della sua letteratura, e della lingua nazionale. La precisione filosofica non ha punto che fare con veruna delle dette qualità: e la ricchezza filosofica e logica, cioè di parole precise ec. e di modi geometrici ec. serve bensì al filosofo, è una ricchezza, ed è necessaria, ma non importa veruna delle dette qualità, anzi serve loro di ostacolo, e bene spesso, com'è avvenuto al francese, ne spoglia quasi affatto quella lingua, che già le possedeva. Tutte le dette qualità sono principalissimamente proprie dell'idioma popolare; e se la lingua italiana scritta, si distingue in ordine ad esse qualità, fra tutte le altre moderne; se è ricca fra tutte le moderne, ed anche le antiche di quella ricchezza che produce e contiene le dette qualità; ciò proviene dall'aver la lingua italiana scritta (forse perchè poco ancora applicata alla filosofia, e generalmente poco moderna), attinto più, e più durevolmente che qualunque altra, al linguaggio popolare. Le ragioni per cui questo linguaggio, abbia sempre, e massime in un popolo vivacissimo, sensibilissimo, e suscettibilissimo, le dette qualità, più [1249] che qualunque altro linguaggio, sono abbastanza manifeste da se. Quella ricchezza proprissima della lingua italiana, e maggiore in lei che nella stessa greca e latina, della quale ho parlato p. 1240-42. non da altro deriva che dall'idioma popolare, giudiziosamente e discretamente applicato dagli scrittori alla letteratura.

4. Con questi vantaggi vennero anche dalla stessa fonte molti abusi. Li condanniamo altamente, e conveniamo in questo cogli scrittori che oggidì alzano contro di essi la voce in Italia, senza convenire in questo che ogni genere di bellezza in una lingua, non debba per necessità riconoscere come sua fonte essenziale e principale l'idioma popolare. Dico della bellezza, ec. la quale conviene alla vera poesia, ed alla bella letteratura, essenzialmente distinta nel suo linguaggio da quello che conviene alle scienze ec. Negando questo, io non so com'essi ammirino tanto per esempio il Caro, la massima parte delle cui verissime finissime e carissime bellezze, sì nelle prose, come ne' versi dell'Eneide, ognun può vedere a prima giunta che derivano originalmente da un grandissimo uso e possesso del linguaggio toscano volgare, (o anche degli altri volgari d'Italia, vedi Monti, Proposta, vol. i. par. 1. p. xxxv) e da una giudiziosissima applicazione di questo ai diversi generi della letteratura, dai più bassi fino ai più alti, dalle lettere familiari, fino all'Epopea. Del resto, ben fecero gli scrittori italiani attingendo al volgare toscano più che agli altri volgari d'Italia, e ciò [1250] per le ragioni che tutti sanno, e che abbiam detto p. 1246. fine-47. principio. Ma sciocca, assurda, pedantesca, ridicola è la conseguenza che dunque non si possa attingere se non da quel volgare; che gli scrittori non possano scrivere se non come e quanto dice e parla quel popolo; che la lingua e letteratura italiana dipenda in tutto e per tutto dal volgo toscano (quando non dipende neppure in nessun modo dal volgo, ma solamente se ne serve se le pare); che in Toscana e fuori, lo scrittore italiano non possa formar voce nè frase, che il volgo toscano non usi; che in somma quello che non è toscano, anzi fiorentino, anzi pure di Mercato vecchio, non sia italiano. Quando, come abbiamo veduto, non la letteratura al volgo, ma il volgo è totalmente subordinato alla letteratura, e quello è ai servizi, e giova ai comodi di questa, e non già questa di quello. E la letteratura forma e dispone della favella che prende dal volgo, e non viceversa. E le aggiunge quel che le piace, e se ne serve, sin dove può, e dove la favella del volgo non le può servire, l'abbandona, o in parte o in tutto. In somma abbiamo lodato la lingua italiana scritta perchè ha saputo giovarsi del linguaggio popolare, più e meglio forse [1251] di qualunque altra lingua moderna, e perchè non l'ha mai licenziato da' suoi servigi, come hanno fatto si può dir tutte le altre (anche la greca dopo un certo tempo, e lo farebbe anche l'italiana, se non la richiamassimo, anzi lo andrebbe già facendo); non già perch'ella si sia sottomessa alla favella del volgo, molto meno del volgo di una sola provincia o città, che nè essa l'ha fatto o potuto fare, nè facendolo sarebbe stata superiore, ma inferiore a tutte le altre, nè noi l'avremmo lodata ma sommamente biasimata. Da tutto ciò segue ancora che la lingua italiana scritta, può servirsi di qualunque altro volgare (come faceva la lingua greca, anzi la stessa attica); e che è pazzo il privilegio esclusivo che si arrogano i toscani sulla lingua comune; se non in quanto non si possano torre da questi volgari quelle cose che non convengono a detta lingua comune.

