Giacomo Leopardi - Opera Omnia >>  Zibaldone di pensieri  -  Pagg. da 905 a 1082




 

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[905] Ma da che il progresso dell'incivilimento o sia corruzione, e le altre cause che ho tante volte esposte, hanno estinto affatto il popolo e la moltitudine, fatto sparire le nazioni, tolta loro ogni voce, ogni forza, ogni senso di se stesse, e per conseguenza concentrato il potere intierissimamente nel monarca, e messo tutti i sudditi e ciascuno di essi, e tutto quello che loro in qualunque modo appartiene, in piena disposizione del principe; allora e le guerre son divenute più arbitrarie, e le armate immediatamente cresciute. Ed è cosa ben naturale, e non già casuale, ma conseguenza immancabile e diretta della natura delle cose e dell'uomo. Perchè quanto un uomo può adoperare in vantaggio suo, tanto adopera; ed ora che il principe può adoperare al suo qualunque scopo o desiderio, tutta quanta è, e tutto quanto può la nazione, segue ch'egli l'adopri effettivamente senz'altri limiti che quelli di lei stessa, e delle sue possibili forze. Il fatto lo prova. Luigi 14. o primo, o uno de' primi di quei regnanti che appartengono all'epoca della perfezione del dispotismo, diede subito l'esempio al mondo, della moltitudine delle armate. Dato che sia questo esempio il seguirlo è necessario. Perchè siccome oggi la grandezza di un'armata è arbitraria bensì, ma dipende, e deve corrispondere quanto si possa a quella del nemico, [906] così se quella del nemico è grande, bisogna che ancor voi, se potete, ancorchè non voleste, facciate che la vostra sia grande, e superi, potendo, in grandezza la nemica; nello stesso modo che la potreste far piccola, anzi menomissima per le stesse ragioni, nel caso opposto, come ho detto p. 902. Infatti l'esempio di Luigi 14. fu seguito sì da' principi suoi nemici, sì da Federico secondo, il filosofo despota, e l'autore di molti nuovi progressi del despotismo, da lui felicemente coltivato e promosso. Ed egli parimente obbligò alla stessa cosa i suoi nemici. Finalmente la cosa è stata portata all'eccesso da Napoleone, per ciò appunto ch'egli è stato l'esemplare della forse ultima perfezione del despotismo. Non però quest'eccesso è l'ultimo a cui vedremo naturalmente e inevitabilmente arrivare la cosa.

Dico inevitabilmente, supposti i progressi o la durata del dispotismo, e del presente stato delle nazioni, le quali due cose, secondo l'andamento dei tempi, il sapere che regna ec. non pare che per ora, possano far altro che nuovi progressi, o pigliar nuove radici. E in questo caso, dico inevitabilmente, sì per l'egoismo naturale dell'uomo, e conseguentemente del principe, egoismo il cui effetto è sempre necessariamente proporzionato al potere dell'egoista; sì ancora perchè dato che sia l'esempio, e preso il costume questo andamento, la cosa si rende necessaria anche a chi non la volesse. E [907] che ciò sia vero, osservate. Come si potrebbe rimediare a questo costume, ancorchè egli sia in ultima analisi arbitrario e dipendente dalla volontà? Con un accordo generale dei principi, di tutti coloro che possono mai guerreggiare? Non ignoro che questo accordo si tentò, o si suppose che si tentasse o proponesse al Congresso di Vienna. E certo l'occasione era l'ottima che potesse mai darsi, ed altra migliore non si darà mai. So però che nulla se n'è fatto. Forse avranno conosciuta l'impossibilità, che realmente vi si oppone. Primo, qual è oggi la guarentia de' trattati, se non la forza o l'interesse? Qual forza dunque o quale interesse vi può costringere a non cercare il vostro interesse con tutte le forze che potete? Secondo, (e questo prova più immediatamente che, anche volendo, non si può rimediare) chi si fida di un trattato precedente, in tempo di guerra? Chi non conosce quello che ho detto qui sopra nel primo luogo? e generalmente, chi non conosce la natura universale e immutabile dell'uomo? Se dunque il principe conosce tutto ciò, dunque sospetta del suo nemico; dunque anche non volendo, è obbligato a tenersi e provvedersi in modo ch'egli sappia resistere quanto più si può, a qualunque forza che il nemico voglia impiegare per attaccarlo. Chi è colui che possa levar mille uomini, e ne levi cento, non sapendo se il nemico l'assalterà [908] con cento o con mille, anzi avendo più da creder questo che quello? E quando si fosse fatto l'accordo generale, e osservatolo per lungo tempo, tanto maggiore sarebbe il vantaggio proposto a chi improvvisamente rompesse il patto: e quindi presto o tardi questo tale non mancherebbe. Ciò lo metterebbe in pieno possesso del suo nemico, e dopo un esempio solo di questa sorta, ognuno diffiderebbe, nessuno vorrebbe sull'incertezza arrischiare il tutto, e tutti ritornerebbero al primo costume. E ciò si deve intendere non meno in tempo di guerra che di pace, essendo sempre continuo il pericolo che i governi portano l'uno dall'altro. E ciò ancora è manifesto dal fatto, e dalle grandi forze che si tengono ora in tempo di pace, così che non c'è ora un tempo dove un paese resti disarmato, anzi non bene armato, a differenza sì de' tempi antichi, sì de' secoli cristiani anteriori a questi ultimi.

Da tutto ciò segue che le armate non solo non iscemeranno più, ma cresceranno sempre, cercando naturalmente ciascuno di superare l'altro con tutte le sue forze, e le sue forze stendendosi quanto quelle della nazione: che quindi le nazioni intiere, come fra gli antichi, si scanneranno scambievolmente, ma non, come fra gli antichi, spontaneamente, e di piena volonterosità, anzi vi saranno cacciate per marcia forza; non odiandosi scambievolmente, anzi essendo in piena indifferenza, e forse anche bramando di esser vinte (perchè, ed anche questo è notabile, perduto l'amor di patria, e l'indipendenza interna, la novità del padrone, e delle leggi, governo ec. non solo non è odiata nè temuta, ma spesso desiderata e preferita) non per il proprio bene, ma per l'altrui; non per il ben comune, ma di uno solo; anzi di quei soli che abborriranno più di qualunque altro, [909] e più assai di chi combatteranno; insomma non secondo natura, nè per effetto naturale, ma contro natura assolutamente. E lo stesso dite di tutte le altre conseguenze del dispotismo, sì rispetto alla guerra, come indipendentemente da essa. Cioè i popoli, sì per causa delle proprie e delle altrui armate, sì astraendo da ciò, saranno smunti, impoveriti, disanguati, privati delle loro comodità, impedita o illanguidita l'agricoltura, collo strapparle i coltivatori, e collo spogliarla del prodotto delle sue fatiche; inceppato e scoraggiato il commercio e l'industria, collo impadronirsi che farà del loro frutto, il sempre crescente dispotismo ec. ec. ec. In somma le nazioni, senza odiarsi come anticamente, saranno però come anticamente desolate, benchè senza tumulto, e senza violenza straordinaria; lo saranno dall'interno più che dall'estero, e da questo ancora, secondo le circostanze ec. ec. E tutto ciò non già verisimilmente, o senza una stabile e necessaria cagione, ma per conseguenza immancabile della natura umana, la quale non perchè sia diversa e peggiore ne' principi, ma semplicemente come natura umana, li porterà inevitabilmente a tutto questo; e il fatto già lo dimostra in moltissime e grandissime parti. E tutto ciò senza ricavarne quell'entusiasmo, quel movimento, quelle virtù, quel valore, quel coraggio, quella tolleranza dei mali e delle fatiche, quella costanza, quella forza, quella vita pubblica e individuale, che derivava agli antichi anche dalle stesse grandi calamità: anzi per lo contrario, crescendo in proporzione delle moderne calamità, [910] il torpore, la freddezza, l'inazione, la viltà, i vizi, la monotonia, il tedio, lo stato di morte individuale, e generale delle nazioni. Ecco i vantaggi dell'incivilimento, dello spirito filosofico e di umanità, del diritto delle genti creato, dell'amore universale immaginato, dell'odio scambievole delle nazioni distrutto, dell'antica barbarie abolita.

Queste mie osservazioni sono in senso tutto contrario a quello dell'Essai ec. loc. cit. da me p. 888 il quale fa derivare la moltitudine delle armate moderne dallo spirito ed odio nazionale, ed egoismo delle nazioni, ed io (credo molto più giustamente) dalla totale ed ultima estinzione di questo spirito, e quindi di quest'odio, e di questo egoismo.

6. Non solamente le virtù pubbliche, come ho dimostrato, ma anche le private, e la morale e i costumi delle nazioni, sono distrutti dal loro stato presente. Dovunque ha esistito vero e caldo amor di patria, e massime dove più, cioè ne' popoli liberi, i costumi sono stati sempre quanto fieri, altrettanto gravi, fermi, nobili, virtuosi, onesti, e pieni d'integrità. Quest'è una conseguenza naturale dell'amor patrio, del sentimento che le nazioni, e quindi gl'individui hanno di se stessi, della libertà, del valore, della forza delle nazioni, della rivalità che hanno colle straniere, e di quelle illusioni grandi e costanti e persuasive che nascono da tutto ciò, e che vicendevolmente lo producono: ed ella è cosa evidente che la virtù non ha fondamento se non se nelle illusioni, e che dove mancano le illusioni, manca la virtù, e regna il vizio, nello stesso modo che la dappocaggine e la viltà. Queste son cose evidenti nelle storie, ed osservate da tutti i filosofi, e politici. Ed è tanto vero; che le virtù private si trovano sempre in proporzione coll'amor patrio, e colla forza e magnanimità di una nazione; e l'indebolimento di queste [911] cose, colla corruttela dei costumi; e la perdita della morale si trova nella storia sempre compagna della perdita dell'amor patrio, della indipendenza, delle nazioni, della libertà interna, e di tutte le antiche e moderne repubbliche: influendo sommamente e con perfetta scambievolezza, la morale e le illusioni che la producono, sull'amor patrio, e l'amor patrio sulle illusioni e sulla morale. È cosa troppo nota qual fosse la depravazione interna de' costumi in Francia da Luigi 14. il cui secolo, come ho detto, fu la prima epoca vera della perfezione del dispotismo, ed estinzione e nullità delle nazioni e della moltitudine, sino alla rivoluzione. La quale tutti notano che ha molto giovato alla perduta morale francese, quanto era possibile 1. in questo secolo così illuminato, e munito contro le illusioni, e quindi contro le virtù: 2. in tanta, e tanto radicata e vecchia depravazione, a cui la Francia era assuefatta: 3. in una nazione particolarmente ch'è centro dell'incivilimento, e quindi del vizio: 4. col mezzo di una rivoluzione operata in gran parte dalla filosofia, che volere o non volere, in ultima analisi è nemica mortale della virtù, perch'è amica anzi quasi la stessa cosa colla ragione, ch'è nemica della natura, sola sorgente della virtù. (30. Marzo-4. Aprile 1821).

Analogo al pensiero precedente è questo che segue. [912] È cosa osservata dai filosofi e da' pubblicisti che la libertà vera e perfetta di un popolo non si può mantenere, anzi non può sussistere senza l'uso della schiavitù interna. (Così il Linguet, credo anche il Rousseau, Contrat social l. 3. ch. 15. ed altri. Puoi vedere anche l'Essai sur l'indifférence en matière de Religion, ch. 10. nel passo dove cita in nota il detto luogo di Rousseau insieme con due righe di questo autore.) Dal che deducono che l'abolizione della libertà è derivata dall'abolizione della schiavitù, e che se non vi sono popoli liberi, questo accade perchè non vi sono più schiavi. Cosa, che strettamente presa, è falsa, perchè la libertà s'è perduta per ben altre ragioni, che tutti sanno, e che ha toccate in cento luoghi. Con molto maggior verità si potrebbe dire che l'abolizione della schiavitù è provenuta dall'abolizione della libertà; o vogliamo, che tutte due son provenute dalle stesse cause, ma però in maniera che questa ha preceduto quella e per ragione e per fatto.

La conseguenza, dico, è falsa: ma il principio della necessità della schiavitù ne' popoli precisamente liberi, è verissimo. Ecco in ristretto il fondamento e la sostanza di questa proposizione.

L'uomo nasce libero ed uguale agli altri, e tale egli è per natura, e nella stato primitivo. Non così nello [913] stato di società. Perchè in quello di natura, ciascuno provvede a ciascuno de' suoi bisogni e presta a se medesimo quegli ufficii che gli occorrono, ma nella società ch'è fatta pel ben comune, o ella non sussiste se non di nome, ed è al tutto inutile che gli uomini si trovano insieme, ovvero conviene ch'essi si prestino uffizi scambievoli, e provvedano mutuamente a' loro bisogni. Ma ciascuno a ciascun bisogno degli altri non può provvedere: ovvero sarebbe cosa ridicola, e inutile, che io per esempio pensassi intieramente a te, tu intieramente a me, potendo nello stesso modo viver separati, e far ciascuno per noi. Dunque segue la necessità delle diverse professioni e mestieri, alcuni necessari alla vita assolutamente, ovvero tali quali li avrebbe esercitati l'individuo anche nella condizione naturale; altri non necessari, ma derivati appoco appoco dalla società e conducenti ai comodi e vantaggi che si godono (o si pretende godere) nella vita sociale, e intendo anche quei comodi primi primi, che ora passano per necessità; altri finalmente resi effettivamente necessari dalla stessa società come sono i mestieri che provvedono a cose divenuteci indispensabili per l'assuefazione, quello di chi insegna, quello massimamente di chi provvede alle cose pubbliche e veglia al bene e all'esistenza precisa di essa società; quello delle persone che difendono il buono dal cattivo (giacchè nata [914] la società nasce il pericolo del debole rispetto al forte) e la società istessa dalle altre società ec. ec. ec. In somma, o la società non esiste assolutamente, o in essa esiste necessariamente la differenza dei mestieri e dei gradi.

Questo porterebbe le nazioni alle gerarchie, e così accadde infatti da principio, e accade ne' popoli ancora non inciviliti, siccome ne' civili. Ma corrotta appoco appoco la società, e introdotto l'abuso del potere; e quindi i popoli avendo scosso il giogo e ripigliata la libertà naturale, ripigliarono con ciò anche l'uguaglianza. Ed oltre che questa naturalmente vien dietro alla libertà, ho dimostrato altrove che la vera e precisa libertà non può mantenersi in una repubblica, senza tutta quella uguaglianza di cui mai possa esser capace la società.

Ma la libertà ed uguaglianza dell'uomo gli è bensì naturale nello stato primitivo; ma non conviene nè si compatisce, massime nella sua stretta nazione, collo stato di società, per le ragioni sopraddette. Restava dunque, che richiedendosi nella società che l'uomo serva all'uomo, e questo opponendosi alla uguaglianza, l'uomo di una tal società fosse servito da uomini di un'altra, o di più altre società o nazioni, ovvero da una parte di quella medesima società, posta fuori de' diritti, de' vantaggi, delle proprietà, della uguaglianza, della libertà di questa, insomma considerata come estranea alla [915] nazione, e quasi come un'altra razza e natura di uomini dipendente, subalterna, e subordinata alla razza libera e uguale. Ecco l'uso della schiavitù interna ne' popoli liberi e uguali; uso tanto più inerente alla costituzione di un popolo, quanto egli è più intollerante della propria servitù, come si è veduto negli antichi. In questo modo la disuguaglianza in quel tal popolo libero veniva ad esser minore che fosse possibile, essendo le fatiche giornaliere, i servigi bassi, che avrebbero degradata l'uguaglianza dell'uomo libero, la coltura della terra ec. destinata agli schiavi: e l'uomo libero, chiunque si fosse, e per povero che fosse, restando padrone di se, per non essere obbligato ai quotidiani servigi mercenarii, che vengono necessariamente a togliere in sostanza la sua indipendenza e libertà; e non partecipando quasi, in benefizio comune della società, se non della cura delle cose pubbliche, e del suo proprio governo, della conservazione o accrescimento della patria col mezzo della guerra ec. colle sole differenze che nascevano dal merito individuale ec.

Tale infatti era la schiavitù nelle antiche repubbliche. Tale in Grecia, tale quella degl'Iloti, stirpe tutta schiava presso i Lacedemoni, oriunda di Elos (῞Eλος) terra (oppidum) o città (casi Strabone presso il Cellar. 1.967.) del Peloponneso, presa a forza da' Lacedemoni nelle guerre, credo, Messeniache, e ridottane tutta la popolazione in ischiavitù, sì essa come i suoi discendenti in perpetuo. Vedi l'Encyclopédie, Antiquités, art. Ilotes, e il Cellario 1.973. Tale la schiavitù presso i Romani, della quale vedi fra gli altri il Montesquieu, [916] Grandeur etc. ch.17. innanzi alla metà. Floro 3. 19. Terra frugum ferax, (Sicilia) et quodammodo suburbana provincia, latifundiis civium Romanorum tenebatur. Hic ad cultum agri frequentia ergastula, catenatique cultores, materiam bello praebuere. E quanta fosse la moltitudine degli schiavi presso ai Romani si può congetturare dalla guerra servile, e dal pericolo che ne risultò. Ne avevano i Romani, cred'io, d'ogni genere di nazioni; e Floro l.c. nomina un servo Siro cagione e capo della guerra servile; Frontone nell'ultima epist. greca, una serva Sira ec. ec. cose che si possono vedere in tutti gli scrittori delle antichità Romane. Vedi il Pignorio De Servis, e, se vuoi, l'articolo originale del Cav. Hager nello Spettatore di Milano 1. Aprile 1818. Quaderno 97. p. 244. fine-245. principio, dove si tocca questo argomento della gran moltitudine de' servi romani, e se ne adducono alcuni esempi e prove, e si cita il detto Pignorio che dovrebbe trovarsi nel Grevio ec. Cibale schiava Affricana è nominata nel Moretum.

E qual fosse l'idea morale che gli antichi avevano degli schiavi, si può dedurre da cento altri scrittori e luoghi, e fatti, e costumi degli antichi, ma segnatamente da questo luogo di Floro 3. 20. Enimvero servilium armorum dedecus feras. Nam et ipsi per fortunam in omnia obnoxii (scil. nobis) tamen quasi secundum hominum genus sunt, et in bona libertatis nostrae adoptantur.

Questa seconda razza di uomini serviva dunque alla uguaglianza e libertà de' popoli antichi, in proporzione di essa libertà ed uguaglianza, e delle forze rispettive di questo o quel popolo, guerriere o pecunarie ec. [917] per fare o comperare degli schiavi. E l'antica uguaglianza e libertà, si manteneva effettivamente coll'aiuto e l'appoggio della schiavitù, ma della schiavitù di persone, che non avevano nulla di comune col corpo e la repubblica e la società di quelli che formavano la nazione libera ed uguale. Così che la libertà ed uguaglianza di una nazione, aveva bisogno, e supponeva la disuguaglianza delle nazioni, e l'una non era indipendente neppure al di dentro, se non per la soggezione di altre, o parti di altre ec.

E la verità di tutte queste cose, e come l'uso o la necessità della schiavitù in un popolo libero abbia la sua ragione immediata non nella libertà, ma precisamente nella uguaglianza interna di esso popolo, si può vedere manifestamente per questa osservazione, la quale dà molta luce a questo discorso. Arriano (Historia Indica, cap.10. sect. 8-9. edit. Wetsten. cum Expedit. Alexand., Amstelaed. 1757. cura Georg. Raphelii, p.571.) dice fra le cose che si raccontavano degl'Indiani: Eἶναι δὲ (λέγεται) χαὶ τόδε μέγα ἐν τῇ ᾽Iνδῶν γῇ, πάντας ᾽Iνδους  εἶναι ἐλευϑέρους, οὐδέ τινα δοῦλον εἶναι ᾽Iνδόν∙ τοῦτο  μὲν Λαχεδαιμονίοισιν ἐς ταυτὸ συμβαίνει χαὶ ᾽Iνδοῖσιν∙ (qua quidem in re Indis cum Lacedaemoniis convenit. Interpres.)  Λαχεδαιμονίοις μὲν γε οἰ εἵλωτες δοῦλοί εἰσιν ...  χαὶ τὰ δοῦλων ἐγράζονται∙ ᾽Iνδοῖσι δὲ, οὐδὲ ἄλλος δοῦλός ἐστι, τή τι γε ᾽Iνδῶν τις (μήτοιγε nedum. Index vocum.) [918] Osservate subito che questa cosa pare ad Arriano maravigliosa e singolare. Poi osservate, che gl'indiani erano liberi, cioè parte avevano monarchie, ma somiglianti a quella primitiva di Roma ch'era una specie di Repubblica e alle antichissime monarchie greche; parte erano πόλιες αὐτόνομοι città libere e indipendenti assolutamente. (Id. ibid. c. 12. sect. 6. et 5. p. 574.) Qual era dunque la cagione di questa singolarità? Sebbene Arriano non l'osserva, ella si trova però in quello ch'egli soggiunge immediatamente. Ed è questo: Nενέμενται  δὲ οἱ πάντες ᾽Iνδοὶ ἐς ἑπτὰ μάλιστα γενεάς (Distinguuntur autem Indi omnes in septem potissimum genera hominum Interpres.), ossia, caste. (Id. ib. c. 11. sect. 1. p. 571.) La prima de' sofisti (σοϕισταί), la seconda degli agricoltori (γεωργοί), la terza de' pastori e bifolchi (νομέες οἱ ποιμένες τε χαὶ βουχόλοι), la quarta opificum et negotiatorum (δημιουργιχόν τε χαὶ χατηλιχὸν γένος), la quinta dei militari (οἱ πολεμισταί) i quali non avevano che a far la guerra quando bisognava, pensando gli altri a fornirli di armi, mantenerli, pagarli (tanto in tempo di guerra che di pace) e prestar loro tutti quanti gli uffizi castrensi, come custodire i cavalli, condurre gli elefanti, nettare le armi, fornire e guidare i cocchi, sicchè non restava loro che le pure funzioni guerriere; la sesta episcoporum sive inquisitorum (οἱ ἐπίσχοποι χαλεόμενοι), specie d'ispettori di polizia, i quali non potevano [919] riferir niente di falso, e nessun indiano fu incolpato mai di menzogna οὐδὲ τις ᾽Iνδῶν αἰτίην ἔσχε ψεύσασϑαι (c. 12. sect. 5. p. 574. fine); la settima finalmente οἱ . ὑπὲρ τῶν χοινῶν βουλευόμενοι ὁμοῦ τῷ βασιλεῖ, ἢ χατὰ πόλιας ὅσαι αὐτόνομοι (liberae interpres) σὺν τῇσιν ἀρχῇσιν: casta per sapienza e giustizia (σοϕίῃ χαὶ διχαιότητι) sopra tutti prestante, dalla quale si sceglievano i magistrati, i regionum praesides (νομάρχαι), i prefetti (ὕπαρχοι), i quaestores (ϑησαυροϕύλαχες), i στρατοϕύλαχες (copiarum duces), ναύαρχοί τε χαὶ ταμίαι χαὶ τῶν χατὰ γεωργίην ἔργων ἐπιστάται. (ib. c. 12. sect. 6-7.) Ecco dunque la ragione perchè gl'indiani non usavano schiavitù. Perchè sebben liberi, non avevano l'uguaglianza.

Ma come dunque senza l'uguaglianza conservavano la libertà? Neppur questo l'osserva Arriano, ma la cagione si deduce da quello ch'egli immediatamente soggiunge: (ib. sect. 8-9) Гαμέειν δέ ἐξ ἑτέρου γένεος οὐ ϑέμις. οἷον τοῖσι γεωργοῖσιν ἐχ τοῦ δημιουργιχοῦ, ἢ ἔμπαλιν: οὐδὲ δύο τέχνας ἐπιτηδεύειν τὸν αύτόν, οὐδὲ τοῦτο ϑέμις. οὐδὲ ἀμείβειν ἐξ ἑτέρου γένεος εἰς ἕτερον, οἷον γεωργιχὸν ἐχ νομέως γενέσϑαι, ἢ νομέα ἐχ δημιουργιχοῦ. Mοῦνόν σϕισιν ἀνεῖται, σοϕιστὴν ἐχ παντὸς γένεος γενέσϑαι∙ ὅτι οὐ μαλϑαχὰ τοῖσι σοϕιστῇσίν είσι τὰ πρήγματα, ἀλλὰ πάντων ταλαιπωρότατα (non mollis vita sed omnium laboriosissima. interpres.)

Questa costituzione, che si vede ancora sussistere fra [920] gl'indiani quanto alla distinzione in caste, e al divieto di passare dall'una all'altra o per matrimonii, o comunque; (1) a questa costituzione che sussiste, credo, in parte anche nella Cina, dove il figlio è obbligato ad esercitare la professione del padre, e dove i ranghi sono con molta precisione distinti; questa costituzione, di cui, se ben ricordo, si trova qualche traccia fra gli antichi Persiani nel primo o ne' primi libri della Ciropedia; questa costituzione, di cui si trova pure qualche indizio nel popolo Ebreo, dove una sola tribù era destinata esclusivamente al Sacerdozio; questa costituzione che pare che in tutto o in parte, fosse comune, fino dagli antichissimi tempi, ai popoli dell'Asia, e si vede, se non erro, anche oggidì, in alcune nazioni delle coste dell'Affrica; questa costituzione di cui forse si potrebbero trovare molte somiglianze anche nelle altre conosciute, e massime nelle più antiche, come nell'antica costituzione di Roma ec.; questa costituzione, dico, è forse la migliore, forse l'unica capace di conservare, quanto è possibile, la libertà senza l'uguaglianza.

Perocchè, ponendo un freno e un limite all'ambizione, e alla cupidigia degl'individui, e togliendo [921] loro la facoltà di cangiare, e di avanzare più che tanto la loro condizione, viene a togliere in gran parte la collisione dei poteri, e le discordie interne; viene a conservare l'equilibrio, a mantenere lo stato primitivo della repubblica (che dev'essere il principale scopo degl'istituti politici), a perpetuare l'ordine stabilito ec. ec.

Vero è però, anzi troppo vero, che in questa costituzione io dubito che si possano trovare i grandi vantaggi della libertà. Si troverà la quiete, e la detta costituzione sarà adattata ad un popolo, che per qualunque cagione, sia capace di contentarsi di questo vantaggio, e contenere i suoi desideri dentro i limiti del tranquillo e libero ben essere, e ben vivere, senza curarsi del meglio che in verità è sempre nemico del bene. Ma l'entusiasmo, la vita, le virtù splendide dei popoli liberi, non pare che si possano compatire con questa costituzione. Tolte le due molle dell'ambizione e della cupidigia, vale a dire dell'interesse proprio; tolta quasi la molla della speranza, almeno della grande speranza; deve seguirne l'inattività, e il poco valore in tutto il significato di questa parola, la poca forza nazionale ec. L'interesse proprio non essendo legato con quello della patria, o per lo meno, con quello del di lei avanzamento, giacchè questo avanzamento non sarebbe [922] legato, o certo poco legato, coll'avanzamento individuale, e di quello stesso che avesse procurato l'avanzamento della patria; di più non partecipando, se non pochissimi al governo, e quindi la moltitudine, non sentendo intimamente di far parte della patria, e d'esser compatriota de' suoi capi; l'amor patrio in questo tal popolo, o non deve formalmente e sensibilmente esistere, o certo non dev'esser molto forte, nè cagione di grandi effetti, nè capace di spingere l'individuo a grandi sacrifizi.

Il fatto dimostra queste mie osservazioni. Perchè una conseguenza immancabile di questa costituzione, dev'essere, secondo il mio discorso, che un tal popolo, ancorchè libero, e quanto all'interno, durevole nella sua libertà, e nel suo stato pubblico, tuttavia non possa essere conquistatore. Ora ecco appunto che Arriano ci dice, come gl'indiani non solo non furono mai conquistatori, ma per una parte, da Bacco e da Ercole in poi era opinione οὐδένα ἐμβαλεῖν ἐς γῆν τῶν ᾽Iνδῶν ἐπὶ πολέμῳ, fino ad Alessandro (l. c. c. 9. sect. 10. p. 569); ed ecco la cagione per cui anche senza troppa forza nazionale, ed interna, il loro stato potè durare lungamente: per l'altra parte era pure opinione (sect. 12. p. cit.) οὐ μὲν δὴ οὐδὲ ᾽Iνδῶν τινα ἔξω τῆς οἰχείης σταλῆναι ἐπὶ πολέμῳ, διὰ διχαιότητα (ad bellum missum [923] esse. interpres). E altrove più brevemente: (c. 5. sect. 4. p. 558.) Oὖτος ὦν ὁ Mεγασϑένης λέγει, οὔτε ᾽Iνδοὺς ἐπιστρατεῦσαι οὐδαμοῖσιν ἀνϑρώποισιν, οὔτε ᾽Iνδοῖσιν ἄλλους ἀνϑρώπους.  Cioè fino ad Alessandro. Conseguenza naturale della detta costituzione, sebbene Arriano lo riferisce staccatamente, e come indipendente, e non vede la relazione che hanno queste cose tra loro. Vedi p. 943. capoverso 2.

Il fatto sta che siccome nessuna nazione è così atta alla qualità di conquistatrice, come una nazione libera, il che apparisce dal fatto, e da quello che ho ragionato nel pensiero antecedente ec.; così anche è pur troppo vero che il maggior pericolo della libertà di un popolo nasce dalle sue conquiste e da' suoi qualunque ingrandimenti, che distruggono appoco [appoco] l'uguaglianza, senza cui non c'è vera libertà, e cangiano i costumi, lo stato primitivo, l'ordine della repubblica; sicchè finalmente la precipitano nella obbedienza. Cosa anche questa dimostrata dal fatto. (4-6. Aprile 1821).

Siccome l'amor patrio o nazionale non è altro che una illusione, ma facilmente derivante dalla natura, posta la società, com'è naturale l'amor proprio nell'individuo, e posta la famiglia, l'amor di famiglia, che si vede anche ne' bruti; così esso non si mantiene, e non produce buon frutto senza le illusioni e i pregiudizi che naturalmente ne derivano, o che anche ne sono il fondamento. L'uomo non è sempre ragionevole, ma sempre conseguente in un modo o nell'altro. Come dunque amerà [924] la sua patria sopra tutte, e come sarà disposto nei fatti, a tutte le conseguenze che derivano da questo amore di preferenza, se effettivamente egli non la crederà degna di essere amata sopra tutte, e perciò la migliore di tutte; e molto più s'egli crederà le altre, o qualcun'altra, migliore di lei? Come sarà intollerante del giogo straniero, e geloso della nazionalità per tutti i versi, e disposto a dar la vita e la roba per sottrarsi al dominio forestiero, se egli crederà lo straniero uguale al compatriota, e peggio, se lo crederà migliore? Cosa indubitata: da che il nazionale ha potuto o voluto ragionare sulle nazioni, e giudicarle; da che tutti gli uomini sono stati uguali nella sua mente; da che il merito presso lui non ha dipenduto dalla comunanza della patria ec. ec.; da che egli ha cessato di persuadersi che la sua nazione fosse il fiore delle nazioni, la sua razza, la cima delle razze umane; dopo, dico, che questo ha avuto luogo, le nazioni sono finite, e come nella opinione, così nel fatto, si sono confuse insieme; passando inevitabilmente la indifferenza dello spirito e del giudizio e del concetto, alla indifferenza del sentimento, della inclinazione, e dell'azione. E questi pregiudizi che si rimproverano alla Francia, perchè offendono l'amor proprio degli stranieri, sono la somma salvaguardia della sua nazionale indipendenza, come lo furono presso gli antichi; [925] la causa di quello spirito nazionale che in lei sussiste, di quei sacrifizi che i francesi son pronti a fare ed hanno sempre fatto, per conservarsi nazione, e per non dipendere dallo straniero; e il motivo per cui quella nazione, sebbene così colta ed istruita (cose contrarissime all'amor patrio), tuttavia serba ancora, forse più che qualunque altra, la sembianza di nazione. E non è dubbio che dalla forza di questi pregiudizi, come presso gli antichi, così nella Francia, doveva seguire quella preponderanza sulle altre nazioni d'Europa, ch'ella ebbe finora, e che riacquisterà verisimilmente. (6. Aprile 1821).

Si considera come sola cosa necessaria la vita, la quale anzi è la cosa meno necessaria di tutte le altre. Perchè tutte le necessità o desiderabilità hanno la loro ragione nella vita, la quale, massime priva delle cose o necessarie o desiderabili, non ha la ragione della sua necessità o desiderabilità in nessuna cosa. (6. Aprile 1821).

La superiorità della natura sopra tutte le opere umane, o gli effetti delle azioni dell'uomo, si può vedere anche da questo, che tutti i filosofi del secolo passato, e tutti coloro che oggi portano questo nome, e in genere tutte le persone istruite di questo secolo, che è indubitatamente [926] il più istruito che mai fosse, non hanno altro scopo rispetto alla politica (parte principale del sapere umano), e non sanno trovar di meglio che quello che la natura aveva già trovato da se nella società primitiva, cioè rendere all'uomo sociale quella giusta libertà ch'era il cardine di tutte le antiche politiche presso tutte le nazioni non corrotte, e così oggi presso tutte le popolazioni non incivilite, e allo stesso tempo non barbarizzate, cioè tutte quelle che si chiamano barbare, di quella barbarie primitiva, e non di corruzione. (6 Aprile 1821).

Alla p. 872. E non per altra cagione sono odiose e riputate contrarie alla buona creanza le lodi di se medesimo, se non perchè offendono l'amor proprio di chi le ascolta. E perciò la superbia è vizio nella società, e perciò l'umiltà è cara, e stimata virtù. (7. Aprile 1821).

In qualunque nazione o antica o moderna s'incontrano grandi errori contrari alla natura, come dovunque grandi cognizioni contrarie alla natura; quivi non s'incontra niente o ben poco di grande di bello di buono. E questo è l'uno de' principali motivi per cui le nazioni orientali, ancorchè grandi, ancorchè la loro storia rimonti a tempi antichissimi, tempi ordinariamente compagni del grande e del bello; ancorchè ignorantissime in ultima analisi, e quindi prive dei grandi ostacoli della ragione e del vero, e questo anche oggidì; tuttavia non offrano quasi niente di vero grande nè di vero bello, e ciò tanto [927] riguardo alle azioni, ai costumi, all'entusiasmo e virtù della vita, quanto alle produzioni dell'ingegno e della immaginazione. E la causa per la quale i Greci e i Romani soprastanno a tutti i popoli antichi, è in gran parte questa, che i loro errori e illusioni furono nella massima parte conformissime alla natura, sicchè si trovarono egualmente lontani dalla corruzione dell'ignoranza, e dal difetto di questa. Al contrario de' popoli orientali le cui superstizioni ed errori, che sebbene moderni e presenti, si trovano per lo più di antichissima data, furono e sono in gran parte contrarie alla natura, e quindi con verità si possono chiamar barbare. E si può dire che nessun popolo antico, nell'ordine del grande e del bello, può venire in paragone de' greci e de' Romani. Il che può derivare anche da questo, che forse i secoli d'oro degli altri popoli, come degli Egiziani, degl'Indiani, de' Cinesi, de' Persiani ec. ec. essendo venuti più per tempo, giacchè questi popoli sono molto più antichi, la memoria loro non è passata fino a noi, ma rimasta nel buio dell'antichità, col quale viene a coincidere la epoca dei detti secoli; e per lo contrario ci è pervenuta la memoria sola della loro corruzione e barbarie, succeduta naturalmente alla civiltà, e abbattutasi ad esser contemporanea della grandezza e del fiore dei popoli Greco e Romano, la qual grandezza occupa [928] e signoreggia le storie nostre, alle quali per la maggior vicinanza de' tempi ha potuto pervenire, e perch'ella signoreggiò effettivamente in tempi più vicini a noi. Anzi si può dire che quanto ci ha di grande e di bello rispetto all'antichità nelle storie, e generalmente in qualunque memoria nostra, tutto appartiene all'ultima epoca dell'antichità, della quale i greci e i Romani furono effettivamente gli ultimi popoli. ῏Ω ῞Eλληνες ἀεἰ παῖδές ἐστε ec. Platone in persona di quel sacerdote Egiziano. (10. Aprile 1821). Vedi p. 2331.

Spegnere parola tutta propria oggi degl'italiani, non pare che possa derivare da altro che da σβεννύειν mutato, oltre la desinenza, il ν in p, mutazione ordinaria per esser due lettere dello stesso organo, cioè labiali, e il doppio ν in gn, questo pure ordinario, e ordinarissimo presso gli spagnuoli che da annus fanno año ec. ec. Se dunque spegnere deriva dalla detta parola greca, è necessario supporre ch'ella fosse usitata nell'antico latino, (sia che le dette mutazioni, o vogliamo, diversità di lettere esistessero già nello stesso latino, sia che vi fossero introdotte, nel passare questa parola dal latino in italiano) tanto più che l'uso del detto verbo spegnere è limitato, (cred'io) alla sola Italia. Il Forcellini non ha niente di simile nelle parole comincianti per exb, exp, exsb, exsp, sb, sp. Parimente il Ducange, che ho ricercato accuratamente. (10. Aprile 1821).

La lingua Sascrita, quell'antichissima lingua indiana, che quantunque diversamente alterata e corrotta, e distinta in moltissimi dialetti, vive ancora e si parla in tutto l'Indostan, [929] (Annali di Scienze e Lettere, Milano. 1811. Gennaio. vol.5. n. 13. Vilkins, Gramatica della lingua Sanskrita: articolo tradotto da quello di un cospicuo letterato nell'Edinburgh Review. p. 28-29-31. fine-32. principio. e 32. mezzo. 35. fine-36. principio) e altre parti dell'India, (ivi 28. fine) e segnatamente sotto nome di lingua Pali in tutte le nazioni poste all'oriente della medesima India (ivi 36.); quella lingua che Sir William (Guglielmo) Jones famosissimo per la cognizione sì delle cose orientali, sì delle lingue orientali e occidentali (ivi 37. princip. e fine), non dubitò di dichiarare essere più perfetta della greca, più copiosa della Latina, e dell'una e dell'altra più sapientemente raffinata (ivi 52.); quella lingua dalla quale è opinione di alcuni dotti inglesi del nostro secolo, non senza appoggio di notabili argomenti e confronti, che sieno derivate, o abbiano avuto origine comune con lei, le lingue Greca, Latina, Gotica, e l'antica Egiziana o Etiopica (come pure i culti popolari primitivi di tutte queste nazioni) (ivi. 37. 38. princip. e fine); questa lingua, dico, antichissima, ricchissima, perfettissima, avendo otto casi, non si serve delle preposizioni coi nomi (i suoi otto casi rendono superfluo l'uso delle preposizioni. ivi 52. fine), ma le adopera esclusivamente da prefiggersi ai verbi, come si fa in greco, laddove, sole, rimangonsi prive affatto d'ogni significato. (ivi.) Così che tutte le sue preposizioni sono destinate espressamente ed unicamente alla composizione, e a variare e moltiplicare col mezzo di questa, i significati [930] dei verbi. (Altre particolarità di quella lingua, analoghe affatto alle particolarità e pregi delle nostre lingue antiche, come formalmente l'osserva l'Estensore dell'articolo, puoi vederle, se ti piacesse, nel fine d'esso articolo, cioè dalla metà della p. 52. a tutta la p. 53.) (11. Aprile 1821).

Oggi l'uomo è nella società quello ch'è una colonna d'aria rispetto a tutte le altre e a ciascuna di loro. S'ella cede, o per rarefazione, o per qualunque conto, le colonne lontane premendo le vicine, e queste premendo nè più nè meno in tutti i lati, tutte accorrono ad occupare e riempiere il suo posto. Così l'uomo nella società egoista. L'uno premendo l'altro, quell'individuo che cede in qualunque maniera, o per mancanza di abilità, o di forza, o per virtù, e perchè lasci un vuoto di egoismo, dev'esser sicuro di esser subito calpestato dall'egoismo che ha dintorno per tutti i lati: e di essere stritolato come una macchina pneumatica dalla quale, senza le debite precauzioni, si fosse sottratta l'aria. (11. Aprile 1821).

A quello che ho detto delle guerre antiche paragonate colle moderne, aggiungete che una nazione intera potrà muover guerra per qualche causa ingiusta, (e ciò ancora più difficilmente che il principe), ma non mai per un assoluto capriccio. Al contrario il principe. Perchè molti non possono avere uno stesso capriccio, essendo il capriccio una cosa relativa, e variabile, secondo le [931] teste, e senza una causa uniforme di esistere. Così che la nazione non si può accordare tutta intiera in un capriccio. Ma s'ella non ha bisogno di convenirci, dipendendo già tutta intera da un solo, e questo solo avendo capricci come gli altri perchè uomo, e più degli altri perchè padrone, e potendo il suo capriccio disporre della guerra e della pace, e di tutto quello che spetta a' suoi sudditi; vedete quali sono le conseguenze; osservate se combinino coi fatti, e poi anche ditemi se dalla possibilità del capriccio nel mover guerra, segua che queste debbano esser più rare o più frequenti delle antiche. (11. Aprile 1821).

Non è cosa più dispiacevole e dispettosa all'uomo afflitto, e oppresso dalla malinconia, dalla sventura presente, o dal presente sentimento di lei, quanto il tuono della frivolezza e della dissipazione in coloro che lo circondano, e l'aspetto comunque della gioia insulsa. Molto più se questo è usato con lui, e soprattutto s'egli è obbligato per creanza, o per qualunque ragione a prendervi parte. (12 Aprile 1821).

La stessa proporzionata disparità ch'è fra gli antichi e i moderni, in ordine al bello, alla immaginazione, alla letizia, alla felicità per l'una parte, e al vero, alla ragione, alla malinconia, alla infelicità per l'altra parte; la stessa, dico, si trova proporzionatamente in ciascheduna età antica o moderna, fra i popoli meridionali e i settentrionali. Sebbene l'antichità era il tempo del bello, [932] e della immaginazione, tuttavia anche allora la Grecia e l'Italia ne erano la patria, e il luogo. E quantunque non fossero quei tempi adattati alla profondità dell'intelletto, al vero, alla malinconia, contuttociò ne' Settentrionali si vede l'inclinazione loro naturale a queste qualità, e negl'inni, nei canti, nelle sentenze staccate dei Bardi, si nota, oltre alla famosa malinconia, una certa profondità di pensiero, e la osservazione di certe verità che anche oggi in tanto progresso della filosofia, non sono le più triviali. Insomma vi si nota un carattere di pensiero diversissimo nella profondità, da quello de' meridionali degli stessi tempi. (Vedi se vuoi, gli Annali di Scienze e Lettere, Milano. vol. 6. n. 18. Giugno 1811. Memoria intorno ai Druidi e ai Bardi Britanni, p. 376-378. e 383 fine - 385. dove si riportano parecchi aforismi e documenti de' Bardi.) Così per lo contrario, sebbene l'età moderna è il tempo del pensiero, nondimeno il settentrione ne è la patria, e l'Italia conserva tuttavia qualche poco della sua naturale immaginazione, del suo bello, della sua naturale disposizione alla letizia ed alla felicità. In quello dunque che ho detto de' miei diversi stati, rispetto alla immaginazione e alla filosofia, paragonandomi col successo de' tempi moderni agli antichi, si può anche aggiungere il paragone coi popoli meridionali e settentrionali. (12 Aprile 1821).

L'estensione reale e strettamente considerata, della quale è capace una lingua, in quanto lingua [933] usuale, quotidiana, propria, e materna, è piccolissima; e molto minore che non si crede. Una stretta conformità di linguaggio, e per conseguenza una medesima lingua strettamente considerata, non è comune se non ad un numero ben piccolo di persone, e non occupa se non un piccolo tratto geografico.

1. Ognuno sa e vede in quante lingue riconosciute, e scritte, e distinte con precisione, sia divisa l'Europa, e il mondo, e come ciascuna nazione usi una lingua differente precisamente dalle altre, e propria sua, sebbene possa aver qualche maggiore o minore affinità colle forestiere.

2. Diffondendosi una nazione, ed occupando un troppo largo tratto di paese, e crescendo a un soverchio numero d'individui, l'esperienza continua dei secoli, e la fede di tutte le storie, dimostra che la lingua di quella nazione si divide, la conformità del linguaggio si perde, e per quanto quella nazione sia veramente ed originariamente la stessissima, la sua lingua non è più una. Così è accaduto alla lingua de' Celti, diffusi per la Gallia, la Spagna, la Bretagna, e l'Italia ec. con che la lingua celtica s'è divisa in tante lingue, quanti paesi ha occupato la nazione. Così alla teutonica, alla slava ec. e fra le orientali all'arabica, colla diffusione de' maomettani.

3. Sebbene un popolo conquistatore trasporti e pianti la sua lingua nel paese conquistato, e distrugga anche del tutto la lingua paesana, la sua lingua in quel tal paese appoco appoco si altera, finattanto che torna a diventare una lingua diversa dalla introdottaci. Testimoni i Romani, [934] la cui lingua piantata colla conquista nella Francia e nella Spagna, (per non estenderci ora ad altro) e distrutta intieramente la lingua indigena (giacchè quei minimi avanzi che ne potessero ancora restare, non fanno caso), non fece altro che alterandosi a poco a poco, finalmente emettere dal suo seno due lingue da lei formalmente diverse, la francese, e la spagnuola. Lo stesso si potrebbe dire d'infinite altre famiglie di lingue Europee, e non Europee, che uscite ciascuna da una lingua sola, colla diffusione dei loro parlatori, si sono moltiplicate e divise in tante lingue quante compongono quella tal famiglia.

4. Anche dalle osservazioni precedenti si può dedurre, che questa impossibilità naturale e positiva dello estendersi una lingua più che tanto, in paese, e in numero di parlatori (o provenga dal clima che diversifichi naturalmente le lingue, o da qualunque cagione), non è solamente dipendente dalla mescolanza di altre lingue che guastino quella tal lingua che si estende, a misura che trova occupato il posto da altre, e ne le caccia: ma che è un'impossibilità materiale, innata, assoluta, per cui, quando anche tutto il resto del mondo fosse vuoto, o muto, quella tal lingua, dilatandosi più che tanto, si dividerebbe appoco appoco in più lingue. E ciò intendo di confermare anche colle osservazioni seguenti.

5. Le colonie che trasportano di pianta una lingua in diversi luoghi, portandovi i di lei stessi parlatori [935] naturali, sono soggette alla stessa condizione. Testimoni i tre famosi e principali dialetti delle colonie greche, Jonico, Dorico, Eolico, per tacere d'infiniti altri esempi.

6. Ciò non basta. Solamente che una nazione, senza occupare paesi discosti, e forestieri, senza trasportarsi in altri luoghi, si dilati, e formi un corpo più che tanto grande, la sua lingua, dentro la stessa nazione, e nelle sue proprie viscere, si divide, e si diversifica più o meno dalla sua primitiva, in proporzione della distanza dal primo e limitato seggio della nazione, dalla prima fonte della nazione e della lingua, la quale non si conserva pura se non in quel preciso e ristretto luogo dov'ella fu primieramente parlata. Testimoni i moltissimi dialetti minori ne' quali era divisa la lingua greca dentro la stessa Grecia, paese di sì poca estensione geografica, il Beotico, il Laconico, il Macedonico, lo Spartano, il Tessalico: e parimente suddivisi i di lei dialetti principali negli altri minori, Cretese, Sciotto, Cipriotto, Cirenese, Delfico, Efesio, Lidio, Licio, Megarese, Panfilio, Fenicio, Regino, Siciliano, Siracusano, Tarentino ec. (Vedi Sisti, Introduzione alla lingua greca §. 211.) Testimoni i dialetti della lingua italiana, della francese, della spagnuola, della tedesca, e di tutte le lingue antiche o moderne, purchè i loro parlatori siano più che tanto estesi di numero e di paese. Che la lingua Ebraica fosse distinta in dialetti nelle stesse tribù Ebraiche, dentro la stessa Cananea, vedi Iudic., Dicembre c. XII. vers. 5-6. e quivi i comentatori. La lingua Caldaica ec. non è che un Dialetto dell'Ebraica. La samaritana parimente; o l'ebraica è un dial. della Samarit. o figlia o corruzione di essa. ec. De' tre dialetti egiziani-coptici tutti tre scritti, vedi il Giorgi.

7. Neppur questo è tutto. Ma dentro i confini di un medesimo ed unico dialetto, non v'è città, il cui linguaggio non differisca più o meno, da quello medesimo della città più immediatamente vicina. Non differisca dico, nel tuono e inflessione e modulazione della pronunzia, nella inflessione e modificazione diversa delle [936] parole, e in alcune parole, frasi, maniere, intieramente sue proprie e particolari. Questo si vede nelle città di Toscana (tanto che il Varchi vuole perciò che la lingua scritta italiana, non solo non si chiami italiana, ma neppur toscana, bensì fiorentina), si vede nelle altre città di qualunque provincia italiana, e dappertutto. Di più in ciascuna città, il linguaggio cittadinesco è diverso dal campestre. Di più senza uscire dalla città medesima, è noto che nella stessa Firenze si parla più di un dialetto, secondo la diversità delle contrade: (e di ciò pure il Varchi). Così che una lingua non arriva ad essere strettamente conforme e comune, neppure ad una stessa città, s'ella è più che tanto estesa, e popolata. E così credo che avverrà pure in Parigi ec. Vedi p. 1301. fine.

Da questi dati caviamo alcune conseguenze più alte ed importanti. 1. Che la diversità de' linguaggi è naturale e inevitabile fra gli uomini, e che la propagazione del genere umano portò con se la moltiplicità delle lingue, e la divisione e suddivisione dell'idioma primitivo, e finalmente il non potersi intendere, nè per conseguenza comunicare scambievolmente più che tanto numero di uomini. La confusione de' linguaggi che dice la Scrittura essere stato un gastigo dato da Dio agli uomini, è dunque effettivamente radicata nella natura, e inevitabile nella generazione umana, e fatta proprietà essenziale delle nazioni ec.

2. Che il progetto di una lingua universale, (seppure per questa s'è mai voluta intendere una lingua propria e nativa e materna e quotidiana di tutte le nazioni) è una chimera non solo materialmente, e relativamente, e per le circostanze e le difficoltà che risultano dalle cose quali ora sono, [937] ossia dalla loro condizione attuale, ma anche in ordine all'assoluta natura degli uomini; vale a dire non solamente in pratica, ma anche in ragione.

3. Considerando per l'una parte la naturale e inevitabile ristrettezza, che ho detto, de' confini di una lingua assolutamente uniforme; per l'altra parte, che la lingua è il principalissimo istrumento della società, e che per distintivo principale delle nazioni si suole assegnare la uniformità della lingua; ne inferiremo

I. Una prova di quello che ho detto p. 873. fine-877. intorno alla ristrettezza delle società primitive quanto all'estensione; cioè si conoscerà come la natura avesse effettivamente provveduto anche per questa parte alla detta ristrettezza.

II. Una nuova considerazione intorno agli ostacoli che la natura avea posto all'incivilimento. Giacchè l'incivilimento essendo opera della società, e andando i suoi progressi in proporzione della estensione di essa società e del commercio scambievole ec.; e per l'altra parte, l'istrumento principale della società essendo la lingua, e questa avendo fatto la natura che non potesse essere uniforme se non fra pochissimi; si viene a conoscere come anche per questa parte la natura si sia opposta alla soverchia dilatazione e progresso della società, ed all'alterazione [938] degli uomini che ne aveva a seguire. Opposizione che non si è vinta, se non con infinite difficoltà, con gli studi, e con cento mezzi niente naturali, facendo forza alla natura, come si sono superate tutte le altre barriere che la natura avea poste all'incivilimento e alla scienza.

III. Come la società, così anche la lingua fa progressi coll'estensione: e la lingua di un piccolo popolo, è sempre rozza, povera, e bambina balbettante, se non in quanto ella può essere influita dal commercio coi forestieri, che è fuori anzi contro il caso. Si vede dunque che la natura coll'impedire l'estensione di una lingua uniforme, ne ha voluto anche impedire il perfezionamento, anzi anche la semplice maturità o giovanezza. Da ciò segue che la lingua destinata dalla natura primitivamente e sostanzialmente agli uomini, era una lingua di ristrettissime facoltà, e quindi di ristrettissima influenza. Dunque segue che essendo la lingua l'istrumento principale della società, la società destinata agli uomini dalla natura, era una società di pochissima influenza, una società lassa, e non capace di corromperli, una società poco maggiore di quella ch'esiste fra i bruti, come ho detto in altri pensieri.

IV. Colla debolezza della lingua destinataci, la natura avea provveduto alla conservazione del nostro stato primitivo, non solo in ordine alla generazione contemporanea, [939] ma anche alle passate e future. Mediante una lingua impotente, è impotente la tradizione; e le esperienze, cognizioni ec. degli antenati arrivano ai successori, oscurissime incertissime debolissime e più ristrette assai di quelle ristrettissime che con una tal lingua e una tal società avrebbero potuto acquistare i loro antenati; cioè quasi nulle. Perchè i bruti non avendo lingua, non hanno tradizione, cioè comunicazione di generazioni, perciò il bruto d'oggidì è freschissimo e naturalissimo come il primo della sua specie uscito dalle mani del Creatore. Tali dunque saremmo noi appresso a poco, con una lingua limitatissima nelle sue facoltà. Il fatto lo conferma. Tutti i popoli che non hanno una lingua perfetta, sono proporzionatamente lontani dall'incivilimento. Vedi p. 942. capoverso 1. E finchè il mondo non l'ebbe, conservò proporzionatamente lo stato primitivo. Così pure in proporzione, dopo l'uso della scrittura dipinta, e della geroglifica. L'incivilimento, ossia l'alterazione dell'uomo, fece grandi progressi dopo l'invenzione della scrittura per cifre, ma però sino a un certo segno, fino all'invenzione della stampa, ch'essendo la perfezione della tradizione, ha portato al colmo l'incivilimento. Invenzioni tutte difficilissime, e soprattutto la scrittura per cifre; onde si vede quanto la natura fosse lontana dal supporle, e quindi dal volere e ordinare i loro effetti.

E questo si può riferire a quello che ho detto [940] in altri pensieri contro coloro che considerano l'incivilimento come perfezionamento, e quindi sostengono la perfettibilità dell'uomo. Il quale incivilimento apparisce e dalla ragione e dal fatto che non si poteva conseguire, e molto meno perfezionare senza l'invenzione della scrittura per cifre; invenzione astrusissma, e mirabile a chi un momento la consideri, e della quale gli uomini hanno dovuto mancare, non già casualmente, ma necessariamente per lunghissima serie di secoli, com'è accaduto. Torno dunque a domandare se è verisimile che la natura alla perfezione di un essere privilegiato fra tutti, abbia supposto e ordinato un tal mezzo ec. ec. Lo stesso dico del perfezionamento di una lingua, cosa anch'essa difficilissima e tardissima a conseguirsi, e intendo ora, non quello che riguarda la bellezza, ma la semplice utilità di una lingua. Lo stesso altresì della stampa inventata 4 soli secoli fa, non intieri. ec. ec. Vedi p. 955. capoverso 1. e il mio pensiero circa la diversità degli alfabeti naturali.

Altro è la perfettibilità della società, altro quella dell'uomo ec. ec. ec. (12-13. Aprile 1821).