Parimente soggiungo. Molti scrittori toscani e italiani hanno preso dal volgare toscano più di quello che ne potessero prendere, che fosse intelligibile o aggradevole ec. da per tutto, che convenisse all'indole e alle forme della lingua italiana regolata e scritta, che potesse comunicarsi [1252] alla nazione, e di toscano e provinciale divenir nazionale e italiano, che riuscisse nobile e adattato a una lingua scritta e ad una letteratura non più da formarsi, ma formata. Han fatto malissimo, e se non vanno confusi cogli altri scrittori vernacoli, certo però non s'hanno da tenere per italiani ma per toscani o fiorentini o sanesi, e per iscrittori non già nazionali, ma provinciali, ovvero anche, se così posso dire, oppidani.

Così discorro di tutti simili abusi, e negli scrittori e nel Vocabolario ec.

- Nessuno è meno filosofo di chi vorrebbe tutto il mondo filosofo, e filosofica tutta la vita umana, che è quanto dire, che non vi fosse più vita al mondo. E pur questo è il desiderio ec. de' filosofastri, anzi della maggior parte de' filosofi presenti e passati.

Così i nostri mezzi filosofi italiani, sapendo bene che il volgo non può essere il legislatore della favella scritta, nè la lingua volgare può mai bastare ai progressi dello spirito umano, nè alla fissazione, determinazione, distinzione e trasmissione delle cognizioni; perciò pretendono che qualunque lingua scritta, e qualunque stile debba appartarsi affatto dal volgare, ed escludono affatto il volgare dallo scritto, non avendo bastante filosofia per distinguere il bello dal vero, e quindi la letteratura e la poesia dalle scienze; e vedere che prima fonte del bello è la natura, la quale a nessun altro genere di uomini parla sì vivamente, immediatamente, [1253] e frequentemente, e da nessuno è così bene, e felicemente, e così al vivo e propriamente espressa, come dal volgo. La precisione toglietela dai filosofi. La proprietà, e quindi l'energia, la concisione ben diversa dalla precisione, e tutte le qualità che derivano dalla proprietà, non d'altronde le potrete maggiormente attingere che dalla favella popolare. E il Lipsio (Epistolica Institutio, cap.IX.) consigliando lo studio di Cicerone sopra tutti per la eleganza, la soavità, la copia, la facilità del latino, consiglia i comici Plauto e Terenzio, come unici o principali mezzi d'imparare la proprietà d'esso sermone. Puoi vedere p. 1481-84.

Da quanto abbiamo detto sulla differenza essenziale della lingua poetica e letterata dalla scientifica, risulta che la lingua francese, che nei suoi modi quasi geometrici si accosta alla qualità di quelle voci che noi chiamiamo termini, e di più, massimamente oggi, abbonda quasi più di termini, o pressochè termini, che di parole, è di sua natura incapace di vera poesia, e di veramente bella letteratura: mancando del linguaggio di queste, che non può non essere sostanzialmente segregato da quello delle scienze. Termini o quasi termini, chiamo io anche le voci di conversazione, e d'altri tali generi, di cui la lingua francese, è sì ricca, e che esprimono in qualsivoglia materia, un'idea nuda, o quasi nuda, secca, precisa, e precisamente. (30. Giugno 1821).