Quello che ho detto in parecchi pensieri della compassione che eccita la debolezza, si deve considerare massimamente in quelli che sono forti, e che sentono in quel momento la loro forza, e ne' quali questo sentimento contrasta coll'aspetto della debolezza o impotenza di quel tale oggetto amabile o compassionevole: amabilità che in [941] questo caso deriva dalla sorgente della compassione, quantunque quel tale oggetto in quel punto non soffra, o non abbia mai sofferto, nè provato il danno della sua debolezza. Al qual proposito si ha una sentenza o documento de' Bardi Britanni rinchiusa in certi versi che suonano così: Il soffrire con pazienza e magnanimità, è indizio sicuro di coraggio e d'anima sublime; e l'abusare della propria forza è segno di codarda ferocia. (Annali di Scienze e Lettere l. cit. di sopra (p. 932.) p. 378.) L'uomo forte ma nel tempo stesso magnanimo, deriva senza sforzo e naturalmente dal sentimento della sua forza un sentimento di compassione per l'altrui debolezza, e quindi anche una certa inclinazione ad amare, e una certa facoltà di sentire l'amabilità, trovare amabile un oggetto, maggiore che gli altri. Ed egli suol sempre soffrire con pazienza dai deboli, piuttosto che soverchiarli, ancorchè giustamente. (13. Aprile 1821).

A quello che ho detto altrove della derivazione del verbo tornare, si aggiunga, che questo verbo è lo stesso che il tourner dei francesi, il quale significa la stessa cosa che in latino volvere. Giacchè appunto nello stesso modo, da volvere, gli spagnuoli hanno fatto bolver che significa tornare. (13. Aprile 1821).

[942] Alla p. 939. La maravigliosa e strana immobilità ed immutabilità (così la chiama l'Edinburgh Review negli Annali di Scienze e Lettere vol. 8. Dicembre 1811. n. 24 Staunton, Traduz. del Ta-Tsing-Leu-Lee. p. 300.) della nazione Chinese, dev'esser derivata certo in grandissima parte, e derivare dal non aver essi alfabeto nè lettere, (l. cit. Rémusat, Saggio sulla lingua e letteratura Chinese, dal Magasin Encyclopédique, p. 324. fine) ma caratteri esprimenti le cose e le idee cioè un dato numero di caratteri elementari e principali rappresentanti le principali idee, i quali si chiamano chiavi, e sono nel sistema di alcuni dotti Chinesi 214, (ivi p. 313. 319) in altri sistemi molto più, in altri molto meno, (ivi p.319.) ma il sistema delle 214 è il più comune e il più seguito da' letterati chinesi nella compilazione de' loro dizionarii. I quali caratteri elementari o chiavi diversamente combinati fra loro (come ponendo sopra la chiave che rappresenta i campi, l'abbreviatura di quella che rappresenta le piante, si fa il segno o carattere che significa o rappresenta primizia dell'erbe e delle messi; e ponendo questo medesimo carattere sotto la chiave che rappresenta gli edifizi, si fa il carattere che significa tempio, cioè luogo dove si offrono le primizie (l. cit. p. 314.)) servono ad esprimere o rappresentare le altre idee: essendo però le dette combinazioni convenute, e gramaticali, come lo sono le chiavi elementari; altrimenti non s'intenderebbero. (p. 319. fine.) Nel qual modo e senso un buon dizionario chinese, secondo Abel-Rémusat (Essai sur la langue et la littérature chinoise. Paris 1811. l. cit. p. 320.) dovrebbe contenere 35,000 [943] caratteri come ne contiene il Tching-tseu-toung, uno de' migliori Dizionari che hanno i chinesi; secondo il Dott. Hager, (Panthéon Chinois. Paris 1806. in-fol. Préface.) basterebbero 10,000 (ivi, e p. 311. nota.) La quale scrittura in somma appresso a poco è la stessa che la ieroglifica. Paragonate gli Annali ec. sopracitati, vol.5. num. 14. Hammer, Alfabeti antichi e caratteri ieroglifici spiegati, artic. del Crit. Rew. p. 144.-147. col vol. 8. n. 24. p. 297.-298. e p. 313. 320. Questo paragone l'ho già fatto, e trovatolo giusto. (14. Aprile 1821). Vedi p. 944. capoverso 2.

La lingua chinese è tutta architettata e fabbricata sopra un sistema di composti, non solo quanto ai caratteri, de' quali vedi il pensiero precedente ma parimente alla pronunzia, ossia a' vocaboli. Giacchè i loro vocaboli radicali esprimenti i caratteri non sono più di 352. secondo il Bayer, e 383. secondo il Fourmont. Ed eccetto che il valore di alcuni di questi vocaboli si diversifica talvolta per via di quattro toni, dell'uno dei quali si appone loro il segno (Annali ec. p.317.-318. e 320. lin. 7.), tutti gli altri vocaboli Chinesi sono composti; come si vede anche nella maniera in cui si scrivono quando si trasportano originalmente nelle nostre lingue. Annali ec. l. cit. nel pensiero anteced. Rémusat p. 319. mezzo - 320. mezzo. (14. Aprile 1821). Vedi p. 944. capoverso 1.

Alla p. 923. marg. Un tal popolo dev'essere insomma necessariamente stazionario. E qual popolo infatti è più maravigliosamente stazionario del Chinese, (vedi qui dietro p. 942 principio) nel quale abbiamo osservato una somigliante costituzione? Sir George (Giorgio) Staunton, Segretario d'Ambasciata nella missione di Lord Macartney presso l'Imperatore della China, nella introduzione alla sua versione inglese del Codice penale dei Chinesi, nota in questa nazione, come [944] fra le cause di certi ragguardevoli vantaggi morali e politici posseduti, secondo lui, da essa nazione, vantaggi che non possono, secondo lui, essere agguagliati con esattezza in alcuna società Europea, nota, dico, la quasi totale mancanza di dritti e privilegi feudali; la equabile distribuzione della proprietà fondiaria; e la naturale incapacitá ed avversione e del popolo e del governo ad essere sedotti da mire d'ambizione, e da desio d'estere conquiste. Edinburgh Review loco citato qui dietro (p. 942. principio.) p. 295. Lo stesso Edinburgh Review nella continuazione dello stesso articolo (Annali di Scienze e Lettere, Milano, Gennaio 1812. vol. IX. n. 25. p. 42. mezzo) nomina (ad altro proposito) la istituzione delle caste dell'India, dove io l'ho già notata nel pensiero a cui questo si riferisce, e di più nell'antico Egitto. Questo lo fa incidentemente, sicchè non ha verun'altra parola su questo punto. (14. Aprile 1821.)

Alla p. 943. Così che la lingua Chinese quanto supera le altre lingue nella moltiplicità, complicazione, e confusione degli elementi e della costruttura della scrittura, tanto le avanza nella semplicità e piccolo numero degli elementi dell'idioma. (14. Aprile 1821).

Alla p. 943. In somma la scrittura Chinese non rappresenta veramente le parole (che le nostre son quelle che le rappresentano, e ciò per via delle lettere, che sono ordinate e dipendenti in tutto dalla parola) ma le cose; e perciò tutti osservano [945] che il loro sistema di scrittura è quasi indipendente dalla parola: (Annali ec. p.316. p. 297.) così che si potrebbe trovare qualcuno che intendesse pienamente il senso della scrittura chinese, senza sapere una sillaba della lingua, e leggendo i libri chinesi nella lingua propria, o in qual più gli piacesse, cioè applicando ai caratteri cinesi quei vocaboli che volesse, senza detrimento nessuno della perfetta intelligenza della scrittura, e neanche del suo gusto, giacchè le opere chinesi non hanno nè possono avere nè versificazione, nè ritmo, nè stile, e conviene prescindere affatto dalle parole nel giudicarle; le loro poesie non sono composte di versi, nè le prose oratorie di periodi; (p. 297.) il genio della lingua non ammette il soccorso delle comuni particelle di connessione, e presenta meramente una fila d'immagini sconnesse, i cui rapporti debbono essere indovinati dal lettore, secondo le intrinseche loro qualità. ([p.] 298.) E così viceversa bene spesso taluni, dopo avere soggiornato venti anni alla China, non sono tampoco in grado di leggere il libro più facile, benchè sappiano essi parlar bene il chinese, e farsi comprendere. (p. 316.) (14. Aprile 1821).

Si condanna, e con gran ragione, l'amor de' sistemi, siccome dannosissimo al vero, e questo danno tanto più si conosce, e più intimamente se ne resta convinti, quanto più si conoscono e si esaminano le opere dei pensatori. Frattanto però io dico che qualunque uomo ha forza di pensare da se, qualunque s'interna colle sue proprie facoltà e, dirò così, co' suoi propri passi, nella considerazione delle cose, in somma qualunque vero pensatore, non può assolutamente a meno di non formarsi, o di non seguire, o generalmente di non avere un sistema.

[946] 1. Questo è chiaro dal fatto. Qualunque pensatore, e i più grandi massimamente, hanno avuto ciascuno il loro sistema, e sono stati o formatori o sostenitori di qualche sistema, più o meno ardenti e impegnati. Lasciando gli antichi filosofi, considerate i moderni più grandi. Cartesio, Malebranche, Newton, Leibnizio, Locke, Rousseau, Cabanis, Tracy, De Vico, Kant, in somma tutti quanti. Non v'è un solo gran pensatore che non entri in questa lista. E intendo pensatori di tutti i generi: quelli che sono stati pensatori nella morale, nella politica, nella scienza dell'uomo, e in qualunque delle sue parti, nella fisica, nella filosofia d'ogni genere, nella filologia, nell'antiquaria, nell'erudizione critica e filosofica, nella storia filosoficamente considerata ec. ec.

2. Come dal fatto così è chiaro anche dalla ragione. Chi non pensa da se, chi non cerca il vero co' suoi propri lumi, potrà forse credere in una cosa a questo, in un'altra a quello, e non curandosi di rapportare le cose insieme, e di considerare come possano esser vere relativamente fra loro, restare affatto senza sistema, e contentarsi delle verità particolari, e staccate, e indipendenti l'una dall'altra. E questo ancora è difficilissimo, perchè il fatto e la ragione dimostra, che anche questi tali si formano sempre un sistema comunque, sebbene possano forse talvolta esser pronti a cangiarlo, secondo le nuove cognizioni, o nuove opinioni che loro sopraggiungano. Ma il pensatore non è così. Egli cerca naturalmente e necessariamente un filo nella considerazione delle cose. È impossibile [947] ch'egli si contenti delle nozioni e delle verità del tutto isolate. E se se ne contentasse, la sua filosofia sarebbe trivialissima, e meschinissima, e non otterrebbe nessun risultato. Lo scopo della filosofia (in tutta l'estensione di questa parola) è il trovar le ragioni delle verità. Queste ragioni non si trovano se non se nelle relazioni di esse verità, e col mezzo del generalizzare. Non è ella, cosa notissima che la facoltà di generalizzare costituisce il pensatore? Non è confessato che la filosofia consiste nella speculazione de' rapporti? Ora chiunque dai particolari cerca di passare ai generali, chiunque cerca il legame delle verità (cosa inseparabile dalla facoltà del pensiero) e i rapporti delle cose; cerca un sistema; e chiunque è passato ai generali, ed ha trovato o creduto di trovare i detti rapporti, ha trovato o creduto di trovare un sistema, o la conferma e la prova, o la persuasione di un sistema già prima trovato o proposto: un sistema più o meno esteso, più o meno completo, più o meno legato, armonico, e consentaneo nelle sue parti.

3. Il male è quando dai generali si passa ai particolari, cioè dal sistema alla considerazione delle verità che lo debbono formare. Ovvero quando da pochi ed incerti, e mal connessi, ed infermi particolari, da pochi ed oscuri rapporti, si passa al sistema, ed ai generali. Questi sono i vizi de' piccoli spiriti, parte per la loro stessa piccolezza, e la facilità che hanno di persuadersi; parte per la pestifera smania di formare sistemi, inventar paradossi, creare ipotesi in qualunque maniera, affine [948] d'imporre alla moltitudine, e parer d'assai. Allora l'amor di sistema, o finto, o vero e derivante da persuasione, è dannosissimo al vero; perchè i particolari si tirano per forza ad accomodarsi al sistema formato prima della considerazione di essi particolari, dalla quale il sistema dovea derivare, ed a cui doveva esso accomodarsi. Allora le cose si travisano, i rapporti si sognano, si considerano i particolari in quell'aspetto solo che favorisce il sistema, in somma le cose servono al sistema, e non il sistema alle cose, come dovrebb'essere. Ma che le cose servano ad un sistema, e che la considerazione di esse conduca il filosofo e il pensatore ad un sistema (sia proprio, sia d'altri), è non solamente ragionevole e comune, ma indispensabile, naturale all'uomo, necessario; è inseparabile dalla filosofia; costituisce la sua natura ed il suo scopo: e concludo che non solamente non ci fu, ma non ci può esser filosofo nè pensatore per grande, e spregiudicato, ed amico del puro vero, ch'ei possa essere, il quale non si formi o non segua un sistema (più o meno vasto secondo la materia, e secondo che l'ingegno del filosofo è sublime, e secondo ch'è acuto e penetrante nella investigazione speculazione e ritrovamento de' rapporti) e ch'egli non sarebbe filosofo nè pensatore, se questo non gli accadesse, ma si confonderebbe con chi non pensa, e si contenta di non avere idea nè concetto chiaro e stabile intorno a veruna cosa. (I quali pure hanno sempre un sistema, più o meno chiaro, anzi più esteso, e per loro più persuasivo e più chiaro e certo, che non l'hanno i pensatori.) Sia [949] pure un sistema il quale consista nell'esclusione di tutti i sistemi, come quello di Pirrone, e quello che fa quasi il carattere del nostro secolo. (16. Aprile 1821). Vedi p. 950. capoverso 2.

Dalla sciocca idea che si ha del bello assoluto deriva quella sciocchissima opinione che le cose utili non debbano esser belle, o possano non esser belle. Poniamo per esempio un'opera scientifica. Se non è bella, la scusano perciò ch'è utile, anzi dicono che la bellezza non le conviene. Ed io dico che se non è bella, e quindi è brutta, è dunque cattiva per questo verso, quando anche pregevolissima in tutto il resto. Per qual ragione è bello il Trattato di Celso, ch'è un trattato di Medicina? Forse perchè ha ornamenti poetici o rettorici? Anzi prima di tutto perchè ne manca onninamente, e perchè ha quel nudo candore e semplicità che conviene a siffatte opere. Poi perchè è chiaro, preciso, perchè ha una lingua ed uno stile puro. Questi pregi o bellezze convengono a qualunque libro. Ogni libro ha obbligo di esser bello in tutto il rigore di questo termine: cioè di essere intieramente buono. Se non è bello, per questo lato è cattivo, e non v'è cosa di mezzo tra il non esser bello, e il non essere perfettamente buono, e l'esser quindi per questa parte cattivo. E ciò che dico dei libri, si deve estendere a tutti [950] gli altri generi di cose chiamate utili, e generalmente a tutto. (16. Aprile 1821).

Rassegnato e sommesso, perchè l'indole degli abitatori determinata dall'influenza del clima, è composta a un tempo di bontà e di trascuratezza, l'Indiano, dice l'Autore (Collin di Bar, Storia dell'India antica e moderna, ossia l'Indostan considerato relativamente alle sue antichità ec. Parigi 1815), è capace de' più magnanimi sforzi. I popoli del nord della penisola, meno ammolliti dalle voluttà e dal clima, sono da lungo tempo il terrore della compagnia inglese, e saranno forse col tempo i liberatori delle regioni gangetiche. (Fra questi deve intender certo i Maratti). Spettatore di Milano, Quaderno 43, p. 113. Parte Straniera. 30 Dicembre 1815. Dello stato e genio pacifico degli antichi Indiani vedi p. 922. De' Cinesi parimente meridionali vedi p. 943. capoverso ultimo. (16. Aprile 1821).

Alla p. 949. Mancare assolutamente di sistema (qualunque esso sia), è lo stesso che mancare di un ordine di una connessione d'idee, e quindi senza sistema, non vi può esser discorso sopra veruna cosa. Perciò quelli appunto che non discorrono, quelli mancano di sistema, o non ne hanno alcuno preciso. Ma il sistema, cioè la connessione e dipendenza delle idee, de' pensieri, delle riflessioni, delle opinioni, è il distintivo certo, e nel tempo stesso indispensabile del filosofo. (17 Aprile 1821).

Lo Spettatore di Milano 15. Febbraio 1816. Quaderno 46. p. 244. Parte Straniera, in un articolo estratto dal Leipziger Litteratur Zeitung, rendendo brevissimo conto di un opuscolo [951] tedesco di Pietro Enrico Holthaus, intitolato Anche nella nostra lingua possiamo e dobbiamo essere Tedeschi, pubblicato a Schwelm, presso Scherz, 1814. in 8o grande, dice che, fra le altre cose, l'autore intende provare che il miscuglio di parole straniere reca nocumento alla chiarezza delle idee. (L'opuscolo è diretto principalmente contro il francesismo introdotto e trionfante nella lingua tedesca, come nell'italiana.) Questo sentimento combina con quello che ho svolto in altri pensieri, dove ho detto che le parole greche nelle nostre lingue sono sempre termini, e così si deve dire delle altre parole straniere affatto alla nostra lingua; e spiegato che cosa sieno termini e come si distinguano dalle parole. E infatti i termini, e le parole prese da una lingua straniera del tutto, potranno essere precise, ma non chiare, e così l'idea che risvegliano sarà precisa ed esatta, senza esser chiara, perchè quelle parole non esprimono la natura della cosa per noi, non sono cavate dalle qualità della cosa, come le parole originali di qualunque lingua, così che l'oggetto che esprimono, sebbene ci si possa per mezzo loro affacciare alla mente con precisione e determinazione, non lo potranno però con chiarezza: perchè le parole non derivanti immediatamente dalle qualità della cosa, o che almeno per l'assuefazione non ci paiano tali, non hanno forza di suscitare nella nostra mente un'idea sensibile della cosa, non hanno [952] forza di farci sentire la cosa in qualunque modo, ma solamente di darcela precisamente ad intendere, come si fa di quelle cose che non si possono formalmente esprimere. Che tale appunto è il caso degli oggetti significatici con parole del tutto straniere. Dal che è manifesto quanto danno riceva sì la chiarezza delle idee, come la bellezza e la forza del discorso, che consistono massimamente nella sua vita, e questa vita del discorso, consiste nella efficacia, vivacità, e sensibilità, con cui esso ci fa concepire le cose di cui tratta. (17. Aprile 1821).

Lo stesso autore nel medesimo opuscolo, come si vede nel luogo citato, alla fine della detta pag. 244 critica Herder che tante parole ha introdotto tolte dal latino e dal greco. Questa critica è forse giusta anche rispetto al latino, nella lingua tedesca, la quale non si trova nella circostanza della italiana, non essendo figlia, come questa, della latina; come neanche rispetto alla francese, non essendole sorella, come la nostra. E quanto alla latina, le deve bastare quello che per le circostanze de' tempi antichi ec. ella ne ha tolto, colle comunicazioni avute coi romani ec. ma questa fonte si deve ora ben ragionevolmente stimar chiusa per lei, come quella che non ne deriva originariamente, e vi ha solo attinto per cause accidentali. La lingua inglese sarebbe la più atta a comunicare le sue fonti colla tedesca, e viceversa. Vedi p. 1011. capoverso 2. Ma rispetto alla lingua italiana, la cosa sta diversamente, perchè derivando ella dalla latina, non si dee stimare che la fonte sia chiusa, mentre il fiume corre e non istagna. Anzi non volendo che stagni e impaludi, bisogna riguardare soprattutto di non chiudergli la sorgente; che questo è il mezzo più sicuro e più breve di farlo corrompere e inaridire. Quella lingua che ha prodotta, e non solo prodotta, ma formata e cresciuta sì largamente la nostra. come si [953] dovrà stimare che non possa nutrirla ed accrescerla, che non abbia più niente che le convenga di ricavarne? Quel terreno che ha prodotto una pianta della sua propria sostanza, e del proprio succo, e di più l'ha allevata, e condotta a perfettissima maturità e robustezza e vigore ec. come si dovrà credere e affermare che non sia adattato a nutrirla e crescerla mentre ella non è spiantata? che il di lui succo non sia conveniente nè vitale nè nutritivo nè sano a quella pianta, mentre il terreno abbia ancora succo, e in abbondanza? Perchè poi vorremmo spiantare la nostra lingua? Forse perch'ella non possa più nutrirsi, e le sue radici non le servano più, e così venga ad inaridire? O forse per trapiantarla? E dove? in qual terreno migliore, e più appropriato di quello che l'ha prodotta e cresciuta a tanta grandezza, prosperità, floridezza ec.?

Osservo ancora che l'italiano è derivato dalla corruzione del latino, così che le parole e i modi della bassa latinità, se sono barbare rispetto al latino, nol sono all'italiano; e la bassa latinità è una fonte ricchissima e adattatissima anch'essa alla nostra lingua, ed io posso dirlo con fondamento per osservazione ed esperienza particolare che ne ho fatto, e cura che ci ho posto. Quante parole infatti dell'ottima lingua italiana, appartengono precisamente alla bassa latinità! Nè bisogna discorrere pregiudicatamente e considerar come barbaro assoluto quello ch'è solo barbaro relativo. Per esempio [954] l'antica lingua persiana, cioè prima che fosse inondata da parole arabe per effetto della conquista della Persia fatta dai Califi e dagl'immediati successori di Maometto (2), fu lingua purissima, fu scritta purissimamente ebbe gran cura della purità nella scrittura, ed ebbe autori Classici non meno stimati in Oriente una volta per la purità della lingua, di quello che il fosse Menandro fra i greci, (ma de' cui scritti la più gran parte è perita). E Firdosi nel suo Shahnamah, e molti de' suoi contemporanei, si vantano di usare il pretto Persiano, e di esser mondi da ogni parola araba o forestiera (così che nel Dizionario di Richardson mancano nove decimi delle parole da essi usate, per esser questo Dizionario fatto per la lingua e i dialetti persiani moderni.) Ora qualunque purissima parola persiana, o di qualunque purissima lingua d'oriente, antica o moderna, parrebbe a noi, non solo impura, o barbara, ma intollerabile, suonerebbe peggio che barbaramente, e ci saprebbe più che barbara nelle lingue nostre. Così dunque se le parole della bassa latinità riescono barbare nel latino, non si debbono stimare nè barbare nè impure in italiano, il quale deriva dalla bassa latinità più immediatamente che dalla alta. Altrimenti si dovranno stimar barbare tante parole purissime e italianissime che derivano dalla bassa latinità (e così dico francesi ec.), e come tali sono registrate ne' Glossari latinobarbari.

Bensì bisogna distinguere i diversi generi che ci sono di bassa latinità. Giacchè la bassa latinità germanica per esempio, in quanto è piena di voci germaniche ec. sarà adattata a somministrar materia ad altre lingue, ma non alla nostra. E perciò bisogna considerare che l'indole [955] delle parole e frasi ec. del medio evo, sia conforme all'indole di quel linguaggio dal quale è derivata la lingua italiana precisamente. (17. Aprile 1821).

Alla p. 940. Quello che ho detto delle lingue rispetto ai luoghi, si deve applicare proporzionatamente anche ai tempi, essendo certo ed evidente che le lingue vanno sempre variando, non già leggermente, ma in modo che alla fine muoiono, e loro ne sottentrano altre, secondo la variazione dei costumi, usi, opinioni ec. e delle circostanze fisiche, politiche, morali, ec. proprie dei diversi secoli della società. In maniera che si può dire che come nessuna lingua è stata, così neanche nessun'altra sarà perpetua. (18. Aprile 1821).

L'antichità e l'eccellenza della lingua sacra degl'indiani (sascrita), hanno naturalmente chiamato a se l'attenzione e destato la curiosità degli Europei. I ragguardevoli suoi titoli ad essere considerata come la più antica lingua che l'uman genere conosca, muovono in noi quell'interesse da cui le vetustissime età del mondo sono circondate. Costruita secondo il disegno più perfetto forse che dall'ingegno umano sia stato immaginato giammai, essa c'invita a ricercare se la sua perfezione si restringa ne' limiti della sua struttura, o se i pregi delle composizioni indiane partecipino della bellezza del linguaggio in cui sono dettate. Spettatore di Milano 15. Luglio 1817. Quaderno 80. parte straniera. p. 273. articolo di D. Bertolotti sopra la traduzione inglese del Megha [956] Duta, poema sascrittico di Calidasa, Calcutta 1814; estratto però senza fallo da un giornale forestiero, e non dalla stessa traduzione, come apparisce in parecchi luoghi, e fra l'altro da' puntini che il Bertolotti pone dopo alcuni paragrafi di esso articolo, come p. 274. 275. ec. (18. Aprile 1821).

La lingua greca va considerata rispetto all'italiana nell'ordine di lingua madre, (o nonna) quanto ai modi, ma non quanto alle parole. Dico quanto ai modi, massimamente per la sua conformità naturale o somiglianza in questa parte colla lingua latina sua sorella, e madre della nostra, e di più perchè gli scrittori latini, dal nascimento della loro letteratura, modellarono sulla greca le forme della loro lingua, e così hanno tramandata a noi una lingua formata in grandissima parte sui modi della greca. Del che vedi un bell'articolo del Barone Winspear (Biblioteca Italiana t. 8. p. 163.) nello Spettatore di Milano, 1. Settembre 1817. Parte italiana, Quaderno 83. p.442. dal mezzo al fine della pagina. E così pure, parte per lo studio immediato de' greci esemplari, (del che vedi ivi p. 443. dal principio al mezzo) parte per lo studio de' latini, e la derivazione della lingua italiana dalla latina, parte e massimamente per una naturale conformità, che forse per accidente, ha la struttura e costruzione della lingua nostra colla greca (come dice espressamente la Staël nella Biblioteca Italiana [957] vol. 1. p.15. la costruzione gramaticale di quella lingua è capace di una perfetta imitazione de' concetti greci, a differenza della tedesca della quale ha detto il contrario), per tutte queste ragioni si trova una evidentissima e somma affinità fra l'andamento greco e l'italiano, massime nel più puro italiano, e più nativo e vero, cioè in quello del trecento. Da tutto ciò segue che la lingua greca, come madre della nostra rispetto ai modi, sia e per ragione e per fatto adattatissima ad arricchire e rifiorire la lingua italiana d'infinite e variatissime forme e frasi e costrutti (Cesari) e idiotismi ec. Non così quanto alle parole, che non possiamo derivare dalla lingua greca che non è madre della nostra rispetto ad esse; fuorchè in ordine a quelle che gli scrittori o l'uso latino ne derivarono, e divenute precisamente latine, passarono all'idioma nostro come latine e con sapore latino, non come greche. Le quali però ancora, sebbene incontrastabili all'uso dell'italiano, tuttavia soggiacciono in parte, malgrado la lunga assuefazione che ci abbiamo, ai difetti notati da me p. 951-952. Che per esempio chi dice filosofia eccita un'idea meno sensibile di chi dice sapienza, non vedendosi in quella parola e non sentendosi come in questa seconda, l'etimologia, cioè la derivazione della parola dalla cosa, il qual sentimento è quello che produce la vivezza ed efficacia, [958] e limpida evidenza dell'idea, quando si ascolta una parola. (19 Aprile 1821).