[1254] La facilità di contrarre abitudine, qualità ed effetto essenziale de' grandi ingegni, porta seco per naturale conseguenza ed effetto la facilità di disfare le abitudini già contratte, mediante nuove abitudini opposte che facilmente si contraggono; e quindi la potenza sì della durevolezza, come della brevità delle abitudini.

Osservate quegli abiti o discipline che hanno bisogno di un esercizio materiale, per esempio di mano, per essere imparate. Chi vi ha gli organi meglio disposti, o generalmente più facili ad assuefarsi, riesce ad acquistare quell'abilità in più breve tempo degli altri. Ecco tutto l'ingegno. Organi facili ad assuefarsi, cioè pieghevoli, e adattabili ec. o generalmente e per ogni verso, e questa è la universalità di un ingegno; o solamente ovvero principalmente in un certo modo, e questa è la disposizione dell'ingegno a una tal cosa, o la sua capacità di riuscire principalmente in quella.

Ma siccome altri sono gli organi interiori, altri gli esteriori, così un uomo di grande ingegno, sarà bene spesso inettissimo ad acquistare abilità meccaniche, cioè assuefazioni materiali; e viceversa.

Io nel povero ingegno mio, non ho riconosciuto altra differenza dagl'ingegni volgari, che una facilità [1255] di assuefarlo a quello ch'io volessi, e quando io volessi, e di fargli contrarre abitudine forte e radicata, in poco tempo. Leggendo una poesia, divenir facilmente poeta; un logico, logico; un pensatore, acquistar subito l'abito di pensare nella giornata; uno stile, saperlo subito o ben presto imitare ec.; una maniera di tratto che mi paresse conveniente, contrarne l'abitudine in poco d'ora ec. ec. Vedi p. 1312. Il volgo che spesso indovina, e nelle sue metafore esprime, senza saperlo, delle grandi verità, e dei sensi piuttosto propri che metaforici, sebben tali nell'intenzione, chiama fra noi, (e s'usa dire familiarmente anche fra i colti, ed anche scrivendo) testa o cervello duro (cioè organi non pieghevoli, e quindi non facili ad assuefarsi) chi non è facile ad imparare. L'imparare non è altro che assuefarsi.

Io credo che la memoria non sia altro che un'abitudine contratta o da contrarsi da organi ec. Il bambino che non può aver contratto abitudine, non ha memoria, come non ha quasi intelletto, nè ragione ec. E notate. Non solo non ha memoria, perchè poche volte ha potuto ricevere questa o quella impressione, ed assuefarsi a richiamarla colla mente. Ma manca formalmente della facoltà della memoria, giacchè nessuno si ricorda delle cose dell'infanzia, quantunque le impressioni d'allora sieno più vive che mai, e quantunque nell'infanzia possa essere ritornata al bambino quella tale impressione, più volte ancora di quello che bisogna all'uomo fatto perchè un'impressione o concezione qualunque gli resti nella memoria. Questa idea, merita di essere largamente sviluppata e distinta. (1 Luglio 1821).

[1256] Se intorno alla bellezza umana, molte cose si trovano nelle quali o tutti o quasi tutti gli uomini convengono, questo non è giudizio, ma senso, inclinazione ec. ec. e non ha che fare col discorso astratto e metafisico della bellezza. Le donne che Omero chiama βαϑύχολποι. (Il. Σ. (18.) vedi122. 339. Ω. (24.) v. 215. Hymn. in Vener. 4. v. 258. quivi delle ninfe montane) parranno a tutto il mondo più belle delle contrarie. La cagione è manifesta, e non accade dirla. Certo non è questa nè il tipo della bellezza, nè un'idea innata, nè un giudizio, una ragione ec. I fanciulli staranno molto tempo ad avvedersi che quella qualità che ho detto sia bellezza, e a far distinzione di beltà fra una donna che l'abbia, e un'altra che ne sia priva. Nè solo i fanciulli, ma anche i giovani mal pratici, e poco istruiti di certe cose, quantunque assuefatti a vedere; i giovani modestamente educati ec.; del che interrogo la testimonianza di molti. Le donne tarderanno assai più ad avvedersi di questa cosa, e non concepiranno per lungo tempo nè giudizio nè senso di bellezza differente, fra due donne ec. Vedi p. 1315.fine.

E tuttavia questa qualità ch'io dico, passa [1257] ben tosto nel bello ideale, e il poeta, (come appunto Omero), o il pittore che tira dalla sua mente (come dice Raffaello ch'egli faceva) l'idea di una bellezza da rappresentare, non mancherà certo di concepire l'idea di una donna o donzella βαϑύχολπος. E pur l'origine di questa idea sarà tutt'altra che il tipo della bellezza, ed un giudizio o forma innata, universale e impressa dalla natura nella mente dell'uomo. Così facile è l'ingannarsi nel giudicare delle idee che l'uomo ha circa il bello preteso assoluto. Vedi p. 1339. Similmente discorro di altre simili qualità esteriori dell'uomo o della donna.

Così della vivacità degli occhi, o di qualunque espressione dell'anima che apparisca nel volto, il che però quando anche tutti convengano che sia bellezza, non tutti però convengono nel preferirlo alla languidezza, e anche alla melensaggine ec. Non so neppure se quelle donne inglesi che si paragonano ai silfi, e si giudicano da molti sì belle, e si antepongono ec. appartengano al numero di quelle significate da Omero ne' citati luoghi.

Ed osservo, cosa manifesta per l'esperienza, che la donna (ancor prima di essere suscettibile d'invidia per cagione della bellezza) tarda molto più degli uomini a poter formare un giudizio fino e distinto circa le forme esteriori del suo sesso, e non giunge mai a quella perfezione di giudizio e di gusto, a cui gli uomini arrivano. Così viceversa discorrete degli uomini rispetto al sesso loro. Intendo già in parità di circostanze, e non di paragonare, per esempio, una donna molto riflessiva ec. ec. a un uomo torpido, e poco o niente suscettibile ec. Giacchè in tal caso, ognuno intende che quella tal [1258] donna ben facilmente sarà miglior giudice delle forme del suo stesso sesso che questo tal uomo. (1. Luglio 1821).

Osservate i differentissimi, e spesso contrarissimi giudizi delle diverse nazioni, o province, e de' diversi tempi, e di una stessa nazione o provincia in diverso tempo, circa la bellezza e grazia del portamento delle diverse classi di persone, delle maniere di stare di andare di sedere di gestire di presentarsi ec. e circa le stesse creanze, eccetto quelle che sono determinate e prescritte dalla ragione, e dal senso comune. Intorno alle quali cose possiamo dire che non c'è maniera giudicata bellissima e graziosissima e convenientissima in un luogo o in un tempo, che in altro luogo o tempo, non sia, non sia stata, o non sia per esser giudicata bruttissima, sconveniente, di mal garbo ec. Certo è che intorno alla bellezza del portamento dell'uomo, nessuno può stabilire veruna regola, veruna teoria, veruna norma, verun modello assoluto. Non parlo delle mode del vestire, intorno alla bellezza del quale, e degli uomini per rispetto ad esso, varia il giudizio secondo i paesi e i tempi, anzi pure secondo i territorii, e i momenti, senza veruna dipendenza neppur dalla natura costante e [1259] universale. (1 Luglio 1821).Vedi p. 1318. fine.