Una delle principali cagioni per cui l'infelicità rende l'uomo inetto al fare, e lo debilita e snerva, onde l'infelicità toglie la forza, non è altra se non che l'infelicità debilita l'amor di se stesso. E intendo massimamente della infelicità grave e lunga. La quale col continuo contrasto che oppone all'amor di se stesso che era nel paziente, colla battaglia ostinatissima e fortissima che gli fa, e coll'obbligarlo ad uno stato contrario del tutto a quello ch'è scopo, oggetto e desiderio di questo amore, finalmente illanguidisce questo amore, rende l'uomo meno tenero di se stesso, siccome avvezzo a sentirsi infelice malgrado gli sforzi che ci opponeva. Anzi una tale infelicità, se non riduce l'uomo alla disperazion viva, e al suicidio o all'odio di se stesso ch'è il sommo grado, e la somma intensità dell'amor proprio in tali circostanze, lo deve ridurre per necessità ad uno stato opposto, cioè alla freddezza e indifferenza verso se stesso; giacchè s'egli continuasse ad essere così infiammato verso se medesimo, com'era da principio, in che modo potrebbe sopportare la vita, o contentarsi di sopravvivere, vedendo e sentendo sempre infelice questo oggetto del suo sommo amore, e di tutta la sua vita sotto tutti i rispetti?

Ma l'amor di se stesso è l'unica possibile molla delle azioni e dei sentimenti umani, secondo ch'è applicato a questo o quello scopo virtuoso o vizioso, grande o basso ec. [959] Diminuita dunque, e depressa, e ridotta a pochissimo (cioè a quanto meno è possibile mentre l'uomo vive) l'elasticità e la forza di molla, l'uomo non è più capace nè di azioni, nè di sentimenti vivi e forti ec. nè verso se stesso, nè verso gli altri, giacchè anche verso gli altri, anche ai sacrifizi ec. non lo può spingere altra forza che l'amor proprio, in quella tal guisa applicato e diretto. E così l'uomo ch'è divenuto per forza indifferente verso se stesso, è indifferente verso tutto, è ridotto all'inazione fisica e morale. E l'indebolimento dell'amor proprio, in quanto amor proprio e radicalmente, (non in quanto è diretto a questa o quella parte) cioè il vero indebolimento di questo amore, è cagione dell'indebolimento della virtù, dell'entusiasmo, dell'eroismo, della magnanimità, di tutto quello che sembra a prima vista il più nemico dell'amor proprio, il più bisognoso del suo abbassamento per trionfare e manifestarsi, il più contrariato e danneggiato dalla forza dell'amore individuale. Così il detto indebolimento secca la vena della poesia, e dell'immaginazione, e l'uomo non amando, se non poco, se stesso, non ama più la natura; non sentendo il proprio affetto, non sente più la natura, nè l'efficacia della bellezza ec. Una nebbia grevissima d'indifferenza sorgente immediata d'inazione e insensibilità, si spande su tutto l'animo suo, e su tutte le sue facoltà, da che [960] egli è divenuto indifferente, o poco sensibile verso quell'oggetto ch'è il solo capace d'interessarlo e di muoverlo moralmente o fisicamente verso tutti gli altri oggetti in qualunque modo, dico se stesso.

Altra cagione dello snervamento prodotto nell'uomo dall'infelicità, è la diffidenza di se stesso o delle cose, affezione mortifera, com'è vivifica e principalissima nel mondo e nei viventi la confidenza, e massime in se stesso: e questa è una qualità primitiva e naturale nell'uomo e nel vivente, innanzi all'esperienza. ec. ec. Così pure l'uomo che ha perduto, o per viltà e vizio, o per forza delle avversità e delle contraddizioni e avvilimenti e disprezzi sofferti, la stima di se stesso, non è più buono a niente di grande nè di magnanimo. E dicendo la stima, distinguo questa qualità dalla confidenza, ch'è cosa ben diversa considerandola bene. (19. Aprile 1821).

Le sopraddette considerazioni possono portare ad una gran generalità, e semplicizzare l'idea che abbiamo del sistema delle cose umane, o la teoria dell'uomo, facendo conoscere come sotto tutti i riguardi, ed in tutte le circostanze possibili della vita, agisca quell'unico principio ch'è l'amor proprio, e come tutti gli effetti della vita umana sieno proporzionati alla maggiore o minor forza, maggiore o minor debolezza, e diversa direzione di quel solo movente: per quanto i detti effetti si presentino a prima vista, come derivati da diverse cagioni. (19 Aprile 1821).

[961] Alla p. 786. E prima della potenza Ateniese e degl'incrementi di quella repubblica, essendo il dialetto ionico il più copioso, come pare, di tutti gli altri nello stato d'allora, per lo molto commercio della nazione o nazioni e repubbliche che l'usavano, prevalse il dialetto ionico nella letteratura greca, usato da Omero, da Ecateo Milesio istorico antichissimo, ed anteriore ad Erodoto che molto prese da lui, da Erodoto, da Ippocrate, da Democrito e da molti altri di gran fama. Così che Giordani crede (Biblioteca Italiana, vol. 2. p.20.) che Empedocle (il quale parimente scrisse in quel dialetto) lasciasse di adoperare il dialetto (dorico) della sua patria e della sua scuola (Pitagorica) non perchè fosse o più difficile o meno gradito ai greci, ma perchè vedesse più frequentato fuori della Grecia l'ionico, al quale Omero, Erodoto e Ippocrate avevano acquistata più universale celebrità. Di maniera che ancor dopo prevaluto l'attico si seguitò da alcuni a scrivere ionico, non come dialetto proprio, ma come vezzo, e quasi in memoria della sua antica fama. Come fece Arriano, il quale continuò i 7 libri della Impresa di Alessandro scritti in puro attico, colla storia indiana, o libro delle cose indiane scritto in dialetto ionico, per puro capriccio. Ora questo dialetto ionico tutti sanno qual sia presso Omero, cioè una mescolanza di tutti i dialetti, e di voci estere, solamente prevalendo lo ionico, ed Ermogene περὶ ἰδεῶν, lib. II. p.513. notat Hecataeum Milesium a quo plurima accepit Herodotus (notante etiam Porphyr. ap. Eus. l. 10. praep. c. 2. p. 466) usum ἀχράτῷ ᾽Iάδι, Herodotum ποιχίλῃ (Fabricius, Bibliotheca Graeca, II. c. 20. §. 2. t. I. 697, nota K.) cioè l'uno del dialetto ionico puro, l'altro del dialetto ionico variato o misto. E contuttociò Erodoto è chiamato [962] dal suo concittadino Dionigi d'Alicarnasso (Epistola ad Cneium Pompeium p.130. Fabric.) ᾽Iάδος ἄριστος χανών. (20. Aprile. Venerdì Santo. 1821).

Sono perciò rare tra' francesi le buone traduzioni poetiche; eccetto le Georgiche volgarizzate dall'abate De-Lille. I nostri traduttori imitan bene; tramutano in francese ciò che altronde pigliano, cosicchè nol sapresti discernere, ma non trovo opera di poesia che faccia riconoscere la sua origine, e serbi le sue sembianze forestiere: credo anzi che tale opera non possa mai farsi. E se degnamente ammiriamo la georgica dell'abate De-Lille, n'è cagione quella maggior somiglianza che la nostra lingua tiene colla romana onde nacque, di cui mantiene la maestà e la pompa. Ma le moderne lingue sono tanto disformi dalla francese, che se questa volesse conformarsi a quelle, ne perderebbe ogni decoro. Staël, Biblioteca Italiana vol. 1. p. 12. Esaminiamo. Che la traduzione del Delille sia migliore d'ogni altra traduzione francese qualunque (in quanto traduzione), di questo ne possono e debbono giudicare i francesi meglio che gli stranieri. Se poi fatto il paragone tra la detta traduzione e l'originale, vi si trovi tutta quella conformità ed equivalenza che i francesi stimano di ravvisarvi (quantunque concederò che se ne trovi tanta, quanta mai si possa trovare in versione francese) questo giudizio spetta piuttosto agli stranieri che a' francesi, e noi italiani massimamente siamo meglio [963] a portata, che qualsivoglia altra nazione, di giudicarne.

Siccome ciascuno pensa nella sua lingua, o in quella che gli è più familiare, così ciascuno gusta e sente nella stessa lingua le qualità delle scritture fatte in qualunque lingua. Come il pensiero, così il sentimento delle qualità spettanti alla favella, sempre si concepisce, e inevitabilmente, nella lingua a noi usuale. I modi, le forme, le parole, le grazie, le eleganze, gli ardimenti felici, i traslati, le inversioni, tutto quello mai che può spettare alla lingua in qualsivoglia scrittura o discorso straniero, (sia in bene, sia in male) non si sente mai nè si gusta se non in relazione colla lingua familiare, e paragonando più o meno distintamente quella frase straniera a una frase nostrale, trasportando quell'ardimento, quella eleganza ec. in nostra lingua. Di maniera che l'effetto di una scrittura in lingua straniera sull'animo nostro, è come l'effetto delle prospettive ripetute e vedute nella camera oscura, le quali tanto possono essere distinte e corrispondere veramente agli oggetti e prospettive reali, quanto la camera oscura è adattata a renderle con esattezza; sicchè tutto l'effetto dipende dalla camera oscura piuttosto che dall'oggetto reale. Così dunque accadendo rispetto alle lingue (eccetto in coloro che sono già arrivati o a rendersi familiare un'altra lingua invece della propria, o a rendersene familiare e quasi propria più d'una, con grandissimo uso [964] di parlarla, o scriverla, o leggerla, cosa che accade a pochissimi, e rispetto alle lingue morte, forse a nessuno) tanto adequatamente si potranno sentire le qualità delle lingue altrui, quanta sia nella propria, la facoltà di esprimerle. E l'effetto delle lingue altrui sarà sempre in proporzione di questa facoltà nella propria. Ora la facoltà di adattarsi alle forme straniere essendo tenuissima e minima nella lingua francese, pochissimo si può stendere la facoltà di sentire e gustare le lingue straniere, in coloro che adoprano la francese. Notate ch'io dico, gustare e sentire, non intendere nè conoscere. Questo è opera dell'intelletto il quale si serve di altri mezzi. E quindi i francesi potranno intendere e conoscer benissimo le altre lingue, senza però gustarle nè sentirle più che tanto. Ho detto che gl'italiani in questo caso possono dar giudizio meglio che qualunque altro. 1. La lingua italiana, come ho detto altrove, è piuttosto un aggregato di lingue che una lingua, laddove la francese è unica. Quindi nell'italiana è forse maggiore che in qualunque altra la facoltà di adattarsi alle forme straniere, non già sempre ricevendole identicamente, ma trovando la corrispondente, e servendo come di colore allo studioso della lingua straniera, per poterla dipingere, rappresentare, ritrarre nella propria [965] comprensione e immaginazione. E per lo contrario nella lingua francese questa facoltà è certo minore che in qualunque altra.

2. Queste considerazioni rispetto alla detta facoltà della nostra lingua, si accrescono quando si tratta della lingua latina, o della greca. Perchè alle forme di queste lingue, la nostra si adatta anche identicamente, più che qualunque altra lingua del mondo: e non è maraviglia, avendo lo stesso genio, ed essendosi sempre conservata figlia vera di dette lingue, non solo per ragione di genealogia e di fatto, ma per vera e reale somiglianza e affinità di natura e di carattere. Laddove la lingua francese sebbene nata dalla latina, se n'è allontanata più che qualunque altra sorella o affine. E il genio della lingua francese è tanto diverso da quello della latina, quanta differenza mai si possa trovare fra le lingue di popoli che appartengono ad uno stesso clima, ad una stessa famiglia, ed hanno una storia comune ec. La somiglianza delle parole, cioè l'essere grandissima parte delle parole francesi derivata dal latino, non fa nessun caso, essendo una somiglianza materialissima, e di suono, non di struttura: anzi neppur di suono, per la somma differenza della pronunzia. Ma in ogni caso il suono e la struttura sono cose indipendenti, così che ci potrebbero esser due lingue, tutte le cui parole avessero un'etimologia comune, [966] e nondimeno esser lingue diversissime. In conseguenza se ai francesi pare di ravvisare il gusto, l'andamento, il carattere di Virgilio nel Delille, e a noi italiani pare tutto l'opposto, io dico che in ciò siamo più degni di credenza noi, che col mezzo della lingua propria (solo mezzo di sentire le altre) possiamo meglio di tutti sentire le qualità della francese e (più ancora) della latina; di quello che i francesi che col mezzo della loro renitentissima ed unica lingua, non hanno se non ristretta facoltà di sentire veramente Virgilio e gustarlo in tutto ciò che spetta alla lingua. Passo anche più avanti, e dico esser più difficile ai francesi che a qualunque altra nazione Europea, non solo il gustare e il sentire, ma anche il formarsi un'idea precisa e limpida, il familiarizzarsi, e finalmente anche l'imparare le lingue altrui. Dice ottimamente Giordani (Biblioteca Italiana vol. 3. p. 173.) che Niuna lingua, nè viva nè morta, si può imparare se non per mezzo d'un'altra lingua già ben saputa. Questo è certissimo. S'impara la lingua che non sappiamo, barattando parola per parola e frase per frase con quella che già possediamo. Ora se questa lingua che già possediamo, non si presta se non pochissimo e di pessima voglia e difficilissimamente a questi baratti, è manifesto che la difficoltà d'imparare le altre lingue, dovrà essere in proporzione. E siccome questa lingua già posseduta è [967] l'unico strumento che abbiamo a formare il concetto della natura forza e valore delle frasi e delle parole straniere, se lo strumento è insufficiente o scarso, scarso e insufficiente sarà anche l'effetto.

Ciò è manifesto 1. dal fatto. La gran difficoltà di certe lingue affatto diverse dal carattere delle nostrali, consiste in ciò, che cercando nella propria lingua parole o frasi corrispondenti, non le troviamo, e non trovandole non intendiamo, o stentiamo a intendere, o certo a concepire con distinzione ed esattezza la forza e la natura di quelle voci o frasi straniere. 2. da una ragione anche più intimamente filosofica e psicologica delle accennate. Le idee, i pensieri per se stessi non si fanno vedere nè conoscere, non si potrebbero vedere nè conoscere per se stessi. A far ciò non c'è altro mezzo che i segni di convenzione. Ma se i segni di convenzione son diversi, è lo stesso che non ci fosse convenzione, e che quelli non fossero segni, e così in una lingua non conosciuta, le idee e pensieri che esprime non s'intendono. Per intendere dunque questi segni come vorreste fare? a che cosa riportarli? alle idee e pensieri vostri immediatamente? come? se non sapete quali idee e quali pensieri significhino. Bisogna che lo intendiate per mezzo di altri segni, della cui convenzione siete partecipe, cioè per mezzo di un'altra lingua da voi conosciuta; e quindi riportiate quei segni sconosciuti, ai segni [968] conosciuti, i quali sapendo voi bene a quali idee si riportino, venite a riportare i segni sconosciuti alle idee, e per conseguenza a capirli. Ma se il numero dei segni da voi conosciuti è limitato, come farete a intendere quei segni sconosciuti che non avranno gli equivalenti fra i noti a voi? Non vale che quei segni sconosciuti corrispondano a delle idee, e che voi siate capacissimo di queste idee. Bisogna che sappiate quali sono e che lo sappiate precisamente, e non lo potete sapere se non per via di segni noti. Bisogna che se per esempio (e questo è il principale in questo argomento) quei segni sconosciuti esprimono un accidente, una gradazione, una menoma differenza, una nuance di qualche idea che voi già conoscete e tenete, e sapete esprimere con segni noti, voi intendiate perfettamente, e vi formiate un concetto chiaro e limpido di quella tale ancorchè menoma gradazione; e se questa non si può esprimere con verun segno a voi noto, come giungerete al detto effetto? Solamente a forza di conghietture, o spiegandovisi la cosa a forza di circollocuzioni. Con che non è possibile, o certo è difficilissimo che voi giungiate a formarvi un'idea chiara, distinta ec. di quella precisa idea, o mezza idea ec. espressa da quel tal segno. E perciò dico che i francesi non sono ordinariamente capaci di concepire le proprietà delle altre lingue, se non in maniera più o meno oscura, ma che [969] sempre conservi qualche cosa di confuso e di non perfetto. Ciascuna lingua (lasciando ora le parole, delle quali la francese, sebbene inferiore anche in ciò ad altre lingue, tuttavia non è povera, e in certi generi è ricca) ha certe forme, certi modi particolari e propri che per l'una parte sono difficilissimi a trovare perfetta corrispondenza in altra lingua; per l'altra parte costituiscono il principal gusto di quell'idioma, sono le sue più native proprietà, i distintivi più caratteristici del suo genio, le grazie più intime, recondite, e più sostanziali di quella favella. Nessuna lingua dunque è uno strumento così perfetto che possa servire bastantemente per concepire con perfezione le proprietà tutte e ciascuna di ciascun'altra lingua. Ma la cosa va in proporzione, e quella lingua ch'è più povera d'inversioni (Staël loc. cit. p. 11. fine) chiusa in giro più angusto (ib.), più monotona, (ib. p. 12. principio), più timida, più scarsa di ardiri, più legata, più serva di se stessa, meno arrendevole, meno libera, meno varia, più strettamente conforme in ogni parte a se stessa; questa lingua dico è lo strumento meno atto, meno valido, più insufficiente, più grossolano, per elevarci alla cognizione delle altre lingue, e delle loro particolarità.

Che se ciò vale quanto al perfetto intendere, [970] molto più quanto al perfetto gustare, che risulta dal senso intero e preciso e completo di qualità tanto più numerose, e tanto più menome e sfuggevoli, e tanto più proprie ed intime e arcane e riposte e peculiari di quella tal lingua. Una lingua, che come confessa un francese (Thomas, il cui luogo ho riportato altrove) se refuse peut-être (à la grâce), parce quelle ne peut nous donner ni cette sensibilité tendre et pure qui la fait naître, ni cet instrument facile et souple qui la peut rendre; una tal lingua dico, che è la francese, come potrà essere perfetto istrumento per concepire e sentire come conviene, le grazie ec. delle altre lingue? trattandosi poi, come ho dimostrato, che a questo effetto, gli uomini non hanno altro istrumento che la loro propria lingua, come potranno il più de' francesi, ancorchè dotti e dilicati, sentire profondamente e perfettamente, e formarsi idea netta di queste tali grazie, e vestirsi in somma intieramente, com'è necessario, delle altre lingue, e del genio loro?

Il fatto conferma queste mie obbiezioni. Ciascun popolo ama di preferenza, e gusta e sente la propria letteratura meglio di ogni altra. Questo è naturale. Ma ciò accade sommamente ne' francesi, i quali generalmente non conoscono in verità altra letteratura che la loro (dico letteratura, e non scienze, filosofia ec.). [971] Le altre non le conoscono, se non per mezzo di quelle traduzioni, che essendo fatte come ognun sa, e come comportano i limiti, il genio, la nessuna adattabilità della loro lingua, trasportano le opere straniere non solo nella lingua, ma nella letteratura loro, e le fanno parte di letteratura francese. Così che questa resta sempre l'unica che si conosca in Francia universalmente, anche dalla universalità degli studiosi. Ed è anche vero generalmente, che non solo non conoscono, ma noncurano, e disprezzano, o certo sono inclinatissimi a disprezzare le letterature straniere. Che se non disprezzano la latina e la greca, viene che non sempre gli uomini sono conseguenti, viene ch'essi parlano come parla tutto il mondo che esalta quelle letterature, viene ch'essi stimano quelle letterature come compagne o madri della loro, e nel mentre che stimano la loro come la più perfetta possibile, anzi la sola vera e perfetta, non vedono, o non vogliono vedere ch'è diversissima, e in molte parti contraria a quelle due, le quali non isdegnano di proporsi per modello e norma, e citare al loro tribunale e confronto ec. ec.; viene ch'essi credono di gustarle pienamente, e di giudicarne perfettamente ec.

Ciascuno straniero è soggetto a cadere in errore giudicando dei pregi o difetti di una lingua altrui, morta o viva, massime de' più intimi e reconditi e particolari. E così giudicando di quei pregi o difetti [972] di un'opera di letteratura straniera, che appartengono alla lingua, e di tutta quella parte dello stile (ed è grandissima e rilevantissima parte) che spetta alla lingua, o ci ha qualche relazione per qualunque verso. Ma i giudizi de' francesi sopra questi soggetti, e de' francesi anche più grandi e acuti e stimabili, sono quasi sempre falsi: in maniera che per lo più la falsità loro, va in ragione diretta della temerità ed assurance con cui sono ordinariamente pronunziati; vale a dire ch'è somma. E ordinariamente i francesi, quando parlano di certe intimità delle letterature straniere, appartenenti a lingua, fanno un arrosto di granciporri. Questo quanto al gustare. Quanto all'intendere, il fatto non è meno conforme alle mie osservazioni. Perchè la francese insieme coll'italiana, è senza contrasto, la nazione meno letterata in materia di lingue, sia lingue antiche classiche, cioè greca e latina, (nelle quali la Francia non può in nessun modo paragonarsi all'Inghilterra, Germania, Olanda ec.) sia lingue vive, delle quali la maggior parte dei francesi si contenta di essere ignorantissima, o di saperne quanto basta per usurpare il diritto di sparlarne, e giudicarne a sproposito e al rovescio. Nell'Italia (dove però l'ignoranza non è tanto compagna della temerità) [973] il poco studio delle lingue morte o vive, nasce dalla misera costituzione del paese, e dalla generale inerzia che non senza troppo naturali e necessarie cagioni, vi regna. Ed ella non è più al di sotto in genere, di quello che in ogni altro, o di studi, o di qualsivoglia disciplina, e professione della vita. Ma nella Francia le circostanze sono opposte: in luogo che vi regni l'inerzia, vi regna l'attività e le ragioni di lei; in luogo che vi regni l'ignoranza, vi regnano tutte le altre maniere di coltura; tutti gli altri studi, e tutte le buone discipline e professioni fioriscono in Francia da lungo tempo; la sua posizione geografica, e tutte le altre sue circostanze la pongono in continua e viva ed orale relazione co' forestieri, tanto nell'interno della Francia stessa, quanto fuori. Perchè dunque ella si distingue assolutamente dalle altre nazioni nella poca e poco generale coltura delle lingue altrui, vive o morte? Fra le altre cagioni che si potrebbero addurre, io stimo una delle principali quella che ho detto, cioè la difficoltà che oppone la loro stessa lingua all'intelligenza e sentimento delle altre, e l'insufficienza dello strumento che hanno per procacciarsi e la cognizione, e il gusto delle lingue altrui.

[974] Una celebre Dama Irlandese morta pochi anni fa (Lady Morgan) riferisce come cosa notabile che di tanti emigrati francesi che soggiornarono sì lungo tempo in Inghilterra, nessuno o quasi nessuno, quando tornarono in Francia coi Borboni, aveva imparato veramente l'inglese, nè poteva portar giudizio se non incompleto, inesatto, anzi spesso stravagantissimo e ridicolo, sopra la lingua e letteratura inglese; sebbene tutte erano persone ottimamente allevate, e ornate, qual più qual meno, di buoni studi.

Io non intendo con ciò di detrarre, anzi di aggiungere alla gloria di quei dottissimi e sommi letterati francesi che malgrado tutte le dette difficoltà, facendosi scala da una ad altra lingua, mediante lunghi, assidui, profondi studi delle altrui lingue e letterature, mediante i viaggi, le conversazioni ec. sono divenuti così padroni delle lingue e letterature straniere che hanno coltivate, ne hanno penetrato così bene il gusto ec. quanto mai possa fare uno straniero, e forse anche talvolta quanto possa fare un nazionale. (Cosa per altro rara, che, eccetto il Ginguené, non credo che si trovi autore francese, massime oggidì, che abbia saputo o sappia giudicare con verità della lingua e letteratura italiana: e così discorrete delle altre). E non ignoro quanto debbano massimamente le lingue e letterature orientali ai [975] dotti francesi di questo e del passato secolo. Ma questi tali dotti presenti o passati hanno parlato o parlano e più modestamente della lingua e letteratura loro, e più cautamente e con più riguardo delle altrui, siccome è costume naturale di chiunque meglio e maturamente ed intimamente conosce ed intende. (20-22. Aprile. Giorno di Pasqua. 1821). Vedi p. 978. capoverso 3.

Tra i libri diversi si annunziano le Lettere sull'India di Maria Graham, autrice di un Giornale del suo soggiorno nell'India, nelle quali campeggia un curioso paragone del Sanscritto col latino, col persiano, col tedesco, coll'inglese, col francese e coll'italiano, e si parla pure a lungo delle principali opere composte in Sanscritto. Biblioteca Italiana vol.4. p.358. Novembre 1816. n.11. Appendice. Parte italiana. rendendo conto del Giornale Enciclopedico di Napoli n. Vedi (22. Aprile 1821).

Il sistema di Copernico insegnò ai filosofi l'uguaglianza dei globi che compongono il sistema solare (uguaglianza non insegnata dalla natura, anzi all'opposto), nel modo che la ragione e la natura insegnavano agli uomini ed a qualunque vivente l'uguaglianza naturale degl'individui di una medesima specie. (22. Aprile 1821).

La scrittura dev'essere scrittura e non algebra; [976] deve rappresentar le parole coi segni convenuti, e l'esprimere e il suscitare le idee e i sentimenti, ovvero i pensieri e gli affetti dell'animo, è ufficio delle parole così rappresentate. Che è questo ingombro di lineette, di puntini, di spazietti, di punti ammirativi doppi e tripli, che so io? Sto a vedere che torna alla moda la scrittura geroglifica, e i sentimenti e le idee non si vogliono più scrivere ma rappresentare, e non sapendo significare le cose colle parole, le vorremo dipingere o significare con segni, come fanno i cinesi la cui scrittura non rappresenta le parole, ma le cose e le idee. Che altro è questo se non ritornare l'arte dello scrivere all'infanzia? Imparate imparate l'arte dello stile, quell'arte che possedevano così bene i nostri antichi, quell'arte che oggi è nella massima parte perduta, quell'arte che è necessario possedere in tutta la sua profondità, in tutta la sua varietà, in tutta la sua perfezione, chi vuole scrivere. E così obbligherete il lettore alla sospensione, all'attenzione, alla meditazione, alla posatezza nel leggere, agli affetti che occorreranno, ve l'obbligherete, dico, con le parole, e non coi segnetti, nè collo spendere due pagine in quella scrittura che si potrebbe contenere in una sola pagina, togliendo le lineette, e le divisioni ec. Che maraviglia risulta da questa sorta d'imitazioni? Non consiste nella maraviglia uno de' principalissimi pregi dell'imitazione, una [977] delle somme cause del diletto ch'ella produce? Or dunque non è meglio che lo scrittore volendo scrivere in questa maniera, si metta a fare il pittore? Non ha sbagliato mestiere? non produrrebbe egli molto meglio quegli effetti che vuol produrre scrivendo così? Non c'è maraviglia, dove non c'è difficoltà. E che difficoltà nell'imitare in questo modo? Che difficoltà nell'esprimere il calpestio dei cavalli col trap trap trap, e il suono de' campanelli col tin tin tin, come fanno i romantici? (Bürger nell'Eleonora, Biblioteca Italiana tomo 8. p. 365.) Questa è l'imitazione delle balie, e de' saltimbanchi, ed è tutt'una con quella che si fa nella detta maniera di scrivere, e coi detti segni, sconosciutissimi, e con ragione a tutti gli antichi e sommi. (22. Aprile Giorno di Pasqua 1821).

Quanto più qualsivoglia imitazione trapassa i limiti dello strumento che l'è destinato, e che la caratterizza e qualifica, tanto più esce della sua natura e proprietà, e tanto più si scema la maraviglia, come se nella scultura che imita col marmo s'introducessero gli occhi di vetro, o le parrucche invece delle chiome scolpite. E così appunto si deve dire in ordine alla scrittura, la quale imita colle parole, e non deve uscire del suo strumento. Massime se questi nuovi strumenti son troppo facili e ovvi, [978] cosa contraria alla dignità e alla maraviglia dell'imitazione, e che confonde la imitazione del poeta o dell'artefice colla misera imitazione delle balie, de' mimi, de' ciarlatani, delle scimie, e con quella imitazione che si fa tutto giorno o con parole, o con gesti, o con lavori triviali di mano, senza che alcuno si avvisi di maravigliarsene, o di crederla opera del genio, e divina. (23. Aprile 1821).