Spesso nel vedere una fabbrica, una chiesa, un oggetto d'arte qualunque, siamo colpiti a prima giunta da una mancanza, da una soprabbondanza, da una disuguaglianza, da un disordine o irregolarità di simmetria ec. ed appena che abbiamo saputo o capito la ragione di questo disordine, e com'esso è fatto a bella posta, o non a caso, nè per negligenza, ma per utilità, per comodo, per necessità ec. non solo non giudichiamo, ma non sentiamo più in quell'oggetto veruna sproporzione, come la concepivamo e sentivamo e giudicavamo a primo tratto. Non è dunque relativa e mutabile l'idea delle proporzioni e sproporzioni determinate? E perchè sentivamo noi e formavamo in quel primo istante il giudizio della sproporzione o sconvenienza? Per l'assuefazione, la quale in noi ha questa proprietà naturale, che ci fa giudicar di una cosa sopra un'altra, di un individuo, di una specie, di un genere stesso sopra un altro, e quindi di una convenienza sopra un'altra. Dal che deriva l'errore universale, non solo del bello assoluto, ma della verità assoluta, del misurare tutti i nostri simili da noi stessi, della perfezione assoluta, del credere che tutti gli esseri vadano giudicati sopra una sola norma, e quindi del crederci più perfetti d'ogni altro [1260] genere di esseri, quando non si dà perfezione comparativa fuori dello stesso genere, ma solamente fra gl'individui ec. (1 Luglio 1821).

Si può però ammettere una perfezione comparativa fra i diversi generi di cose, dentro il sistema di questa tal natura, o modo universale di esistere: ma una perfezione comparativa assai larga, e molto meno stretta e precisa di quello che l'uomo e il vivente qualunque si figuri naturalmente; e non mai assoluta, perchè assoluta non potrebb'essere se non in ordine al sistema intiero ed universale di tutte le possibilità. Questo pensiero ha bisogno di esser ponderato, svolto, dilatato, e rischiarato. (1 Luglio 1821).

A quello che altrove ho detto circa l'impossibilità di far bene quello che si fa con troppa cura, si può aggiungere quello che dice l'Alfieri nella sua Vita della matta attenzione ch'egli poneva a tutte le minuzie nelle sue prime letture e studi de' Classici: e quello che ci avviene per esempio nello studio delle lingue. Nel quale osservate che da principio per la somma attenzione che ponete a ogni menoma cosa, leggendo in quella tal lingua, vi riescono gli scrittori sempre (più o meno) difficili. Laddove bene spesso, se si dà il caso, che [1261] voi abbiate intralasciato per qualche tempo lo studio di quella lingua, e perduto l'abito di quella minuta attenzione, ripigliando poi a leggere in detta lingua qualche pagina, e credendo di trovarci maggior difficoltà per l'interrompimento dell'esercizio, vi trovate al contrario molto più spedito di prima. Così pure, senza averla intralasciata, ma solamente pigliando a leggere qualche cosa in detta lingua non con animo di studio o di esercizio, ma solo di passare il tempo, o divertirvi, o in qualunque modo con intenzione alquanto, più o meno, rilasciata. Così dopo avere o credere di aver già imparata quella lingua, quando leggiamo non più come scolari, ma disinvoltamente e come semplici lettori. Nel qual tempo trovando forse difficoltà reali maggiori di quando leggevamo per istudio, non ci fanno gran caso, nè c'impediscono e trattengono più che tanto, nè ci tolgono una spedita facilità. In somma non si arriva mai a leggere speditamente una lingua nuova, se non quando si lascia l'intenzione di studioso per prendere quella di lettore, e durando la prima, solamente per sua cagione, ed anche senza veruna difficoltà reale, [1262] si trovano sempre intoppi, che altri non troverà nelle stesse circostanze, e colla stessa perizia, ma con diversa intenzione. Così non si trova piacere, nè facilità, nella semplice lettura, anche in nostra lingua, quando si legge con troppo studio ec. (1-2. Luglio 1821).