Oggi non può scegliere il cammino della virtù se non il pazzo, o il timido e vile, o il debole e misero. (23. Aprile. 1821.)

Per l'invenzione della polvere l'energia che prima avevano gli uomini si trasportò alle macchine, e si trasformarono in macchine gli uomini, cosicchè ella ha cangiato essenzialmente il modo di guerreggiare. Biblioteca Italiana t. 5. p. 31. Prospetto Storico-filosofico ec. del Conte Emanuele Bava di S. Paolo, 2.o. ed ult. estratto. (23. Aprile 1821).

Alla p. 975. Una lingua timidissima non è buono nè perfetto strumento a gustare una lingua coraggiosa ed ardita, a gustare gli ardimenti e il coraggio; nè una lingua tutta regola, e matematica, ed esattezza e ragione, a gustare una lingua naturalmente e felicemente irregolare, (come sono tutte le antiche, orientali come occidentali), una lingua regolata dalla immaginazione ec.; nè una lingua che non ha, si può dire, nessuna proprietà quanto ai modi ec. (οὐδέν τι ἴδιον) a gustare le proprietà [979] delle altre lingue. (24. Aprile 1821).

Passa rapidamente sulla ricerca del linguaggio de' primi abitatori dell'Italia, e sembra persuaso che la lingua di quelle genti, siccome pure la greca e la latina, derivassero dall'indiana, giacchè i popoli indiani dalle spiagge dell'Oriente, passarono in turme alle Occidentali, e posero sede nella Grecia ed in Italia. Formata, ossia ridotta ad eleganza la lingua latina (cioè quella derivata, secondo il Ciampi, dall'indiana), non perciò perirono l'etrusca, l'osca, la volsca, la latina antica più rozza; ma benchè queste non formassero la lingua della capitale e del governo, continuarono forse a parlarsi dal volgo, in quella maniera medesima che il volgo delle diverse provincie d'Italia è tuttora tenace dei propri dialetti. Infatti alcune voci toscane sono ancora probabilmente di origine etrusca. Biblioteca Italiana tomo 7. pag.215. rendendo conto dell'opera del Ciampi intitolata De usu linguae italicae saltem a saeculo quinto R. S. Acroasis. Accedit etc. Pisis. Prosperi. 1817. (24. Aprile 1821).

Trae perfino un argomento a suo favore dalla lingua valacca, la quale derivata dai soldati romani che vi si lasciarono stazionarii da Traiano, conviene in molte parole ed in molte frasi colla italiana, e ne mette [980] fuori di dubbio la rimota antichità. Biblioteca Italiana loc. cit. nel pensiero antecedente, rendendo conto della stessa opera, p. 217. fine. (24. Aprile 1821).

La lingua del Lazio adunque si dovette propagare nel contiguo Illirico e all'Oriente, non meno che si propagò in amendue le Gallie all'Occidente; e il nome Romania, che fino a' nostri dì si è conservato; e la lingua chiamata dai Valacchi: Romaneski, che tanto somiglia alla latina (come un viaggiatore recente ce lo conferma) (vedi Caronni in Dacia. Milano, 1812. pag.32.) non che il gran numero di antichità romane disotterrate in quelle parti, ne sono una prova convincente. Articolo originale del Cavedi Hager nello Spettatore di Milano. 1. Aprile 1818. Quaderno 97. p. 245. fine. (25. Aprile 1821).

Basta che la voce Oco che significa anch'essa occhio in russo, (cioè oltre la voce Glass che significa lo stesso) sia tanto simile all'oculus de' latini, onde dimostrare che questa voce non è meno affine alla voce latina, che la parola occhio in italiano, non essendo oculus che il diminutivo della parola occus o occos che significava un occhio in greco antico, come lo attestano Esichio ed Isidoro. Luogo citato qui sopra, p. 244. principio. Sì dunque la voce russa Oco derivata dal latino mediante la propagazione [981] della lingua latina nell'Illirico, avvenuta in bassi tempi, (Hager, ivi, p. 244. verso il mezzo ec. e Biblioteca Italiana vol. 8. p. 208, rendendo conto dell'opera dello stesso Hager: Observations sur la ressemblance frappante que l'on découvre entre la langue des Russes et celle des Romains. Milan 1817 chez Stella, en 4° gr. dove l'autore dimostra questa propagazione) essendo la lingua russa figlia dell'illirica (ivi); sì ancora la voce ojo spagnuola (che si pronunzia oco, aspirando il c all'uso spagnuolo) dimostrano che quell'antichissima voce occus, benchè sparita dalle scritture latine, si conservò nel latino volgare (25. Aprile 1821). Occhio però viene da oculus come da somniculosus, sonnacchioso, e l'antico sonnocchioso, da auricula, orecchia, da geniculum o genuculum, ginocchio (vedi pag.1181 marg.), da foeniculum, finocchio, da macula, macchia, da apicula o apecula, pecchia, da stipula, stoppia, (bisogna notare che anche gli spagnuoli dicono ojo da oculus, come oreja, oveja da auricula, ovicula ec.) da ungula, unghia ec. Vedi p. 2375. (e la p. 2281. e segg.).

Alla p. 740 La lingua greca si era conservata sempre pura, in gran parte per la grande ignoranza in cui erano i greci del latino. La quale si fa chiara sì da altri esempi che ho allegati in altro pensiero (cioè quelli di Longino nel giudizio timidissimo che dà di Cicerone, e di Plutarco nella prefazione alla Vita di Demostene, della quale vedi il TOUP ad Longin. p. 134) sì ancora da questo, che laddove i latini citavano ad ogni momento parole e passi greci, colle lettere greche, gli scrittori greci non mai citavano o usavano parole latine se non con elementi greci, e con maraviglia, e come cosa unica notò il Mingarelli in un'opera di Didimo Alessandrino, Teologo del quarto secolo, da lui per la prima volta pubblicata, due o tre parole latine barbaramente scritte in caratteri latini. (Didym. Alexandr. De Trinitate Lib.1. cap.15. Bonon. typis Laelii a Vulpe 1769. fol. p.18. gr. et lat. cura Johannis Aloysii Mingarellii. Vide ib. eius not.3. e la Lettera a Mons. Giovanni Archinto Sopra un'opera inedita di un antico teologo stampata già in Venezia nella Nuova Raccolta del Calogerà 1763. tomo XI. e ristampata nell'Appendice alla detta opera: Cap.3. pag.465. fine-466. principio. del che non si troverà [982] così facilmente altro esempio in altro scrittore greco.) Il che dimostra sì che gli stessi scrittori sì che i lettori greci erano ignorantissimi del latino, da che gli scrittori non giudicavano di poter citare parole latine, com'elle erano scritte; e di rado anche le usavano in lettere greche, al contrario de' latini rispetto alle voci greche e passi greci in caratteri latini ec. Quanto poi i greci dovessero lottare colle circostanze per mantenersi in questa verginità anche prima di Costantino, e dopo la conquista della Grecia fatta dai Romani si può raccogliere da queste parole del Cavedi Hager, nel luogo cit. qui dietro (p.980.) p. 245. Basta consultare la celebre opera di S. Agostino, de civitate dei, onde vedere quanto i Romani al medesimo tempo erano solleciti d'imporre non solo il loro giogo, ma anche la loro lingua a' popoli da loro sottomessi: Opera data est, ut imperiosa civitas, non solum iugum, verum etiam linguam suam, domitis gentibus per pacem societatis, imponeret (Lib. XIX, cap.7.) Ai Greci medesimi, dice Valerio Massimo, non davano giammai risposta che in lingua latina: illud quoque magna perseverantia custodiebant, ne Graecis unquam nisi latine responsa darent, (Lib. II., c.2. n.2.) e ciò quantunque la lingua greca fosse tanto famigliare a' Romani; nulla dimeno per diffondere la lingua latina obbligavano perfino que' Greci, che non la sapevano, a spiegarsi per mezzo di un interprete in latino: Quin etiam... per interpretem loqui cogebant... quo scilicet latinae vocis honos per omnes gentes venerabilior diffunderetur. (ibid.) [983] E tuttavia la Grecia resistè. Ma dopo Costantino, alla Corte Bizantina, segue lo stesso autore l.c. come si osserva da S. Crisostomo (advedi oppugnatores vitae monasticae. Lib. III. tom. I., p.34. Paris. 1718, edit Montfaucon.) era un mezzo di far fortuna il sapere il latino; e fino a' tempi di Giustiniano, le leggi degli imperatori greci si pubblicavano nella Grecia medesima in latino. E soggiunge subito in una nota: Le pandette furono pubblicate a Costantinopoli in latino. (25. Aprile 1821).

Nelle Mémoires de l'Académie des Inscriptions, Tom.24. si trova: Bonamy, Réflexions sur la langue latine vulgaire. (25 Aprile 1821). E son pur da vedere in questo proposito le Memorie di Trévoux, anno 1711. p.914.

Un nostro missionario (cioè italiano) il P. Paolino da S. Bartolomeo, mostrò l'affinità della lingua tedesca con una lingua indiana non solo, ma che da una lunga serie di secoli ha cessato di essere vernacola, con la samscrdamica (cioè sascrita: così la nomina anche p.208. samscrdamica) che è la madre di tutte le lingue delle Indie. Biblioteca Italiana vol. 8. p. 206. (25. Aprile 1821).

Che il verbo latino serpo sia lo stesso che il greco ἕρπο, è cosa evidente, come pure i derivati, serpyllum etc. Ma che gli antichi latini, e successivamente il volgo latino, usassero ancora, almeno in composizione, lo stesso verbo senza la [984] s, come in greco, lo raccolgo dal verbo neutro italiano inerpicare o innerpicare che significa appunto lo stesso che il greco ἀνέρπω, composto di ἕρπο, cioè sursum repo, come anche ανερπύζω. (Del verbo ἀνέρπω non ha esempio lo Scapula, ma lo spiega sursum repo. Ve n'è però esempio in Arriano, Expedit. lib.6. c.10. sect. 6. e nell'indice è spiegato sursum serpo.) Il qual verbo siccome non ha radice veruna nella nostra lingua, nè nella latina conosciuta, così l'ha evidentissima nel detto verbo ἕρπο, dal quale non può esser derivato, se non mediante il latino, cioè mediante l'uso del volgo romano, differente in questo dagli scrittori. (25 Aprile 1821).

Delle qualità e pregi della lingua Sascrita, vedi alcune cose estratte da un articolo di Jones nelle Notizie letterarie di Cesena 1791. 24. Novembre p. 365. colonna 1. Dell'abuso ch'ella fa talvolta de' composti vedi ib. p. 363. colonna 2. fine. Abuso simile a quello che ne facevano talvolta gli antichi scrittori, e massime poeti, latini, ma assai maggiore, secondo la natura de' popoli orientali che sogliono sempre e in ogni genere spingersi fino all'ultimo e intollerabile eccesso delle cose. (25. Aprile 1821).

La scoperta e l'uso delle armi da fuoco oltre agli effetti da me notati negli altri pensieri, ha scemato ancora notabilissimamente il coraggio ne' soldati, e generalmente negli uomini. La victoire... s'obtient aujourd'hui par la regularité et la précision des manoeuvres, souvent sans en venir aux mains. Nos guerres ne se décident plus guère que de loin, à coups de canon et de fusil; et nos timides fantassins, sans armes défensives, effrayés par le bruit et l'effet de [985] nos armes à feu, n'osent plus s'aborder: les combats à l'armes blanches sont devenus fort rares. Così il Barone Rogniat, Considérations sur l'Art de la guerre, Paris, de l'imprimerie de Firmin Didot, 1817. Introduction, p.1. E come i soldati, così gli altri uomini che si servono delle armi da fuoco invece delle bianche, riducendosi ora ogni battaglia o pubblica o privata, a tradimenti, e a fatti di lontano, senza mai venire corpo a corpo: oltre l'influenza che ha l'educazione militare, e la natura delle guerre sopra l'intero delle nazioni. Sarà bene ch'io legga tutta intera l'opera citata, dove l'arte della guerra è chiarissimamente esposta, congiunta a molta filosofia, paragonati continuamente gli antichi coi moderni, e i diversi popoli fra loro, applicata alla detta arte la scienza dell'uomo ec. E certo la guerra appartiene al filosofo, tanto come cagione di sommi e principalissimi avvenimenti, quanto come connessa con infiniti rami della teoria della società, e dell'uomo e dei viventi. (25. Aprile 1821).

La soverchia ristrettezza e superstizione e tirannia in ordine alla purità della lingua, ne produce dirittamente la barbarie e licenza, come la eccessiva servitù produce la soverchia e smoderata libertà dei popoli. I quali ora perciò non divengono liberi, perchè [986] non sono eccessivamente servi, e perchè la tirannia è perfetta, e peggiore che mai fosse, essendo più moderata che fosse mai. (25. Aprile 1821).

Come non si dà mai l'atto nè il possesso del diletto, così neanche dell'utilità, giacchè utile non è se non quello che conduce alla felicità, la quale non è riposta in altro che nel piacere, con qualunque nome ei venga chiamato. (25. Aprile 1821).

Dal confronto delle poesie di Ossian, vere naturali e indigene dell'Inghilterra, colle poesie orientali, si può dedurre (ironico) quanto sia naturale all'Inghilterra la sua presente poesia (come quella di Lord Byron) derivata in gran parte dall'oriente, come dice il riputatissimo giornale dell'Edinburgh Review in proposito del Lalla Roca di Tommaso Moore (Londra 1817) intitolato Romanzo orientale (Spettatore di Milano, 1 Giugno 1818, Parte Straniera. Quaderno 101. p. 233, e puoi vederlo.) Infatti le poesie d'Ossian sebben sublimi e calde, hanno però quella sublimità malinconica, e quel carattere triste e grave, e nel tempo stesso, semplice e bello, e quegli spiriti marziali ed eroici, che derivano naturalmente dal clima settentrionale. Non già quella sublimità eccessiva, quelle esagerazioni, quelle spaccamontate delle pazze fantasie orientali; nè quel sapore aromatico; nè quello splendore abbagliante, come dice il citato giornale, nè quel fasto, nè quella voluttà, nè quei profumi (sono espressioni dello stesso); nè quel colore vivo e sfacciato, ed ardente; nè quella estrema raffinatezza, e squisitezza strabocchevole in ogni genere e parte di letteratura e poesia; nè quella mollezza, quella effeminatezza, quel languore, quella delicatezza (per noi) eccessiva e nauseosa e vile e sibaritica, che deriva dai climi meridionali. Ed è veramente maraviglioso, come il paese de' più settentrionali d'Europa, stimi naturale e propria e [987] adattata alla sua indole la poesia de' paesi più meridionali e ardenti del mondo. Un paese poi come l'Inghilterra, così pieno di filosofia, e cognizioni dell'uomo, e de' caratteri nazionali e fisici ec. ec. Meno male se l'orientalismo fa progressi in Francia, (come negli scritti di Chateaubriand) paese più meridionale che settentrionale. Ma non c'era popolo colto, a cui l'orientalismo convenisse meno che all'Inghilterra, dove però trionfa, e donde io credo che sia passato in Francia sulla fine del secolo passato, e donde si va diramando per l'Europa la detta scuola. Il fatto sta che tutto il mondo è paese, e da per tutto si crede naturale e nazionale quello che fa effetto per la cagione appunto contraria, cioè per la novità, pel forestiero, pel contrasto col carattere e l'indole propria e nazionale; e come la poesia [in] Italia ha corso rischio, (e non ne è forse fuori) di una nuova corruzione mediante il settentrionalismo, l'Ossianismo ec. così viceversa l'inglese, mediante il meridionale e l'orientale. E certo se la poesia settentrionale pecca in qualche cosa al gusto nostro, egli è nell'eccesso del sombre, del buio, del tetro; e la orientale al contrario, nell'eccesso del vivo, del chiaro, del ridente, del lucido anzi abbarbagliante ec. Vedete quanta conformità di carattere fra queste due poesie! (25. Aprile 1821).

Il diletto è sempre il fine, e di tutte le cose, l'utile non è che il mezzo. Quindi il piacevole, è vicinissimo al fine delle cose umane, o quasi lo stesso con lui; l'utile che si suole stimar più del piacevole, non ha altro pregio che d'esser più lontano da esso fine, o di condurlo non immediatamente ma mediatamente. [988] (26 Aprile 1821).

I latini erano veramente δίγλοττοι rispetto alla lingua loro e alla greca 1. perchè parlavano l'una come l'altra, ma non così i greci generalmente, anzi ordinariamente: 2. perchè scrivendo citavano del continuo parole e passi greci, in lingua e caratteri greci, ovvero usavano parole o frasi greche nella stessa maniera; ma non i greci viceversa, del che vedi p. 981 e p. 1052 capoverso 3, e p. 2165. 3. Resta memoria di parecchie traduzioni fatte dal greco in latino anche ne' buoni tempi, e fino dagli ottimi scrittori latini, come Cicerone. Ed anche restano di queste traduzioni, o intere o in frammenti, come quelle di Arato fatte da Cicerone e da Germanico, quella del Timeo di Cicerone, quelle di Menandro fatte da Terenzio, quelle fatte da Apuleio o attribuite a lui, quelle dell'Odissea fatta da Livio Andronico, dell'Iliade da Accio Labeone, da Cneo Mattio o Mazzio, da Ninnio Crasso (Fabricius, Bibliotheca Graeca 1. 297.) ec. tutte anteriori a Costantino. Vedi Andrès, Storia della letteratura, ediz. di Venezia, Vitto. t. 9. p. 328. 329. cioè Parte 2. lib. 4. c. 3. principio. Non così nessuna traduzione, che sappia io, si rammenta dal latino in greco, se non dopo Costantino, e quasi tutte di opere teologiche o ecclesiastiche o sacre, cioè scientifiche e appartenenti a quella scienza che allora prevaleva. Non mai letterarie. (Vedi Andrès, t. 9. p.330. fine.) La traslazione di Eutropio fatta da Peanio che ci rimane, e l'altra perduta di un Capitone Licio, non pare che si possano riferire a letteratura, trattandosi di un compendio ristrettissimo di storia, fatto a solo uso, possiamo dire, elementare. [989] E si può dire con verità quanto alla letteratura, che la comunicazione che v'ebbe fra la greca e la romana, non fu mai per nessunissimo conto reciproca, neppur dopo che la letteratura Romana era già grandissima e nobilissima, anzi superiore assai alla letteratura greca contemporanea. 4. I latini scrivevano bene spesso in greco del loro. Così fa molte volte Cicerone nelle epistole ad Attico (forse anche nelle altre); dove forse per non essere inteso dal portalettere, la qual gente, com'egli dice, soleva alleviare la fatica e la noia del viaggio leggendo le lettere che portava; ovvero per evitare gli altri pericoli di lettere vertenti sopra negozi pubblici, politici ec. dal contesto latino passa bene spesso a lunghi squarci scritti in greco, e tramezzati al latino, e scritti anche in maniera enigmatica e difficile. Restano parecchie lettere greche di Frontone. Resta l'opera greca di Marcaurelio, il quale imperatore scriveva parimente, com'è naturale, in latino, e così bene, come si può vedere nelle sue lettere ultimamente scoperte. Eliano, conosciuto solamente come scrittor greco, fu di Preneste, e quindi cittadino Romano, ed appena si mosse mai d'Italia. Nondimeno dice di lui Filostrato: ῾Pωμαῖος μὲν ἦν, ἠττίχιζε δὲ ὥσπερ οἱ ἐν τῇ μεσογείᾳ ᾽Aϑηναῖοι (Fabricius iii,  696. not.) (3) Non così i greci sapevano mai scrivere in latino. Anzi Appiano in Roma scrivendo a Frontone, uomo latino, sebbene di origine affricana, scriveva in greco, e Frontone rispondeva parimente in greco, non in latino. E così molti libri di autori greci si trovano, scritti in greco, sebbene indirizzati a personaggi [990] romani o latini.

Le stesse cose appresso a poco si possono notare avvenute a noi riguardo al francese. Giacchè fino a tanto che la nostra letteratura prevalse o per merito reale, o per continuazione di fama e di opinione generale, e la nostra lingua era per tutti i versi più studiata, più conosciuta, più dilatata fra i francesi ed altrove, e la nostra letteratura parimente, sì nella nazione, che fra' suoi letterati e scrittori; e si trovarono di quei francesi che scrivevano in ambedue le lingue francese e italiana. Ora accade tutto l'opposto: e si trovano degl'italiani, come anche non pochi d'altre nazioni, che scrivono e stampano così nella lingua francese, come nella loro: libri, parole, testi francesi si allegano continuamente in tutti i paesi di Europa: non così viceversa in Francia, dove difficilmente si troverà un francese che sappia scrivere altra lingua che la sua, e scrivendo a' forestieri scriveranno in francese, e riceveranno risposta nella stessa lingua; e dove è più necessario che in qualunque altro paese colto, che i passi o parole che si citano di libri forestieri, (e massime italiani) si citino in francese, o se n'aggiunga la traduzione.

Osservo ancor questo. Ridotti in provincie romane i diversi paesi dell'impero, tutti gli scrittori che uscirono di queste provincie, qualunque lingua fosse in esse originaria o propria, scrissero in latino. I Seneca, Quintiliano, Marziale, [991] Lucano, Columella, Prudenzio, Draconzio, Giovenco, ed altri Spagnuoli; Ausonio, Sidonio Apollinare, S. Prospero, S. Ilario, Latino Pacato, Eumenio, Sulpizio Severo ed altri Galli; Terenzio, Marziano Capella, Frontone, Apuleio, Nemesiano, Tertulliano, Arnobio, S. Ottato, Mario Vittorino, S. Agostino, S. Cipriano, Lattanzio ed altri Affricani; Sedulio Scozzese. Vedi p.1014. Parecchi de' quali arrivarono ancora all'eccellenza nella lingua latina. Non così i greci. E dico tanto i greci Europei, quanto quelli nativi delle colonie greche nell'Asia Minore, o delle altre parti dell'Asia divenute greche di lingua e di costumi dopo la conquista di Alessandro, e così dell'Egitto, o di qualunque luogo dove la lingua greca prevalesse nell'uso quotidiano, ovvero anche solamente come lingua degli scrittori e della letteratura. Nessuno di questi scrisse in latino, ma tutti in greco, eccetto pochissimi (come Claudiano, e Igino Alessandrini, Petronio Marsigliese ec.); che son quasi nulla rispetto al numero ed estensione delle dette provincie greche, massime paragonandoli alla gran copia degli altri scrittori latini forestieri di ciascuna provincia, ancorchè minore. E di questi pochissimi nessuno arrivò, non dico all'eccellenza, ma appena alla mediocrità nella lingua latina. Vedi p.1029. E Macrobio, che si stima uno di questi pochissimi, si scusa se ec. (vedi il Fabricio, Bibliotheca Latina t. 2. p.113. l.3. c.12. §.9. nota a) e di lui dice Erasmo (in Ciceroniano) Graeculum latine balbutire credas. (Fabricio, ivi) Cosa applicabilissima agli odierni francesi per lo più balbettanti nelle altrui lingue, e massime nella nostra. E di Ammiano Marcellino, altro di questi pochissimi, e più antico di Macrobio, dice il Salmasio (Praef. de Hellenistica p.39.) ec. Vedi il Fabricio l. c. p. 99. nota b) l.3. c. 12 §. 1.

[992] Ma del resto i greci di qualunque parte, ancorchè sudditi romani, ancorchè cittadini romani, ancorchè vissuti lungo tempo in Roma o in Italia, ancorchè scrivendo precisamente in Italia o in Roma, e in mezzo ai latini, ancorchè scrivendo ai romani tanto gelosi del predominio del loro linguaggio, come sì è veduto p. 982. 983. ancorchè nel tempo dell'assoluta padronanza, ed intiera estensione del dominio della nazione latina, ancorchè impiegati in cariche, in onori ec. al servizio de' Romani, e nella stessa Roma, ancorchè finalmente nominati con nomi e prenomi latini, scrissero sempre in greco, e non mai altrimenti che in greco. Così Polibio, familiare, compagno, e commilitone del minore Scipione; così Dionigi d'Alicarnasso, vissuto 22 anni in Roma; così Arriano prenominato Flavio (Fabricio, Bibliotheca Graeca III, 269, not. b) fatto cittadino Romano, senatore, Console, caro all'imperatore Adriano, e mandato prefetto di provincia armata in Cappadocia; così Dione Grisostomo, cognominato Cocceiano dall'Imperatore Cocceio Nerva, vissuto gran tempo in Roma, e familiare del detto Imperatore e di Traiano; così l'altro Dione prenominato Cassio e cognominato parimente Cocceiano ec.; così Plutarco ec.; così Appiano ec. così Flegone, ec.; così Galeno prenominato Claudio ec.; così Erode Attico prenominato Tiberio Claudio, ec.; così Plotino ec.; (vedi per ciascuno di questi il Fabricio) così quell'Archia poeta ec. (vedi Cicerone, pro Archia).

Da tutto ciò si deduce in primo luogo, quanto, e con quanta differenza dalle altre nazioni, i greci [993] di qualunque paese fossero tenaci della lingua e letteratura loro, e noncuranti della latina, anche durante e dopo il suo massimo splendore. Considerando ancora che generalmente gli scrittori greci di qualunque età, e nominatamente i sopraddetti e loro simili, che per le loro circostanze, parrebbono non solo a portata ma in necessità di aver conosciuto la letteratura latina, non danno si può dir mai segno veruno di conoscerla, nè la nominano ec. e se citano talvolta qualche autore latino, li citano e se ne servono per usi di storia, di notizie, di scienze, di teologia ec. non mai di letteratura. Questa è cosa universale negli scrittori greci.

In secondo luogo risulta dalle sopraddette cose, che i mezzi usati dai romani per far prevalere la loro lingua, come nelle altre nazioni, così in Grecia, e ne' moltissimi paesi dove il greco era usato, (vedi p. 982-83.) laddove riuscirono in tutti gli altri luoghi, non riuscirono e furon vani in questi. Ed osservo che la lingua latina non prevalse mai alla greca in nessun paese dov'ella fosse stabilita, sia come lingua parlata, sia come lingua scritta: laddove la greca avea prevaluto a tutte le altre in questi tali (vastissimi e numerosissimi) paesi, e in quasi mezzo mondo; e quello che [994] non potè mai la lingua nè la potenza nè la letteratura latina, lo potè, a quel che pare, in poco spazio, l'arabo, e le altre lingue o dialetti maomettani, (come il turco ec.) e così perfettamente, come vediamo anche oggidì. Ma la lingua latina, (eccetto nella Magna Grecia e in Sicilia) non solo non estirpò, ma non prevalse mai in nessun modo e in nessun luogo alla lingua e letteratura greca, se non come pura lingua della diplomazia: quella lingua latina, dico, la quale nelle Gallie aveva, se non distrutta, certo superata quell'antichissima lingua Celtica così varia, così dolce, così armoniosa, così maestosa, così pieghevole, (Annali 1811. n. 18. p. 386. Notizie letterarie di Cesena 1792. p. 142.) e che al Cav. Angiolini che se la fece parlare da alcuni montanari Scozzesi, parve somigliante ne' suoni alla greca: (Lettere sopra l'Inghilterra, Scozia, ed Olanda. vol. 2do. Firenze 1790. Allegrini. 8° anonime, ma del Cav. Angiolini; Notizie ec. l. c.) lingua della cui purità erano depositarii e custodi gelosissimi quei famosi Bardi che avevano e conservarono per sì lungo tempo, ancor dopo la conquista fatta da' Romani, tanta influenza sulla nazione, e massime poi la letteratura: (Annali ec. l. c. p. 385.386. principio.) quella lingua così ricca, e ogni giorno più ricca di tanti poemi, parte de' quali anche [995] oggi si ammirano. Questa lingua e letteratura cedette alla romana; vedi p. 1012. capoverso 1. la greca non mai; neppur quando Roma e l'Italia spiantata dalle sue sedi, si trasportò nella stessa Grecia. Perocchè sebbene allora la lingua greca fu corrotta finalmente di latinismi, ed altre barbarie, (scolastiche ec.) imbarbarì è vero, ma non si cangiò; e in ultimo, piuttosto i latini vincitori e signori si ridussero a parlare quotidianamente e scrivere il greco, e divenir greci, di quello che la Grecia vinta e suddita a divenir latina e parlare o scrivere altra lingua che la sua. Ed ora la lingua latina non si parla in veruna parte del mondo, la greca, sebbene svisata, pur vive ancora in quell'antica e prima sua patria. Tanta è l'influenza di una letteratura estesissima in ispazio di tempo, e in quantità di cultori e di monumenti; sebbene ella già fosse cadente a' tempi romani, e a' tempi di Costantino, possiamo dire, spenta. Ma i greci se ne ricordavano sempre, e non da altri imparavano a scrivere che da' loro sommi e numerosissimi scrittori passati, siccome non da altri a parlare, che dalle loro madri. Vedi p. 996. capoverso 1. Certo è che la letteratura influisce sommamente sulla lingua. (Vedi p. 766. segg.) Una lingua senza letteratura, o poca, non difficilmente si spegne, o si travisa in maniera non riconoscibile, non potendo ella esser formata, nè per conseguenza troppo radicata e confermata, siccome immatura e imperfetta. E questo accadde alla lingua Celtica, forse perch'ella scarseggiava sommamente di scritture, sebbene abbondasse di componimenti, che per lo più passavano solo di bocca in bocca. Non così una lingua abbondante di scritti. Testimonio ne sia la Sascrita, [996] la quale essendo ricca di scritture d'ogni genere, e di molto pregio secondo il gusto orientale, e della nazione, vive ancora (comunque corrotta) dopo lunghissima serie di secoli, in vastissimi tratti dell'India, malgrado le tante e diversissime vicende di quelle contrade, in sì lungo spazio di tempo. E sebbene anche i latini ebbero una letteratura, e grande, e che sommamente contribuì a formare la loro lingua, tuttavia si vede ch'essa letteratura, venuta, per così dire, a lotta colla greca, in questo particolare, dovè cedere, giacchè non solamente non potè snidare la lingua e letteratura greca, da nessun paese ch'ella avesse occupato, ma neanche introdursi nè essa nè la sua lingua in veruno di questi tanti paesi. (29. Aprile. 1821). Vedi p. 999. capoverso 1.

Alla p. 995. Infatti i greci anche nel tempo della barbarie, conservarono sempre la memoria, l'uso, la cognizione delle loro ricchezze letterarie, e la venerazione e la stima de' loro sommi antichi scrittori. E questo a differenza de' latini, dove ne' secoli barbari, non si sapeva più, possiamo dir, nulla, di Virgilio, di Cicerone ec. L'erudizione e la filologia non si spensero mai nella Grecia, mente erano ignotissime in Italia; anzi nella Grecia essendo subentrate alle altre buone e grandi discipline, durarono tanto che la loro letteratura sebbene spenta già molto innanzi, quanto al fare, non si spense mai quanto alla memoria, alla cognizione e [997] allo studio, fino alla caduta totale dell'impero greco. Ciò si vede primieramente da' loro scrittori de' bassi tempi, in molti de' quali anzi in quasi tutti (mentre in Italia il latino scritto non era più riconoscibile, e nessuno sognava d'imitare i loro antichi) la lingua greca, sebbene imbarbarita, conserva però visibilissime le sue proprie sembianze: ed in parecchi è scritta con bastante purità, e si riconosce evidentemente in alcuni di loro l'imitazione e lo studio de' loro classici e quanto alla lingua e quanto allo stile; sebbene degenerante l'una e l'altro nel sofistico, il che non toglie la purità quanto alla lingua. Arrivo a dire che in taluni di loro, e ciò fino agli ultimissimi anni dell'impero greco, si trova perfino una certa notabile eleganza e di lingua e di stile. In Gemisto è maravigliosa l'una e l'altra. Tolti alcuni piccoli erroruzzi di lingua (non tali che sieno manifesti se non ai dottissimi) le sue opere o molte di loro si possono sicuramente paragonare e mettere con quanto ha di più bello la più classica letteratura greca e il suo miglior secolo. Oltre a ciò l'erudizione e la dottrina filologica, e lo studio de' classici è manifesto negli scrittori greci più recenti, a differenza de' latini. Gli antichi classici, e singolarmente Omero, benchè il più antico di tutti, non lasciarono mai di esser citati negli scritti greci, finchè la Grecia ebbe chi scrivesse. E vi si alludeva spessissimo ec. Non domanderò ora qual uomo latino nel terzo secolo si possa paragonare a un Longino o a un Porfirio. Non chiederò che mi si mostri nel nono secolo, anzi in tutto lo spazio che corse dopo il secondo secolo fino al decimoquarto, un latino, non dico uguale, ma somigliante [998] di lontano a Fozio, uomo nei pregi della lingua e dello stile non dissimile dagli antichi, e superiore agli stessi antichi nell'erudizione e nel giudizio e critica letteraria, doti proprie di tempi più moderni. Tenendomi però a' tempi bassissimi, e potendo recare infiniti esempi, mi contenterò degli scritti di quel Giovanni Tzetze, che fu nel 12.mo secolo, e di Teodoro Metochita che viveva nel 14.mo; scritti pieni di indigesta ma immensa erudizione classica.

Secondariamente la mia proposizione apparisce da quei greci che vennero in Italia nel trecento, e dopo la caduta dell'impero greco, nel quattrocento. E mentre in Italia si risuscitavano gli antichi scrittori latini che giacevano sepolti e dimenticati da tanto tempo nella loro medesima patria, i greci portavano qua il loro Omero, il loro Platone e gli altri antichi, non come risorti o disseppelliti fra loro, ma come sempre vissuti. Della erudizione e dottrina di quei greci, delle cose che fecero in Italia, delle cognizioni che introdussero, delle opere che scrissero, parte in greco, ed alcune proprio eleganti; parte in latino, riducendosi allora finalmente per la prima volta ad usare il linguaggio de' loro antichi e già distrutti vincitori; essendo cose notissime, non accade se non accennarle. (29. Aprile, 1821).

[999]Alla p. 996. E la letteratura latina non potè impedire che la sua lingua non si spegnesse, laddove la greca ancor vive, benchè corrotta, perchè sapendo il greco antico, si arriva anche senza preciso studio a capire il greco moderno. Non così sapendo il latino, a capir l'italiano ec. Onde la presente lingua greca non si può distinguere dall'antica, come l'italiano ec. dal latino, che son lingue precisamente diverse, benchè parenti. E neppure si capisce l'italiano sapendo il francese, nè ec. (29 Aprile. 1821). Vedi p. 1013. capoverso 1.

In prova di quanto la lingua greca, fosse universale, e giudicata per tale, ancor dopo il pieno stabilimento, e durante la maggiore estensione del dominio romano e de' romani pel mondo; si potrebbe addurre il Nuovo Testamento, Codice della nuova religione sotto i primi imperatori, scritto tutto in greco, quantunque da scrittori Giudei (così tutti chiamano gli Ebrei di que' tempi), quantunque l'Evangelio di S. Marco si creda scritto in Roma e ad uso degl'italiani, giacchè è rigettata da tutti i buoni critici l'opinione che quell'Evangelio fosse scritto originariamente in latino; (Fabricio Bibliotheca Graeca III. 131.) quantunque v'abbia un'Epistola di S. Paolo cittadino Romano, diretta a' Romani, un'altra agli Ebrei; quantunque v'abbiano le Epistole dette Cattoliche, cioè universali, di S. Giacomo, e di S. Giuda Taddeo. Ma senza entrare nelle quistioni intorno alla lingua originale del nuovo testamento, o delle diverse sue parti, osserverò quello che dice il Fabricio, Bibliotheca Graeca, edit. vet. t.3. p.153. lib.4. c.5 §.9 parlando dell'Epistola di S. Paolo a' Romani: graece scripta est, non latine, etsi Scholiastes Syrus notat scriptam esse Romane ךומאבח, quo vocabulo Graecam [1000] linguam significari, Romae tunc et in omni fere Romano imperio vulgatissimam, Seldenus ad Eutychium observavit. E p.131. nota d) §. 3. parlando delle testimonianze Orientalium recentiorum che dicono essere stato scritto il Vangelo di S. Marco in lingua romana, dice che furono o ingannati, o male intesi dagli altri, nam per romanam linguam etiam ab illis Graecam quandoque intelligi observavit Seldenus. Intendi l'opera di Giovanni Selden intitolata: Eutychii Aegyptii Patriarchae Orthodoxorum Alexandrini Ecclesiae suae Origines ex eiusdem Arabico nunc primum edidit ac Versione et Commentario auxit Joannes Seldenus. Per lo contrario Giuseppe Ebreo nel proem. dell'Archeol. §. 2. principio e fine, chiama Greci tutti coloro che non erano Giudei, o sia gli Etnici, compresi per conseguenza anche i romani. E così nella Scrittura ῞Eλληνες passim opponuntur Iudaeis, et vocantur ethnici, a Christo alieni (Scapula). Così ne' Padri antichi. Il che pure ridonda a provare la mia proposizione. E Gioseffo avendo detto di scrivere per tutti i Greci (cioè i non ebrei), scrive in greco. Vedi anche il Forcell. vedi Graecus in fine.

Osservo ancora che Giuseppe Ebreo avendo scritto primieramente i suoi libri della Guerra Giudaica nella lingua sua patria, qualunque fosse questa lingua, o l'Ebraica, come crede l'Ittigio, (nel Giosef. dell'Havercamp, t. II. appendice p. 80. colonna 2.) o la Sirocaldaica, come altri, (vedi Basnag. Exercit. ad. Baron. p. 388. Fabric. 3. 230. not. p), in uso, com'egli dice, de' barbari dell'Asia superiore, cioè, com'egli stesso spiega (de Bello Iud. Proem. art. 2. edit. Haverc. t. 2. p. 48.) de' Parti, de' Babilonesi, degli Arabi più lontani dal mare, de' Giudei di là dall'Eufrate, e degli Adiabeni; (Fabric. l. c. Gioseffo l. c. p. 47. not. h.) volendo poi, com'egli dice, accomodarla all'uso de' sudditi dell'imperio [1001] Romano, τῖς χατὰ τὴν ῾Pωμαίων ἡγεμονίαν, e scrivendo in Roma, giudicò, come pur dice, (Fabric. 3. 229. fine e 230. principio.) e come fece, di traslatarla (non in latino) in greco, ῾Eλλάδι γλώσσῃ μεταβαλεῖν. (Idem, l. c. art. 1. p. 47.) E così traslatata la presentò a Vespasiano e a Tito, Impp. Romani. (Ittigio l. c. Fabric. 3. 231. lin. 8. Tillemont, Empereurs t. 1. p. 582.) (30. Aprile. 1821).

La lingua greca, benchè a noi sembri a prima vista il contrario, e ciò in gran parte a cagione delle circostanze in cui siamo tutti noi Europei ec. rispetto alla latina, è più facile della latina; dico quella lingua greca antica quale si trova ne' classici ottimi, e quella lingua latina quale si trova ne' classici del miglior tempo; e l'una e l'altra comparativamente, qual'è presso gli scrittori dell'ottima età dell'una e dell'altra lingua. E ciò malgrado la maggiore ricchezza grammaticale ed elementare della lingua greca. Questa dunque è la cagione perch'ella fosse più atta della latina ad essere universale: e n'è la cagione sì per se stessa e immediatamente, sì per la somiglianza che produce fra la lingua volgare e quella della letteratura, fra la parlata e la scritta. (1. Maggio 1821).

Quello che ho detto della difficoltà naturale che hanno e debbono avere i francesi a conoscere e molto più a gustare le altrui lingue, cresce se si applica alle lingue antiche, e fra le moderne Europee e colte, alla lingua nostra. Giacchè la lingua [1002] francese è per eccellenza, lingua moderna; vale a dire che occupa l'ultimo degli estremi fra le lingue nella cui indole ec. signoreggia l'immaginazione, e quelle dove la ragione. (Intendo la lingua francese qual è ne' suoi classici, qual è oggi, qual è stata sempre da che ha preso una forma stabile, e quale fu ridotta dall'Accademia). Si giudichi dunque quanto ella sia propria a servire d'istrumento per conoscere e gustare le lingue antiche, e molto più a tradurle: e si veda quanto male Mad. di Staël (vedi p. 962.) la creda più atta ad esprimere la lingua romana che le altre, perciocch'è nata da lei. Anzi tutto all'opposto, se c'è lingua difficilissima a gustare ai francesi, e impossibile a rendere in francese, è la latina, la quale occupa forse l'altra estremità o grado nella detta scala delle lingue, ristringendoci alle lingue Europee. Giacchè la lingua latina è quella fra le dette lingue (almeno fra le ben note, e colte, per non parlare adesso della Celtica poco nota ec.) dove meno signoreggia la ragione. Generalmente poi le lingue antiche sono tutte suddite della immaginazione, e però estremamente separate dalla lingua francese. Ed è ben naturale che le lingue antiche fossero signoreggiate dall'immaginazione più che qualunque moderna, e quindi siano senza contrasto, le meno adattabili alla lingua francese, all'indole sua, ed alla conoscenza e molto più al gusto de' francesi. [1003] Nella scala poi e proporzione delle lingue moderne, la lingua italiana, (alla quale tien subito dietro la Spagnuola) occupa senza contrasto l'estremità della immaginazione, ed è la più simile alle antiche, ed al carattere antico. Parlo delle lingue moderne colte, se non altro delle Europee: giacchè non voglio entrare nelle Orientali, e nelle incolte regna sempre l'immaginazione più che in qualunque colta, e la ragione vi ha meno parte che in qualunque lingua formata. Proporzionatamente dunque dovremo dire della lingua francese rispetto all'italiana, quello stesso che diciamo rispetto alle antiche. E il fatto lo conferma, giacchè nessuna lingua moderna colta, è tanto o ignorata, o malissimo e assurdamente gustata dai francesi, quanto l'italiana: di nessuna essi conoscono meno lo spirito e il genio, che dell'italiana; di nessuna discorrono con tanti spropositi non solo di teorica, ma anche di fatto e di pratica; non ostante che la lingua italiana sia sorella della loro, e similissima ad essa nella più gran parte delle sue radici, e nel materiale delle lettere componenti il radicale delle parole (siano radici, o derivati, o composti); e non ostante che per esempio la lingua inglese e la tedesca, nelle quali essi riescono molto meglio, (anche nel tradurre ec. mentre una traduzione francese dall'italiano dal latino o dal greco non è riconoscibile) appartengano a tutt'altra famiglia di lingue. (1 Maggio 1821). Vedi p. 1007. capoverso 1.

[1004] Uno dei principali dogmi del Cristianesimo è la degenerazione dell'uomo da uno stato primitivo più perfetto e felice: e con questo dogma è legato quello della Redenzione, e si può dir, tutta quanta la Religion Cristiana. Il principale insegnamento del mio sistema, è appunto la detta degenerazione. Tutte, per tanto, le infinite osservazioni e prove generali o particolari, ch'io adduco per dimostrare come l'uomo fosse fatto primitivamente alla felicità, come il suo stato perfettamente naturale (che non si trova mai nel fatto) fosse per lui il solo perfetto, come quanto più ci allontaniamo dalla natura, tanto più diveniamo infelici ec. ec.: tutte queste, dico, sono altrettante prove dirette di uno dei dogmi principali del Cristianesimo, e possiamo dire, della verità dello stesso Cristianesimo. (1. Maggio 1821).

Tanto era l'odio degli antichi (quanti aveano una patria e una società) verso gli stranieri, e verso le altre patrie e società qualunque; che una potenza minima, o anche una città solo assalita da una nazione intera (come Numanzia da' Romani), non veniva mica a patti, ma resisteva con tutte le sue forze, e la resistenza si misurava dalle dette forze, non già da quelle del nemico; e la deliberazione di resistere era immancabile, e immediata, e senza consultazione vervna; e dipendeva dall'essere assaliti, non [1005] già dalla considerazione delle forze degli assalitori e delle proprie, dei mezzi di resistenza, delle speranze che potevano essere nella difesa ec. E questa era, come ho detto, una conseguenza naturale dell'odio scambievole delle diverse società, dell'odio che esisteva nell'assalitore, e che obbligava l'assalito a disperare de' patti; dell'odio che esisteva nell'assalito, e che gl'impediva di consentire a soggettarsi in qualunque modo, malgrado qualunque utilità nel farlo, e qualunque danno nel ricusarlo, ed anche la intera distruzione di se stessi e della propria patria, come si vede nel fatto presso gli antichi, e fra gli altri, nel citato esempio di Numanzia.

Oggi per lo contrario, la resistenza dipende dal calcolo, delle forze, dei mezzi, delle speranze, dei danni, e dei vantaggi, nel cedere o nel resistere. E se questo calcolo decide pel cedere, non solamente una città ad una nazione, ma una potenza si sottomette ad un'altra potenza, ancorchè non eccessivamente più forte; ancorchè una resistenza vera ed intera potesse avere qualche fondata speranza. Anzi oramai si può dire che le guerre o i piati politici, si decidono a tavolino col semplice calcolo delle forze e de' mezzi: io posso impiegar tanti uomini, tanti danari ec. il nemico tanti: resta dalla parte mia tanta inferiorità, o superiorità: dunque assaliamo o no, cediamo ovvero non cediamo. [1006] E senza venire alle mani, nè far prova effettiva di nulla, le provincie, i regni, le nazioni, pigliano quella forma, quelle leggi, quel governo ec. che comanda il più forte: e in computisteria si decidono le sorti del mondo. Così discorretela proporzionatamente anche riguardo alle potenze di un ordine uguale.

In questo modo oggi il forte, non è forte in atto, ma in potenza: le truppe, gli esercizi militari ec. non servono perchè si faccia esperienza di chi deve ubbidire o comandare ec. ec. ma solamente perchè si possa sapere e conoscere e calcolare, a che bisogni determinarsi: e se non servissero al calcolo sarebbero inutili, giacchè in ultima analisi il risultato delle cose politiche, e i grandi effetti, sono come se quelle truppe ec. non avessero esistito.

Ed è questa una naturale conseguenza della misera spiritualizzazione delle cose umane, derivata dall'esperienza, dalla cognizione sì propagata e cresciuta, dalla ragione, e dall'esilio della natura, sola madre della vita, e del fare. Conseguenza che si può estendere a cose molto più generali, e trovarla egualmente vera, sì nella teorica, come nella pratica. Dalla quale spiritualizzazione che è quasi lo stesso coll'annullamento, risulta che oggi in luogo di fare, si debba computare; e laddove gli antichi facevano le cose, i moderni le contino; e i risultati una volta delle azioni, oggi sieno [1007] risultati dei calcoli; e così senza far niente, si viva calcolando e supputando quello che si debba fare, o che debba succedere; aspettando di fare effettivamente, e per conseguenza di vivere, quando saremo morti. Giacchè ora una tal vita non si può distinguere dalla morte, e dev'essere necessariamente tutt'uno con questa (1. Maggio 1821).

Alla p. 1003. fine. Oltre le dette considerazioni la lingua francese, è anche estremamente distinta dall'Italiana, perciò ch'ella è fra le moderne colte (e per conseguenza fra tutte le lingue) senza contrasto la più serva, e meno libera; naturale conseguenza dell'essere sopra tutte le altre, modellata sulla ragione. Al contrario l'italiana è forse e senza forse, fra le dette lingue la più libera, cosa la quale mi consentiranno tutti quelli che conoscono a fondo la vera indole della lingua italiana, conosciuta per verità da pochissimi, e ignorata dalla massima parte degl'italiani, e degli stessi linguisti. Nella quale libertà la lingua italiana somiglia sommamente alla greca; ed è questa una delle principali e più caratteristiche somiglianze che si trovano fra la nostra lingua e la greca. A differenza della latina, la quale, secondo che fu ridotta da' suoi ottimi scrittori, e da' suoi formatori e costitutori, è sommamente ardita, e sommamente varia, non perciò sommamente [1008] libera, anzi forse meno di qualunque altra lingua antica, uno de' primi distintivi delle quali è la libertà. Ma la lingua latina sebbene non suddita in nessun modo della ragione, è però suddita, dirò così, di se stessa, e del suo proprio costume, più di qualunque antica: il qual costume fisso e determinato per tutti i versi, ancorchè ardito, ella non può però trasgredirlo, nè alterarlo, nè oltrepassarlo ec. in verun modo; così che sebbene ella è ricchissima di forme in se stessa, non è però punto adattabile a verunissima altra forma, nè pieghevole se non ai modi determinati dalla sua propria usanza. E perciò appunto, come ho detto altrove, ella non era punto adattata alla universalità, perchè l'ardire non era accompagnato dalla libertà. E la perfetta attitudine alla universalità consiste nel non essere nè ardita nè varia nè libera, come la francese. Un'altra attitudine meno perfetta nell'essere e ardita e varia, e nel tempo stesso libera, come la greca. L'ardire e la varietà, sebbene per lo più sono compagne della libertà, non però sempre; nè sono la stessa cosa colla libertà, come si vede nell'esempio della lingua latina, e bisogna perciò distinguere queste qualità.

Del resto la servilità e timidezza della lingua francese, la distingue dunque più che da qualunque altra, dalle antiche, e fra le moderne dall'italiana.

[1009] E queste sono le ragioni per cui la lingua italiana, benchè tanto affine alla francese, come ho detto p. 1003. tuttavia n'è tanto lontana e dissimile, massimamente nell'indole; e per cui la lingua italiana perde tutta la sua naturalezza, e la sua proprietà, o forma propria e nativa, adattandosi alla francese, che l'è pur sorella: e per cui i francesi sono meno adattati che verun altro a conoscere e gustar l'italiano, cosa che apparisce dal fatto; e finalmente per cui la lingua francese è meno adattabile alle lingue antiche, e alle stesse lingue madri sue e della sua letteratura, come il latino e il greco, di quello che alle lingue moderne da lei divise di cognazione, di parentela, di famiglia, di sangue, di origine, di stirpe.

Quello che ho detto qui sopra dell'ardire, della varietà, della libertà, si deve estendere a tutte le altre qualità caratteristiche delle lingue antiche, e dell'italiana, e conseguenti dall'esser esse modellate sull'immaginazione e sulla natura, come dire la forza, l'efficacia, l'evidenza ec. ec. qualità che in parte derivano pure dalle altre sopraddette, e scambievolmente l'una dall'altra, e perciò mancano essenzialmente alla lingua francese.

Nè queste qualità, che dico proprie delle lingue [1010] antiche, si deve credere ch'io lo dica solamente in vista della greca e della latina, ma di tutte; ed alcune (come la varietà, ricchezza ec.) delle colte massimamente. Esse qualità infatti sono state notate nella lingua Celtica, (vedi p. 994.) nella Sascrita, (vedi Annali di scienze e lettere. Milano. Gennaio 1811. n. 13. p. 54. fine-55.) (lingue coltissime) benchè sieno diversissime dalle nostrali; e così in tante altre. Nè bisognano esempi e prove di fatto, a chi sa che le dette e simili qualità derivano immancabilmente dalla natura, maestra e norma e signora e governatrice degli antichi e delle cose loro. (2. Maggio 1821).

Della lingua volgare latina antica vedi Andrès, Dell'Orig. d'ogni letteratura ec. Parte 1. c. 11. Ediz. Veneta del Vitto. t. 2. p. 256-257. nota. La qual nota è del Loschi. Che però egli s'inganni, lo mostrano le mie osservazioni sopra la lingua di Celso, scrittore non dell'antica e mal formata, ma della perfetta ed aurea latinità. (4. Maggio 1821).

Se i tedeschi oggidì hanno tanto a cuore, e stimano così utile l'investigare e il conoscere fondatamente le origini della loro lingua, e se il Morofio (Polyhist. lib.4. cap.4.) si lagnava che al suo tempo i suoi tedeschi fossero trascurati nello studiare le dette origini; Dolendum ec. vedi Andrès luogo cit. qui sopra, p. 249. quanto più dobbiamo noi italiani studiare e mettere a profitto la lingua latina (che sono le nostre origini); lingua così suscettibile di perfetta [1011] cognizione; lingua così ricca, così colta, così letterata ec. ec.; lingua così copiosa di monumenti d'ogni genere e di tanto pregio: laddove per lo contrario la lingua teutonica originaria della tedesca (Andrès, ivi, p. 249. 251. 253. lin. 6. 14. 18. paragonando anche questi ult. tre luoghi colla p. 266. lin. 9) è difficilissima a conoscere con certezza, e impossibile a conoscere se non in piccola parte, è lingua illetterata ed incolta, e scarsissima di monumenti, e quelli che ne restano sono per se stessi di nessun pregio. (Andrès, 249-254.) Aggiungete che l'esser la lingua latina universalmente conosciuta, e stata in uso nel mondo, ed ancora in uso in parecchie parti della vita civile, non solo giova alla ricchezza della fonte ec. ma anche al poterne noi attingere con assai più franchezza. Se la lingua teutonica fosse pure stata altrettanto grande e ricca, ed a forza di studio si potesse pur tutta conoscere ec. che cosa si potrebbe attingere da una lingua dimenticata, e nota ai soli dotti ec. ec.? chi potrebbe intendere a prima giunta le parole che se ne prendessero? ec. Vedi p. 3196. (4. Maggio 1821).

Il sentimento moderno è un misto di sensuale e di spirituale, di carne e di spirito; è la santificazione della carne (laddove la religion Cristiana è la santificazione dello spirito); e perciò siccome il senso non si può mai escludere dal vivente, questa sensibilità che lo santifica e purifica, è riconosciuto pel più valevole rimedio e preservativo contro di lui, e contro delle sue bassezze. (4. Maggio 1821).

Alla p. 952. Meno straniera è la lingua francese all'inglese (e perciò meno inetta ad esserle fonte di vocaboli ec.) a cagione dell'affinità che questa seconda lingua prese colla prima, dopo l'introduzione della lingua francese in Inghilterra, mediante la conquista fattane dai Normanni (Andrès, luogo cit. poco sopra, p. 252. fine, 255. fine-256. principio. Annali di Scienze e lettere. Milano. Gennaio 1811. n. 13. p.30. fine.) [1012] Laddove la lingua tedesca, secondo che il Tercier ha ben ragione di asserire, (Acad. des Inscr. tome 41.) fra tutte le lingue che attualmente parlansi in Europa, più d'ogni altra conserva i vestigi della sua anzianità (Andrès, ivi p.251-252); e più tenace e costante di tutte le altre, ha saputo conservare dell'antica sua madre maggior numero di vocaboli, maggior somiglianza nell'andamento, e maggiore affinità nella costruzione. (Ivi p. 253. principio.) (4. Maggio 1821).

Alla p. 995. principio. Cedette alla romana in modo che nella moderna lingua francese, per confessione del Bonamy (Discours sur l'introduction de la langue latine dans les Gaules: dans les Mémoires de l'Ac. des inscriptions tome XLI.), pochissime parole celtiche sono rimase; e nella provenzale, al dire dell'Astruc. (Ac. des Inscr. tome 41.), appena trovasi una trentesima parte di voci gallesi; siccome la lingua spagnuola tutta figlia della latina, non più conserva alcun vestigio dell'antico parlare di quelle genti. (Andres, luogo cit. di sopra, p. 252.) (4. Maggio 1821).