A quello che ho detto altrove della impossibilità di formarsi idea veruna al di là della materia, e del nome materiale imposto allo stesso spirito e all'anima, aggiungete che noi non possiamo concepire verun affetto dell'animo nostro se non sotto forme o simiglianze materiali, nè dargli ad intendere se non per via di traslati presi dalla materia (sebbene alle volte abbiano perduto col tempo il significato proprio e primitivo per ritenere il metaforico), come infiammare, confortare, muovere, toccare, inasprire, addolcire, intenerire, addolorare, innalzar l'animo ec. ec. Nè solo gli affetti ma gli accidenti tutti o siano prodotti da cose interiori, o dall'azione immediata degli oggetti esteriori, come costringere, ed altri de' sopraddetti ec. (2. Luglio 1821). Vedi p. 1388. princip.

Passano anni interi senza che noi proviamo un piacer vivo, anzi una sensazione pur momentanea di piacere. Il fanciullo non passa giorno che non ne provi. Qual è la cagione? La scienza in noi, in lui l'ignoranza. Vero è che così viceversa accade del dolore. (2. Luglio 1821).


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(1) intorno ai participii in tus de' verbi neutri o attivi latini, come essendodi desinenza passiva, avessero spesso la significazione attiva o neutra, vedi le note del Burmanno al Velleio l. ii, c. 97, sect. 4. Infatti il latino secondo l'opinione volgare mancherebbe di participi passati significanti azione, fuorché deponenti. Vedi Forcellini, voc. Musso, fine, r vrdi Partus a um, e Pransus e Coenatus, p. 2277, 2340.

(2) V. anchw il Forc. in Lito as, principio, e in Luo is, fine.

(3) Gli antichi latini scrivevano effettivamente dicsi, e legsi e legs, e coniugs ec. e la x dei latini ora valeva cs ora gs. Vedi il Forcellini, lit. x, e l'Encyclopédie, Grammaire, lettre x.

(4) Secondo il Forcellini ii verbo obligari si trova in Ovidio nel significato espresso di cogi iuberi, come in italiano si dice essere obbligato a fare ec. Ma il Forcellini s'inganna. Ecco il passo di Ovidio col necessario accompagnamento de' versi circostanti, laddove il Forcellini ri-porta un verso solo (Trist. 1, cl. 2, v. 81, seqq.):

Quod faciles opto ventos, (quis credere possit?)
Sarmatis est tellus quam mea vota petunt.
Obligor, ut tangam laevi fera litora Ponti;
Quodque sit a patria tani fuga tarda queror.

Obligor qui non significa cogor, iubeor come dice il Forcellini, e come pare, se si recita questo verso solo, conforme fa egli; ma vuol dire fo voti, mi obbligo io stesso con voti, e non già sono costretto; ed è come dire obligor votis (giacché questo apparisce dal contesto, e dalla parola vota del verso antecedente), locuzione dello stesso genere di quelle di Cicerone, obligare militiae sacramento, obligare sempiterna religione, obligare scelere; e di Livio obligari foedere; e di Orazio obligare caput suum votis. In Orazio però ha la significazione di devovere ec. Vedilo ii, 8. v. 5. Od. Vedi p. 2246.

(5) Notate in questo proposito che da principio si contrastarono la preminenza il dialetto Veneziano e il Toscano, appunto perché Venezia era pure insigne pel commercio. Vedi Monti Proposta ec., vol ii, par. i p. 191, ed anche p. 168, fine


EDIZIONE DI RIFERIMENTO: "Giacomo Leopardi - Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura", volumi I-VII, Successori Le Monnier, Firenze, 1898-1907  ( Vedi: - 1 -  - 2 -  - 3 -  - 4 -  - 5 -  - 6 -  - 7 -  )







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