Che la lingua latina a' suoi buoni tempi, e quando ella era formata, si distinguesse in due lingue, l'una [1013] volgare, e l'altra nobile, usata da' patrizi, e dagli scrittori (i quali neppur credo che scrivessero come parlavano i patrizi) (Andrès, l. c. p. 256. nota), che Roma al tempo della sua grandezza avesse una lingua rustica, plebeia, vulgaris, un sermo barbarus, pedestris, militaris, (Spettatore di Milano, Quaderno 97. p. 242.) è noto e certo, senza entrare in altre quistioni, per la espressa testimonianza di Cicerone. (Andrès, l. c.) Del quale antico volgare latino parlerò forse quando che sia, di proposito. Ora si veda quanto fosse impossibile che la lingua latina divenisse universale, mentre i soldati, i negozianti, i viaggiatori, i governanti, le colonie ec. diffondevano una lingua diversa dalla letterata, che sola avendo consistenza e forma, sola è capace di universalità; e mentre l'unicità di una lingua, come ho detto altrove, è la prima condizione per poter essere universale. Laddove la latina, non solo non era unica nella sua costituzione e nella sua indole, dirò così, interiore, come lo è la francese; ma era divisa perfino esteriormente in lingue diverse, e, si può dir, doppia ec. (4. Maggio 1821). Vedi p.1020. capoverso 1.

Alla p. 999. Così chi sapesse l'antica lingua teutonica, non intenderebbe perciò la tedesca, senza espresso e fondato studio. (Andres, loco cit. di sopra, p. 1010; non ostante che la tedesca, secondo il Tercier, ec. vedi p. [1014] 1012. principio. (5. Maggio 1821).

La vantata duttilità della lingua francese (Spettatore di Milano. Quaderno 93. p.115. lin.14) oltre alle qualità notate in altro pensiero, ha questa ancora, che non è punto compagna della varietà: e la lingua francese benchè duttilissima, è sempre e in qualunque scrittore paragonato cogli altri, uniforme e monotona. Cosa che a prima vista non par compatibile colla duttilità, ma in vero questa è una qualità diversissima dalla ricchezza, dall'ardire, e dalla varietà. (5. Maggio 1821).

Alla p. 991. Così Beda inglese, nonostante che la sua lingua nazionale (cioè l'anglo-sassone: (Andres, loc. cit., p. 1010, p. 255. fine) diversa dalla Celtica, stabilita nella Scozia e nel paese di Galles) fosse adoperata anche in usi letterarii, come si rileva da quello ch'egli stesso riferisce di un Cedmone monaco Benedettino, illustre poeta improvvisatore nella sua lingua. (Andres, p. 254.) Cosa la quale, se non altro, dimostra ch'ella era una lingua già ridotta a una certa forma (lo riferirà forse il Beda nella Storia Ecclesiastica degli Angli.) (5. Maggio 1821).

L'u francese, del quale ho discorso in altro pensiero, potè essere introdotto in Francia mediante le Colonie greche, come Marsiglia ec. [1015] Mediante le quali colonie ec. la lingua e letteratura greca si stabilì, com'è noto, in varie parti delle Gallie. Vedi il Cellar. dove parla di Marsiglia. E le Gallie ebbero scrittori greci, come Favorino Arelatense, S. Ireneo (sebben forse nato greco) ec. ec. Vedi anche il Fabric. dove parla di Luciano, Bibliotheca Graeca lib. 4. c. 16. §. 1 t. 3. p. 486. edit. vet.

Dalle quali osservazioni si potrebbe anche dedurre che le parole francesi derivate dal greco, e che non si trovano negli scrittori latini, e che io in parecchi pensieri, ho supposto che fossero nel volgare latino, come planer ec. fossero venute nella lingua francese immediatamente dalle antiche communicazioni avute colla lingua e letteratura greca. Questo però non mi par molto probabile, trattandosi che la lingua greca fu spenta nelle Gallie lunghissimo tempo innanzi la nascita della francese: che la latina vi prevalse interamente; e che della celtica ch'era pur la nazionale, appena si trova vestigio nella francese (vedi p. 1012. capoverso 1.). Quanto meno dunque si dovrebbero trovar della greca! Laddove se ne trovano tanti che han fatto un dizionario apposta, delle parole francesi derivate dal greco. Inoltre questo argomento non può valer di più di quello che vaglia [1016] per le parole italiane dello stesso genere, le quali si potrebbero suppor derivate dalla magnagrecia, e dalla Sicilia, piuttosto che dal latino: mentre però la lingua greca si spense in quei paesi tanto innanzi al sorgere della lingua italiana, e vi si stabilì la latina: che per conseguenza vi è tanto più vicina alla nostra, in ordine di tempo: anzi immediatamente vicina. Vedi p. 1040. fine. Del resto anche in Sicilia durò la letteratura greca (se non anche la lingua) lungo tempo dopo il dominio romano. Diodoro fu siciliano, e così altri scrittori greci. E vedi Porfir. Vit. Plotin. cap. 11. donde par che apparisca che in Sicilia a quel tempo vi fossero cattedre o scuole greche di sofisti, come si può dire, in tutte le parti dell'imperio romano, in Roma, nelle Gallie a tempo di Luciano ec. Cecilio Siculo, benchè romano di nome, e vissuto in Roma ec. scrisse in greco. Vedi Costantino Lascaris nel Fabricio, Bibliotheca Graeca t.14. p. 22-35. edit. vet. (6. Maggio 1821). Ma nel terzo secolo T. Giulio Calpurnio Siciliano, poeta Bucolico, contemporaneo di Nemesiano, scrisse in latino. E così altri Siciliani ec.

Un effetto dell'antico sistema di odio nazionale, era in Roma il costume del trionfo, costume che nel presente sistema dell'uguaglianza delle nazioni, anche delle vinte colle vincitrici, sarebbe intollerabile; costume, fra tanto, che dava sì gran vita alla nazione, che produceva sì grandi effetti, e sì utili per lei, e che forse fu la cagione di molte sue vittorie, e felicità militari e politiche. (6. Maggio 1821).

[1017] Dalla mia teoria del piacere seguita che l'uomo, desiderando sempre un piacere infinito e che lo soddisfi intieramente, desideri sempre e speri una cosa ch'egli non può concepire. E così è infatti. Tutti i desiderii e le speranze umane, anche dei beni ossia piaceri i più determinati, ed anche già sperimentati altre volte, non sono mai assolutamente chiari e distinti e precisi, ma contengono sempre un'idea confusa, si riferiscono sempre ad un oggetto che si concepisce confusamente. E perciò e non per altro, la speranza è meglio del piacere, contenendo quell'indefinito, che la realtà non può contenere. E ciò può vedersi massimamente nell'amore, dove la passione e la vita e l'azione dell'anima essendo più viva che mai, il desiderio e la speranza sono altresì più vive e sensibili, e risaltano più che nelle altre circostanze. Ora osservate che per l'una parte il desiderio e la speranza del vero amante è più confusa, vaga, indefinita che quella di chi è animato da qualunque altra passione: ed è carattere (già da molti notato) dell'amore, il presentare all'uomo un'idea infinita (cioè più sensibilmente indefinita di quella che presentano le altre passioni), e ch'egli può concepir meno di qualunque [1018] altra idea ec. Per l'altra parte notate, che appunto a cagione di questo infinito, inseparabile dal vero amore, questa passione in mezzo alle sue tempeste, è la sorgente de' maggiori piaceri che l'uomo possa provare. (6. Maggio 1821).

I filosofi moderni, anche i più veri ed effettivi, e quelli che più mettono in pratica la loro filosofia, sono persuasi che il mondo non potendo mai esser filosofo, bisogna che chi lo è, dissimuli questa sua qualità, e nel commercio sociale si diporti per lo più nello stesso modo, come se non fosse filosofo. All'opposto i filosofi antichi. All'opposto Socrate, il quale si mostrò nel teatro al popolo che rideva di lui; i Cinici, gli Stoici e tutti gli altri. Così che i filosofi antichi formavano una classe e una professione formalmente distinta dalle altre, ed anche dalle altre sette di filosofi: a differenza de' moderni, che eccetto nel proprio interiore, si confondono appresso a poco intieramente colla moltitudine e colla universalità. Conseguenza necessaria del predominio della natura fra gli antichi, e della sua nessuna influenza sui moderni. Dalla qual natura deriva il fare: e il dare una vita, una realtà, un corpo visibile, una forma sensibile, un'azione allo [1019] stesso pensiero, alla stessa ragione. Laddove i moderni pensatori e ragionevoli, si contentano dello stesso pensiero, il quale resta nell'interno, e non ha veruna o poca influenza sul loro esterno; e non produce quasi nulla nell'esteriore. E generalmente, e per la detta ragione della naturalezza, l'apparenza e la sostanza erano assai meno discordi fra gli antichi i più istruiti, e per conseguenza allontanati dalla natura; di quello che sia fra i moderni i più ignoranti e inesperti, o più naturali. (6. Maggio 1821).

La lingua cinese può perire senza che periscano i suoi caratteri: può perire la lingua, e conservarsi la letteratura che non ha quasi niente che far colla lingua; bensì è strettissimamente legata coi caratteri. Dal che si vede che la letteratura cinese poco può avere influito sulla lingua, e che questa non ostante la ricchezza della sua letteratura, può tuttavia e potrà forse sempre considerarsi come lingua non colta, o poco colta. (7. Maggio 1821).

Dalle osservazioni fatte da me sulla poca attitudine dei francesi a conoscere e gustare le altre lingue, risulta che per lo contrario gl'italiani sono forse i più atti del mondo al detto oggetto. E ciò stante la moltitudine, dirò così, delle lingue che la loro lingua contiene (laddove la francese [1020] è unica); stante la sua copia, la sua ricchezza, la sua varietà; stante la sua libertà singolare fra tutte le lingue colte, come ho detto altrove, e inerente al suo carattere; stante la sua arrendevolezza, la quale produce l'arrendevolezza del gusto e della facoltà conoscitiva rispetto a quanto appartiene alle altre lingue; mentre l'arrendevolezza della propria lingua, viene ad essere l'arrendevolezza e adattabilità dell'istrumento che serve a conoscere e gustare le altre lingue. E ciò tanto più si deve dire degl'italiani rispetto alle lingue antiche, massime la latina e la greca, sì per la conformità d'indole ec. che hanno colla nostra; sì ancora perchè precisamente le dette qualità sono comuni a queste lingue (e generalmente alle antiche colte) colla nostra. (7. Maggio 1821).

Alla p.1013. fine. Si potrebbe dire che anche la lingua greca pativa lo stesso inconveniente, e ancor peggio, stante la moltiplicità de' suoi dialetti. Ma ne' dialetti era divisa anche la lingua latina, come tutte le lingue, massimamente molto estese e divulgate, e molto più, diffuse, come la latina, fra tanta diversità di nazioni e di lingue. Il che apparisce non tanto dalla Patavinità rimproverata a Livio, (dalla quale sebbene altri lo difendono, pure apparisce che questa differenza di linguaggio, o dialetto, se non in lui, certo però esisteva); non tanto dalle diverse maniere e idiotismi degli scrittori latini di diverse nazioni e parti, (vedi Fabric. [1021Bibliotheca Graeca l. 5. c. 1. §. 17. t. 5. p. 67. edit. vet. e il S. Ireneo del Massuet); le quali si possono anche inferire dalle diverse lingue nate dalla latina ne' diversi paesi, ed ancora viventi (che dimostrano una differenza d'inflessioni, di costrutti, di locuzioni ec. che se anticamente non fu tanta quanta oggidì, certo però è verisimile che fosse qualche cosa, e che appoco appoco sia cresciuta, derivando dalla differenza antica) quanto da questo, che è nella natura degli uomini che una perfetta conformità di favella non sussista mai se non fra piccolissimo numero di persone. (Vedi p. 932. fine.) Così che io non dubito che la lingua latina non fosse realmente distinta in più e più dialetti, come la greca, sebbene meno noti, e meno legittimati, e riconosciuti dagli scrittori, e applicati alla letteratura. Vedi qui sotto.

Del resto la lingua italiana patisce ora (serbata la proporzione) l'inconveniente della lingua latina, forse più che qualunque altra moderna colta. Ond'ella è per questa parte meno adattata di tutte alla universalità, distinguendosi sommamente, non solo il suo volgare, ma il suo parlato dal suo scritto. Non era così anticamente, ed allora l'italiano era più acconcio alla universalità, come lo prova anche il fatto. Nel trecento lo scritto e il parlato quasi si confondevano. In Toscana, accadeva questo anche nel cinquecento appresso a poco: e forse potrebbero ancora confondersi, se i toscani scrivessero l'italiano o il toscano, siccome lo parlano; laddove nel resto d'Italia, l'italiano non si parla. (7. Maggio 1821). Vedi p. 1024. capoverso ult.

Al capoverso superiore. E perciò appunto meno noti oggidì, a differenza dei greci. Nel modo che i dialetti d'Italia o di Francia, posto il caso che la lingua italiana o francese uscisse dell'uso, come la latina, non sarebbero conosciuti dai posteri, se non confusissimamente; per non [1022] essere stati ridotti a forma, nè applicati (eccetto il Toscano) alla letteratura, salvo qualche poco in Italia. Ma così poco e insufficientemente, che si può credere che gli scritti italiani vernacoli, non passerebbero, e onninamente non passeranno (se non forse pochissimi, come quelli del Goldoni e del Meli) alla posterità. (8. Maggio 1821).

Quanto la natura abbia proccurata la varietà, e l'uomo e l'arte l'uniformità, si può dedurre anche da quello che ho detto della naturale, necessaria e infinita varietà delle lingue, p. 952. segg. Varietà maggiore di quella che paia a prima vista, giacchè non solo produce per esempio al viaggiatore, una continua novità rispetto alla sola lingua, ma anche rispetto agli uomini, parendo diversissimi quelli che si esprimono diversamente; cosa favorevolissima alla immaginazione, considerandosi quasi come esseri di diversa specie quelli che non sono intesi da noi, nè c'intendono: perchè la lingua è una cosa somma, principalissima, caratteristica degli uomini, sotto tutti i rapporti della vita sociale. Per lo contrario, lasciando le altre cure degli uomini per uniformare, stabilire, regolare ed estendere le diverse lingue; oggi, in tanto e così vivo commercio di tutte, si può dir, le nazioni insieme, si è introdotta, ed è divenuta necessaria, una lingua comune, cioè la francese; la quale [1023] stante il detto commercio, e l'andamento presente della società, si può predire che non perderà più la sua universalità, nemmeno cessando l'influenza o politica, o letteraria, o civile, o morale ec. della sua nazione. E certo, se la stessa natura non lo impedisse, si otterrebbe appoco appoco che tutto il mondo parlasse quotidianamente il francese, e l'imparasse il fanciullo come lingua materna; e si verificherebbe il sogno di una lingua strettamente universale. (8. Maggio 1821).

In proposito di quello che ho detto altrove, che la lingua italiana non si è mai spogliata della facoltà di usare la sua ricchezza antica, e la francese all'opposto, vedi Andres, Stor. d'ogni letteratura. Venez. Vitto, t. 3. p. 95. fine -99. principio, cioè Parte i. c. 3. e t. iv. p. 17. cioè Parte ii. introduzione. (8. Maggio 1821).

Alcuni scrittori greci degli ultimissimi tempi dell'impero greco, furono anche superiori in eleganza a molti de' tempi più antichi ma corrotti, come gli scrittori latini del cinquecento in Italia superarono bene spesso gli antichi latini posteriori a Cicerone e a Virgilio. Dopo il secolo d'Augusto non è stato mai tempo in cui sì generalmente (come nel 500.) si scrivesse con coltura e con pulitezza la lingua de' romani. Andres, l. cit. qui sopra, p. 96. (8. Maggio 1821).

[1024] Sebbene la lingua Celtica fosse così bella ed atta alla letteratura, e per conseguenza, formata, e stabilita e ferma (espressioni del Buommattei in simil senso), come si vede oggidì ne' monumenti che ne avanzano, e come ho detto p. 994. fine; sebben fosse così antica e radicata ec. nondimeno laddove i greci ancorchè sudditi romani, e vivendo in Roma o in Italia, scrivevano sempre in greco e non mai in latino, nessuno scrittor gallo, nelle medesime circostanze, scrisse mai che si sappia in lingua celtica, ma in latino. (9. Maggio 1821).

Da Demostene in poi la Grecia non ebbe altro scrittore che in ordine alla lingua e allo stile, somigliasse, anzi uguagliasse gli ottimi antichi, se non Arriano (e questo senza la menoma affettazione, o sembianza d'imitazione, o di lingua o stile antiquato, come i nostri moderni imitatori del trecento o del cinquecento). Nè Polibio, nè Dionigi Alicarnasseo (sebben questi più degli altri, e gli può venir dopo), nè Plutarco, nè lo stesso Luciano atticissimo ed elegantissimo (di eleganza però ben diversa dalla nativa eleganza degli antichi, e della perfetta e propria lingua e stile greco) non possono essergli paragonati per questo capo. (9. Maggio 1821).

Alla p.1021. Così che la presente corruzione della lingua italiana e parlata e scritta, aggiunge un nuovo e fortissimo ostacolo alla sua universalità. Giacchè gli stranieri non conoscono, si può dire, altra letteratura nè lingua italiana scritta, se non l'antica, non passando [1025] e non meritando di passare le Alpi i nostri libri moderni, e non avendo noi propriamente letteratura (non dico scienze) moderna, e neppur lingua moderna stabilita, formata, riconosciuta e propria. D'altra parte non conoscono nè possono conoscere altra lingua italiana parlata, se non quella che oggi si parla, tanto diversa dall'antica e parlata e scritta, e dalla buona e vera e propria favella italiana. Lo stesso appresso a poco si può dire dello spagnuolo. (9. Maggio 1821).

La cognizione stessa che i greci di qualunque tempo, ebbero de' padri e teologi latini ec. soli scrittori latini ch'essi conoscessero, non fu (se non forse ne' più barbari secoli di mezzo) paragonabile a quella che ebbero i latini dei padri, ed autori ecclesiastici greci, massime nei primi secoli del cristianesimo, e negli ultimi anni dell'impero greco (Andres, loc. cit. da me p. 1023. t. 3. p. 55.), quando la dimostrarono principalmente in occasione del concilio di Firenze. (ivi) (9. Maggio 1821).

Sebben l'uomo desidera sempre un piacere infinito, egli desidera però un piacer materiale e sensibile, quantunque quella infinità, o indefinizione ci faccia velo per credere che si tratti di qualche cosa spirituale. Quello spirituale che noi concepiamo confusamente nei nostri desiderii, o nelle nostre sensazioni [1026] più vaghe, indefinite, vaste, sublimi, non è altro, si può dire, che l'infinità, o l'indefinito del materiale. Così che i nostri desiderii e le nostre sensazioni, anche le più spirituali, non si estendono mai fuori della materia, più o meno definitamente concepita, e la più spirituale e pura e immaginaria e indeterminata felicità che noi possiamo o assaggiare o desiderare, non è mai nè può esser altro che materiale: perchè ogni qualunque facoltà dell'animo nostro finisce assolutamente sull'ultimo confine della materia, ed è confinata intieramente dentro i termini della materia. (9. Maggio 1821).

Se i principi risuscitassero le illusioni, dessero vita e spirito ai popoli, e sentimento di se stessi; rianimassero con qualche sostanza, con qualche realtà gli errori e le immaginazioni costitutrici e fondamentali delle nazioni e delle società; se ci restituissero una patria; se il trionfo, se i concorsi pubblici, i giuochi, le feste patriotiche, gli onori renduti al merito, ed ai servigi prestati alla patria tornassero in usanza; tutte le nazioni certamente acquisterebbero, o piuttosto risorgerebbero a vita, e diverrebbero grandi e forti e formidabili. Ma le nazioni meridionali massimamente, e fra queste singolarmente l'Italia e la Grecia (purchè tornassero ad esser nazioni) diverrebbero un'altra volta invincibili. Ed allora [1027] si tornerebbe a conoscere la vera ed innata eminenza della natura meridionale sopra la settentrionale, eminenza che le nostre nazioni ebbero sempre, mentre non mancarono di forti, grandi, e generali illusioni, e de' motivi e dell'alimento di esse; eminenza che da gran tempo, ma specialmente oggi, sembra per lo contrario, con vergogna, dirò così, della natura, appartenere (e non solo nella guerra, ma in ogni genere di azione, di energia, e di vita) agli abitatori dei ghiacci e delle nebbie, alle regioni meno favorite, anzi quasi odiate dalla natura:

Quod latus mundi nebulae malusque
Juppiter urget.

Notabile che come gli antichi si rassomigliano al carattere meridionionale e i moderni al settentrionale, così la civiltà ec. antica fu principalmente meridionale, la moderna settentrionale. È già notato che la civiltà progredisce da gran tempo (sin da' tempi indiani) dal sud al nord, lasciando via via i paesi del sud. Le capitali del mondo antico furono Babilonia, Menfi, Atene, Roma; del moderno, Parigi, Londra, Pietroburgo! che climi! Conseguenza naturale dell'esser tolta ai popoli meridionali l'attività e l'uso della molla principale della loro vita, cioè della immaginazione; molla che quando è capace di azione (e non può esserlo senza le circostanze corrispondenti) vince la forza di tutte le altre molle che possono fare agire i popoli settentrionali, e qualunque popolo. Anzi veramente i popoli settentrionali, massime i più bellicosi e terribili, non agiscono per nessuna molla, per nessuna forza propria del loro meccanismo, ed interna; ma per mero impulso altrui, per mera influenza di coloro, ai quali essi ubbidiscono, se anche sono comandati di mangiar della paglia. (10. Maggio 1821).

[1028] La cosa più durevolmente e veramente piacevole è la varietà delle cose, non per altro se non perchè nessuna cosa è durevolmente e veramente piacevole. (10. Maggio 1821)

Delle prime grammatiche italiane vedi Andrès, Stor. della letteratura, ediz. di Venezia del Vitto. t. 9. p. 316. fine. cioè Parte 2. lib. 4. c. 2. (10. Maggio 1821).

Del sogno d'istituire una lingua universale vedi Andres, loc. cit. qui sopra, p. 320. e il Locke del Soave t. 2. p. 62-76. ediz. terza di Venezia 1794, (10 Maggio 1821).

La Bibbia ed Omero sono i due gran fonti dello scrivere, dice l'Alfieri nella sua Vita. Così Dante nell'italiano, ec. Non per altro se non perch'essendo i più antichi libri, sono i più vicini alla natura, sola fonte del bello, del grande, della vita, della varietà. Introdotta la ragione nel mondo tutto a poco a poco, e in proporzione de' suoi progressi, divien brutto, piccolo, morto, monotono. (11. Maggio 1821).

Se la universalità di una lingua dipendesse dalla diffusione di coloro a' quali essa è naturale, nessuna lingua avrebbe oggi questa proprietà più dell'inglese, giacchè gli stabilimenti inglesi occupano più gran parte del mondo, e sono più numerosi di quelli d'ogni altra nazione europea; e la nazione inglese è la più viaggiatrice del mondo. (11. Maggio 1821).

[1029] La lingua latina superò per esempio la lingua antica Spagnuola, la Celtica ec. mediante la semplice introduzione nella Spagna, nelle Gallie ec. del governo, leggi, costumi Romani. Ma a superar la greca non le bastò neppure il trasportar nella Grecia la stessa Roma, e quasi la stessa Italia. (11. Maggio 1821).

Alla p. 991. Eccetto il solo Fedro, o ch'egli fosse Trace, come è creduto comunemente, (la lingua della letteratura in Tracia era la greca, come mostrano Lino, Orfeo Traci, e il più recente Dionigi famoso gramatico detto il Trace) o Macedone come vuole il Desbillons. (Disputat. 1. de Vita Phaedri, praemissa Phaedri fabulis, Manhemii 1786. p. vedi seq.) La cui latinità, sebbene a molti non pare eccellente e perfettissima certo però è superiore al mediocre. (11. Maggio 1821).

Alla p. 245. La lingua francese si mantiene e si manterrà lungo tempo universale, a cagione della sua struttura ed indole. E certo però che l'introduzione di questa lingua nell'uso comune, e il principio materiale della sua universalità, si deve ripetere e dalla somma influenza politica della Francia nel tempo passato; e dalla sua influenza morale come la più civilizzata nazione del mondo, e per conseguenza dalle sue mode, ec. o vogliamo dire dalla moda di esser francese, [1030] dal regno e dittatura della moda, che la Francia ha tenuto e tiene ec.; e principalissimamente ancora dalla sua letteratura, dalla estensione di lei, e dalla superiorità ed influenza che ella ha acquistata sopra le altre letterature, non per altro, se [non] per essere esclusivamente e propriamente moderna, e perchè la letteratura precisamente moderna è nata (a causa delle circostanze politiche, morali, civili ec.) prima che in qualunque altra nazione, in Francia, e quivi è stata coltivata più che in qualunque altro luogo, e più modernamente o alla moderna che in qualunque altro paese. Ma la durata di questa universalità, quando anche cessino le dette ragioni, (come in parte sono cessate) essa la dovrà alla sua propria indole; laddove quella tal quale universalità acquistata già dalle lingue spagnuola, italiana ec. sono finite insieme colle ragioni estrinseche che la producevano, non avendo esse lingue disposizione intrinseca alla universalità. Con queste osservazioni rettifica quello che ho detto p. 240-245. E in quanto alla letteratura, ed alla influenza morale ec. ec. è certo che queste furono le ragioni estrinseche della universalità della lingua greca, la quale però ne aveva anche le sue ragioni intrinseche, mancanti affatto alla latina, che perciò non fu mai veramente universale, [1031] nè durò, come la greca ancor dura, non ostante che abbondasse delle ragioni estrinseche di universalità. (11. Maggio 1821). Vedi p. 1039. fine.

Che la lingua italiana massimamente e proporzionatamente la spagnuola ancora e la francese, come spiegherò poi, sieno derivate dall'antico volgare latino, si dimostra non solo coi fatti oscuri, e coll'erudizione recondita, ma col semplice ragionamento sopra i fatti notissimi e certi, e sopra la natura delle cose. La lingua italiana è derivata dall'antica latina, e questo è palpabile. La lingua italiana è una lingua volgare. Ma nessuna lingua volgare deriva da una lingua scritta e propria della letteratura, se non in quanto questa lingua scritta partecipa della medesima lingua parlata, e parlata volgarmente. La lingua latina scritta differiva moltissimo dalla parlata, e ciò si rileva sì dall'indole del latino scritto che non poteva mai esser volgare, sì dalla testimonianza espressa di Cicerone. Dunque se la lingua italiana è derivata dalla latina, e la italiana non è semplicemente scritta o letterata, ma volgare e parlata, non può esser derivata dal latino scritto, ma è derivata dal latino volgare.

Da che ci era un latino volgare assai differente dallo scritto, è costante che l'italiano volgare derivato dal latino, non può esser derivato dallo scritto, ma da quello volgare e parlato.

[1032] Questo ragionamento serve per tutte le lingue derivate dal latino, e per tutte quelle derivate da qualunque altra lingua antica, dove lo scritto differisse notabilmente dal parlato. Ma serve specialmente per l'italiano, ch'è la lingua volgare di quello stesso paese a cui fu naturale il latino.

Qual lingua avrà parlato l'Italia ne' secoli bassi? forse il latino scritto? Chi può credere quest'assurdità che i secoli barbari parlassero meglio de' civili? Forse le lingue de' popoli settentrionali, suoi conquistatori? 1. È noto e costante da testimonianze e osservazioni di fatto che questi popoli in luogo d'introdurre la loro lingua fra i conquistati, imparavano anzi e adoperavano quella di costoro. Vedi Andrès, t. ii. p. 330. 2. Di parole settentrionali ognuno sa quanto poche ne rimangano nell'italiano, e così pure nel francese e nello spagnuolo, e come il corpo, la sostanza, il grosso, il fondo principale e capitale di queste lingue, e massime dell'italiano, derivi dal latino, e sia latino.

Dunque l'Italia ne' secoli bassi parlò certamente il latino. Latino corrotto, ma latino. Qual latino dunque? Lo scritto no: dunque il volgare, cioè la sua lingua di prima, il suo volgare di prima. Giacchè la sua lingua, il suo volgare di prima, non era il latino scritto, nè poteva essere, ma il latino [1033] volgare. Anche questo volgare si sarà parlato corrottamente, ma la sostanza, il grosso ec. della lingua allora parlata, doveva esser quello di detto volgare, da che oggi il grosso dell'italiano è derivato dal latino, ed è latino.

Comunemente pare che si supponga che s'interrompesse o affatto o quasi affatto l'uso volgare del latino in Italia, restandone solo l'uso civile, religioso e letterario, e che da quest'uso, e dal latino scritto ec. rinascesse poi di nuovo l'uso di una lingua volgare latina, o derivata dal latino, cioè dell'italiana; e così questa venga ad essere derivata dal latino scritto, sia per mezzo del provenzale che nascesse prima dell'italiano, o per qualunque altro mezzo.

Queste sono favole assurdissime e (oltre che non hanno alcun fondamento) contrarie alla natura delle cose.

Dovunque il latino non è stato in uso se non come lingua civile, religiosa, scritta, letteraria ec. le lingue nazionali e volgari sono rimaste; e in luogo che dal latino scritto ec. derivasse e nascesse in questi luoghi una lingua figlia della latina, la lingua volgare ha per lo contrario scacciata la latina anche dalla scrittura, e dall'uso letterario e civile. In Germania, [1034] in Inghilterra, in Polonia dove ne' secoli bassi si usava il latino (ed in Polonia anche dopo), ma non mai come lingua parlata, e solo come civile, religiosa, letteraria; non vi è nata dal latino nessuna lingua; restano le antiche lingue nazionali, restano le lingue volgari; o vogliamo dire, restano le lingue derivate dalle dette naturali e volgari, e la latina è sparita dall'uso civile e dal letterario. Lo stesso dirò della Grecia, dove il latino fu introdotto solamente come lingua del governo ec. vedi p. 982.983. Lo stesso pure dell'italiano, dello Spagnuolo, del Francese, i quali parimente scacciarono la stessa lingua lor madre, dall'uso civile, politico, letterario. E questo si può vedere pure nell'esempio della lingua francese introdotta come civile ec. in Inghilterra per la conquista de' Normanni (vedi p. 1011. fine); dell'arabica introdotta già nello stesso modo in parte della Spagna (Andres 2. 263.-273.), e poi similmente scacciate dalla letteratura e da ogni luogo. Vedi pure gli Ann. di Sc. e Lett. num. 11. p. 29.32. E così porta la natura delle cose, che non la lingua degli scrittori cambi quella del popolo, e s'introduca nel popolo, ma quella del popolo vinca quella degli scrittori, i quali scrivono pure pel popolo e per la moltitudine; non la scritta scacci la parlata, ma la parlata superi presto o tardi, ed uniformi più o meno la scritta a se medesima. Vedi p. 1062.

Se la lingua gotica o qualunque altra lingua settentrionale o no, si fosse stabilita veramente in Italia come lingua volgare e parlata, restando ancora la latina come scritta ec.; oggi noi parleremmo e scriveremmo quella o quelle tali lingue, e non una lingua derivata dalla latina.

Ma accadendo il contrario è manifesto che la lingua volgare d'Italia, fu senza interruzione latina; e se fu tale senza interruzione fino a noi, dunque fu senza interruzione quel latino volgare più o meno alterato, che si parlava anticamente, e non già lo [1035] scritto; dunque noi oggi parliamo una lingua derivata da esso volgare, e il cui fondo capitale appartiene, anzi è lo stesso che quello dell'antico volgare latino.

Discorro allo stesso modo dello Spagnuolo e del francese. Se queste lingue sono volgari, e derivano dal latino, dunque dal latino parlato, e non dallo scritto; dunque dal latino volgare; dunque la lingua latina si stabilì nella Spagna e nella Francia come lingua parlata, e non solamente come lingua civile, governativa, letteraria (e così è infatti, e nella lingua francese restano pochissime parole Celtiche, nella spagnuola nessun vestigio dell'antica lingua di Spagna: Andres, 2. 252.); dunque il volgare latino più o meno alterato da mescolanza straniera, si mantenne senza interruzione in Ispagna e in Francia (siccome in Valacchia) dalla sua prima introduzione, sino al nascimento della lingua spagnuola e francese, e per mezzo di queste sino al dì d'oggi. Dell'antica origine della presente lingua spagnuola, e come i più vecchi monumenti che ne restano, siano, come quelli della lingua provenzale, francese ec. conformissimi al latino, vedi un esempio recato in quella lingua dall'Andrès ii. 286.fine.

Conchiudo. Se la lingua italiana, ch'è volgare, è derivata dal latino, ella dunque non può essere [1036] derivata dal latino scritto sì diverso dal parlato, ma dirittamente viene dall'antico volgare latino, ed è nella sostanza e nel suo fondo principale, lo stesso che il detto volgare. E lo è per la circostanza della località (lasciando ora le prove di fatto e di erudizione) più di quello che lo siano lo spagnuolo e il francese. Questo ragionamento però vale per qualunque lingua derivata sì dal latino, sì da qualunque altra lingua antica: e ciascuna lingua moderna derivata da qualunque lingua antica, è derivata dal volgare di essa lingua, e non dallo scritto. Che se la lingua tedesca, a detta del Tercier, è fra tutte ec. vedi p. 1012. principio, questo accade perchè la lingua antica teutonica scritta, come lingua incolta, o non bene determinata e formata alla scrittura, come lingua illetterata ancorchè scritta, pochissimo o nulla differiva dalla parlata e volgare. Ma altrettanta e forse maggiore uniformità si vedrebbe fra l'italiano e l'antico volgare latino, se di questo si avesse maggior notizia. E dico maggiore uniformità non senza ragione di fatto, considerando la molta differenza che passa poi realmente fra l'odierno tedesco e il teutonico (Andres, ii. 249-254.); e la somma rassomiglianza che io in molti luoghi ho cercato di provare, fra l'italiano, [1037] e il latino volgare antico. Così che la lingua italiana in vece di essere la più moderna di tutte le viventi Europee, come pretendono, (Andres, ii. 256. e passim) si verrebbe a conoscere o la più antica, o delle più antiche, perdendosi l'origine di essa, e del suo uso, (non mai nel seguito interrotto, sebbene alterato) nella oscurità delle origini dell'antichissimo e primo latino. A differenza dello spagnuolo e del francese, perchè in queste nazioni l'uso del volgare latino, fu certo molti e molti secoli più tardo che in Italia. (12. Maggio 1821).

Basta vedere il principio dell'Orazione ᾽Eπιτάϕιος attribuita a Demostene, dove discorre della nobiltà del popolo Ateniese, per conoscere come fosse fermo fra gli antichi il dogma della disuguaglianza delle nazioni, e come si aiutassero delle favole, delle tradizioni ec. per persuadersi, e tener come cosa non arbitraria, ma ragionata e fondata, che la propria nazione fosse di genere e di natura, e quindi di diritti ec. ec. diversa dalle altre. Persuasione utilissima e necessaria, come altrove ho dimostrato. (12. Maggio 1821).

Una lingua non si forma nè stabilisce mai, se non applicandola alla letteratura. Questo è chiaro dall'esempio di tutte. Nessuna lingua non applicata alla letteratura è stata mai formata nè stabilita, [1038] e molto meno perfetta. Come dunque la perfezione dell'italiana starà nel 300? Altro è scrivere una lingua (come si scriveva l'antica teutonica, non mai ben formata nè perfetta) altro è applicarla alla letteratura. Alla quale l'italiano non fu applicato che nel 500. Nel 300. veramente e propriamente da tre soli (lasciando le barbare traduzioni di quel secolo), il che ognun vede se si possa chiamare, perfetta applicazione alla letteratura. Se lo scrivere una lingua fosse lo stesso che l'applicarla alla letteratura, l'epoca della perfezione della latina si dovrebbe porre non nel secolo di Cicerone ec. ma nel tempo dei primi scrittorelli latini; ovvero con molto più ragione in quello d'Ennio ec. e degli scrittori anteriori a Lucrezio, a Catullo, a Cicerone (contemporanei) giacchè allora il latino fu applicato generalmente a lavori molto più letterarii, che nella universalità del 300. E così dico pure delle altre lingue o morte, o viventi. (12. Maggio 1821). Vedi p. 1056.\

Nei tempi bassi furono veramente δίγλοττοι i tedeschi e gl'inglesi, ossia la parte colta di queste nazioni, che scrivevano il latino, se ne servivano per le corrispondenze, lettere ec. e parlavano le lingue nazionali. E così pure gl'italiani, i francesi, gli spagnuoli, che parlavano già un volgare assai diverso dal latino scritto. Ma questa:

1. È una διγλοττία che appartenendo allo scritto e non al parlato, non entra nel mio discorso. E la [1039] universalità del latino, ch'era allora universale in occidente, era universalità che appartenendo alla sola scrittura, non ha che fare con quella che rende gli uomini parlatori di due lingue, cioè veramente δίγλοττοι, della quale sola io discorro.

2. La lingua latina era allora veramente morta, appresso a poco come oggi, non essendo parlata, ma solo scritta. E una lingua solamente scritta è lingua morta. Ora, quantunque l'uso di una tal lingua morta fosse allora più comune che oggidì, e così anche fosse dopo il risorgimento delle lettere; la universalità delle lingue morte che si studiavano e si studiano o per usi letterarii, o per vecchia costumanza, non entra nel mio discorso, il quale tratta solo della universalità delle lingue vive. Così anche oggi si potrebbe chiamare presso a poco universale la lingua greca in Europa, e ne' paesi colti, ma come lingua morta. (12. Maggio 1821).

Alla p. 1031. principio. Come la letteratura, così la lingua francese è precisamente moderna, sì per l'influenza somma nella lingua della letteratura che la forma (e nel nostro caso l'ha singolarmente formata e determinata, mutandola assai da quella ch'era da principio, e dalla sua stessa indole primitiva); sì per l'influenza immediata sulla lingua francese delle stesse cagioni che hanno influito sulla letteratura francese, e formatala. [1040] Or come la lingua francese è strettamente moderna, e quindi strettamente propria all'odierna universalità, per esser modellata sulla ragione, e oggi (secondo il vero andamento del secolo) quasi sulla matematica; così la lingua greca era propria alla universalità de' tempi suoi, massime fra' popoli del meriggio orientali e occidentali, che sono e furono sempre più immaginosi; e ciò per essere strettamente antica, e questo per essere strettamente modellata (nel perfetto) sulla natura. A differenza della latina modellata piuttosto sull'arte. E si può dire che la perfezione della lingua greca era conforme, ed aveva il suo fondamento nella natura, non essendo perciò meno perfetta, nè artificiata; e la perfezione della latina era conforme, ed aveva il suo modello, il suo tipo, il suo fondamento, la sua norma nell'arte. (12. Maggio 1821).

Alla p. 1016. In ogni modo le parole greche che si trovano nell'uso familiare e popolare, italiano o francese, (massime se non si trovano presso gli scrittori latini) non possono esser derivate se non dall'antico volgare latino, da qualunque parte esso le abbia ricevute, o dalla Grecia direttamente, e ab antico, per qualunque mezzo; o da un'origine comune con quella della lingua greca, ovvero dalle colonie greche d'Italia o delle Gallie, o da qualunque [1041] comunicazione avuta colla lingua greca. Come infatti le dette parole avrebbero potuto pervenire a noi, senza passare pel volgare latino? Quando la lingua greca si spense nelle Gallie assai per tempo, e così pure in Italia (sebben forse più tardi per esempio in Sicilia, che nelle Gallie); ed all'incontro il volgare latino stabilitosi in detti luoghi, ha durato con maggiore o minore alterazione, e dura dal suo stabilimento fino ad oggidì? In qualunque maniera dunque, le parole greche che oggi sono volgari (non dico le scientifiche, o proprie de' soli scrittori) nell'italiano o nel francese, (e così nello spagnuolo); quelle che appartengono propriamente a queste lingue, e possono considerarsi come loro primitive; dovettero essere necessariamente nell'antico volgare latino, che sta di mezzo fra l'uso del greco in alcuni paesi d'Italia o di Francia, e l'uso dell'italiano o del francese: in maniera che le dette parole hanno dovuto passare necessariamente pel detto canale, e quindi appartenere all'antico volgare latino. Nè dopo la grande e principale alterazione di questo volgare, e il nascimento de' volgari moderni che ne derivano, l'Italia o la Francia hanno avuto colla lingua greca, (e massime coll'antica, o anche antichissima, alla quale appartengono parecchie delle dette parole o modi) [1042] comunicazione veruna sufficiente a introdurre nel nostro uso quotidiano, e comune parole e modi greci, e spesso di prima necessità, o di frequentissimo uso; qualità osservatissima dagli etimologisti filosofi, e di gran rilievo presso loro.

Resta dunque inconcusso il mio discorso, e la mia proposizione, che le parole o modi italiani o francesi o spagnuoli, che derivano dal greco, che spettano all'uso volgare, al capitale antico, primitivo, proprio di dette lingue, che non si trovano presso gli scrittori latini, debbono essere stati indispensabilmente ed esserci venuti dal volgare antico latino, derivando le dette lingue dal latino, anzi da esso volgare, e non potendo aver preso nessuna parola o modo volgare, o primitivo loro, immediatamente dalla lingua greca.

Il qual discorso, se si tratta di parole o modi italiani, ha la sua piena forza, e dimostra l'esistenza di dette parole o modi nell'antico volgare latino proprio, cioè in quello che si parlava anticamente in Italia. Trattandosi di parole francesi, lo può solamente dimostrare, rispetto all'antico volgare latino che si parlava nelle Gallie, il quale poteva differire alquanto (e certo differiva, come dialetto) da quello parlato in Roma o in Italia. Vale a dire che in quel volgare, vi poteva essere qualche parola o modo greco, derivato dalle colonie greco-galliche, il quale non [1043] si trovasse nel volgare latino di Roma, o d'Italia. Massimamente se le dette parole non si trovano oggi se non se nella lingua francese, e se mancano all'italiana. E così anche viceversa, se qualche parola greca passò in quest'ultimo volgare dalle Colonie greco-italiane, o da altra comunicazione coi greci viaggiatori ec. ec. dopo l'introduzione del volgare latino nelle Gallie. (13. Maggio 1821). Giacchè le altre parole greche introdotte già nel latino prima di quel tempo, ancorchè venute dalle colonie greche d'Italia, non fa maraviglia se passarono col latino anche in Francia ed altrove.

L'Inghilterra in dispetto del suo clima, della sua posizione geografica, credo anche dell'origine de' suoi abitanti, appartiene oggi piuttosto al sistema meridionale che al settentrionale. Essa ha del settentrionale tutto il buono (l'attività, il coraggio, la profondità del pensiero e dell'immaginazione, l'indipendenza, ec. ec.) senz'averne il cattivo. E così del meridionale ha la vivacità, la politezza, la sottigliezza (attribuita già a' Greci: vedi Montesquieu Grandeur etc. ch. 22. p. 264.) raffinatezza di civilizzazione e di carattere (a cui non si trova simile se non in Francia o in Italia), ed anche bastante amenità e fecondità d'immaginazione, e simili buone qualità, senz'averne il torpore, la inclinazione all'ozio o alla inerte voluttà, la mollezza, l'effeminatezza, la corruzione debole, sibaritica, vile, francese; il genio pacifico ec. ec. Basta paragonare un soldato inglese a un soldato tedesco o russo ec. per conoscere l'enorme differenza che passa fra il carattere inglese e il settentrionale. E siccome l'Italia non ha milizia, e la Spagna non la sa più adoperare, ec. non v'è milizia in Europa più somigliante alla francese dell'inglese, più competente colla francese, per l'ardore e la vita individuale, la forza morale, [1044] la suscettibilità ec. del soldato, e non la semplice forza materiale, come quella de' tedeschi, de' russi ec. Vedi p.1046.

Tutto ciò verrà forse da altre cagioni, ma forse anche dal loro governo e costituzione politica, stata sempre più simile alle antiche di qualunque altra Europea, fino al dì d'oggi ch'è stata appresso a poco adottata da' francesi, dov'è troppo presto per vederne gli effetti. Ora egli è certo che l'antico è sempre superiore al moderno in quanto spetta alla immaginazione, e che in questa, anche gli antichi settentrionali che cedevano ai meridionali antichi, erano però ben superiori ai meridionali moderni. (13. Maggio 1821).

La rimembranza del piacere, si può paragonare alla speranza, e produce appresso a poco gli stessi effetti. Come la speranza, ella piace più del piacere; è assai più dolce il ricordarsi del bene (non mai provato, ma che in lontananza sembra di aver provato) che il goderne, come è più dolce lo sperarlo, perchè in lontananza sembra di poterlo gustare. La lontananza giova egualmente all'uomo nell'una e nell'altra situazione; e si può conchiudere che il peggior tempo della vita è quello del piacere, o del godimento. (13. Maggio 1821).

[1045] Chi vuol vedere quanto abbia la natura provveduto alla varietà, consideri quanto l'immaginazione sia più varia della ragione, e come tutti si accordino in ciò che spetta o è fondato su questa, e viceversa. Per esempio osservi come fossero varie le lingue antiche architettate sul modello della immaginazione, e quanto monotone quelle moderne che più sono architettate sulla ragione. Osservi come una lingua universale debba esser modellata e regolata in tutto e perfettamente dalla ragione, appunto perchè questa è comune a tutti, ed uguale e uniforme in tutti. (13. Maggio 1821).

La Francia è per geografia la più settentrionale delle regioni Europee che si comprendono sotto la categoria delle meridionali. Così dunque la sua lingua partecipa di quella esattezza, di quella, per così dire, pazienza, di quella monotonia, di quella regolarità, di quella rigorosa ragionevolezza che forma parte del carattere settentrionale. E così pure la sua letteratura in gran parte filosofica, e generalmente il suo gusto letterario, sebben ciò derivi in gran parte dall'epoca della sua lingua e letteratura; epoca moderna, e per conseguenza epoca di ragione. Come per lo contrario l'Inghilterra ch'è per carattere la regione meno settentrionale di tutte le settentrionali, (vedi p. 1043.) ha una lingua delle [1046] più libere d'Europa colta per indole; e per fatto la più libera di tutte (Andres, t. 9. 290 291. 315-316.); e parimente la letteratura forse più libera d'Europa, e il gusto letterario ec. Parlo della sua letteratura propria, cioè della moderna, e dell'antica di Shakespeare ec. e non di quella intermedia presa da lei in prestito dalla Francia. E parlo ancora delle letterature formate e stabilite ed adulte; e non delle informi o nascenti. (13. Maggio 1821).

Alla p. 1044. Ciò è manifesto anche dal fatto, dalla continua e famosa gara della nazione inglese colla francese, dalle molte vittorie, e talvolta formidabili, degl'inglesi sopra i francesi, riportate massime anticamente ec. ec. e dall'essere stata forse l'Inghilterra (fino agli ultimi tempi) quasi l'unica potenza che si sia battuta a solo a solo colla francese, con costante competenza, ancorchè tanto inferiore di popolazione, e considerando specialmente le altre potenze di forze uguali all'Inghilterra, fra le quali essa si troverà l'unica capace di far fronte per lo passato alla Francia. (14. Maggio 1821).

Principalissime cagioni dell'essersi la lingua greca per sì lungo tempo mantenuta incorrotta (vedi Giordani nel fine della Lettera sul Dionigi) furono indubitatamente la sua ricchezza, e la sua libertà d'indole e di fatto. La qual libertà produce in buona parte la ricchezza; la qual libertà è la più [1047] certa, anzi necessaria, anzi unica salvaguardia della purità di qualunque lingua. La quale se non è libera primitivamente e per indole, stante l'inevitabile mutazione e novità delle cose, deve infallibilmente declinare dalla sua indole primitiva, e per conseguenza alterarsi, perdere la sua naturalezza e corrompersi: laddove ella conserva l'indole sua primitiva, se fra le proprietà di questa è compresa la libertà. E quindi si veda quanto bene provveggano alla conservazione della purità del nostro idioma, coloro che vogliono togliergli la libertà, che per buona fortuna, non solo è nella sua indole, ma ne costituisce una delle principali parti, e uno de' caratteri distintivi. E ciò è naturale ad una lingua che ricevè buona parte di formazione nel trecento, tempo liberissimo, perchè antichissimo, e quindi naturale, e l'antichità e la natura non furono mai soggette alle regole minuziose e scrupolose della ragione, e molto meno della matematica. Dico antichissimo, rispetto alle lingue moderne, nessuna delle quali data da sì lontano tempo il principio vero di una formazione molto inoltrata, e di una notabilissima coltura, ed applicazione alla scrittura: nè può di gran lunga mostrare in un secolo così remoto sì grande universalità e numero di scrittori e di parlatori ec. che le servano anche oggi di modello. E questa antichità [1048] di formazione e di coltura, antichità unica fra le lingue moderne, è forse la cagione per cui l'indole primitiva della lingua italiana formata, è più libera forse di quella d'ogni altra lingua moderna colta (siccome pure dell'esser più naturale, più immaginosa, più varia, più lontana dal geometrico ec.).

Tutte le lingue non formate sono libere per indole, e per fatto. Tutte le lingue nella loro formazione primitiva, sono parimente libere, qual più qual meno, e per indole e per fatto. La quale libertà vengono poi perdendo appoco appoco secondo le circostanze della loro formazione. Tutte ne perdono alquanto (e giustamente) coll'essere ridotte a forma stabile, ma qual più qual meno, e ciò dipende dal carattere sì dei tempi come delle nazioni e degli scrittori che le formano.

Parlando dunque delle lingue dopo che sono perfettamente formate, io trovo rispetto alla libertà, tre generi di lingue. Altre libere per natura e per fatto, come l'inglese. Altre libere per natura, ma non in fatto, come si vuole oggi ridurre la nostra lingua da' pedanti, non per altro se non perchè i pedanti non possono mai conoscere fuorchè la superficie delle cose, e susseguentemente non hanno mai conosciuto nè conosceranno l'indole della lingua italiana. Una [1049] tal lingua, malgrado la libertà primitiva e propria della sua formazione, e del suo carattere formato, è soggetta niente meno a corrompersi, non usando nel fatto, di questa libertà, secondo il genio proprio suo; ed a perdere la prima e nativa libertà, per usurparne poi necessariamente una spuria ed impropria ed aliena dal suo carattere, come oggi ci accade. E già nel 500. si era cominciata a dimenticare da alcuni (come dal Castelvetro ec.) questa qualità della nostra lingua, dico la libertà, cosa veramente accaduta a quasi tutte le lingue, e spesso ne' loro migliori secoli, appena vi s'è cominciata a introdurre, la sterile e nuda arte gramaticale, in luogo del gusto, del tatto, del giudizio, del sentimento naturale e dell'orecchio ec.

Il terzo genere è delle lingue non libere nè per natura nè in fatto, come la francese. Lingue che vanno necessariamente a corrompersi. La lingua latina, la cui formazione non le diede un'indole libera (vedi p. 1007. fine-1008.), si corruppe con maravigliosa prestezza. Ed osservo nella poetica d'Orazio che a' suoi tempi la novità delle parole era contrastata agli scrittori latini, come oggi agli italiani da' pedanti, cosa che io non mi ricordo [1050] mai di aver notato in nessun scrittor greco in ordine alla lingua greca (e lo stesso dico d'ogni altra lingua antica). Al più i gramatici e filologi greci non molto antichi nè degli ottimi tempi della favella, faranno gli smorfiosi intorno alla purità dell'Atticismo, e all'escludere questa o quella parola o frase da questo o quel dialetto, riconoscendola però per greca, e non escludendola dalla scrittura greca, come fanno i toscani rispetto all'italiana.

Diranno che la lingua francese, la più timida, serva, legata di tutte quante le lingue antiche e moderne, colte o incolte, si mantiene tuttavia pura. Rispondo

1. La lingua francese schiava rispetto ai modi è liberissima (sia per legge o per fatto) nelle parole.

2. La servilità di una lingua è incompatibile colla durata della sua purità, a causa della inevitabile mutazione e novità delle cose. Ma la lingua francese formata com'è oggi, è ancor nuova. Le circostanze hanno voluto che ella ricevesse una forma stabile in un tempo moderno, e da questa forma fosse ridotta ad esser lingua precisamente di carattere moderno. Non è dunque maraviglia se le cose moderne non la corrompono. La quale modernità [1051] di formazione, fu anche la causa della sua servilità. Se fosse stato possibile che la lingua francese ricevesse una forma di genere simile a quella che ha presentemente, e divenisse così servile, al tempo in cui fu formata per esempio la lingua italiana; ella sarebbe oggi così barbara, e sformata; avrebbe talmente perduta quella tal forma ed indole, che non si potrebbe più riconoscere. Come infatti la lingua francese così formata come fu dall'Accademia, non si riconosce dall'antica; e gli Accademici (o l'età e il genio d'allora) per ridurla così doverono trasformarla affatto dall'antica sua natura (vedi Algarotti Saggio sulla lingua francese); il che sarebbe stato insomma lo stesso che guastarla, e la lingua francese si chiamerebbe oggi corrotta, se prima di quel tempo ella avesse mai ricevuta una forma stabile. E quantunque non l'avesse ricevuta, e gli scritti anteriori non sieno per lo più di gran pregio, nondimeno il solo Amyot, tenuto anche oggi per classico, mostra che differenza passi tra l'antica e primitiva e propria indole della lingua francese e la moderna; mostra che se quella lingua fosse stata mai classica, (il che non mancò se non dalla copia di tali scrittori) la presente sarebbe barbara; mostra quanto quella lingua fosse libera nelle forme e nei modi ec. mostra la differenza delle nature de' tempi anche in Francia ec. E notate che anche Amiot, come pure Montagne, Charron ec. furono nel secolo del 500. epoca della vera formazione delle lingue italiana e spagnuola, e della letteratura di queste nazioni. E ben credo che lo stile d'Amyot formi la disperazione de' moderni francesi [1052] che si studino d'imitarlo (vedi Andres, t. 3. p. 97. nota del Loschi), giacchè la loro lingua ne ha perduta interamente la facoltà, e vedi il luogo di Thomas che ho citato altrove.

3. Ho già detto in altri luoghi come la lingua francese vada effettivamente degenerando dagli stessi scrittori classici del tempo di Luigi XIV. in proporzione della diversità de' tempi, naturalmente assai minore di quella che corre fra il tempo presente, e quello della formazione per esempio della lingua italiana, e qual sia il pericolo che corre massimamente l'odierna lingua francese, pericolo veramente non di lei sola, ma di tutte le lingue; e non delle lingue sole, ma delle letterature ugualmente; e non solo di queste, ma degli uomini e delle nazioni e della vita del nostro tempo; cioè il pericolo di divenir matematici di filosofici e ragionevoli che sono stati da qualche tempo fino ad ora, e di naturali che furono anticamente. (14. Maggio 1821).

Dell'ignoranza del latino presso i greci vedi Luciano, Come vada scritta la storia. (14. Maggio 1821).

Alla p. 988. Citavano ancora non rare volte i latini (come Cicerone nel libro de Senectute) passi anche lunghi di scrittori greci recati da essi in latino. Non così i greci viceversa, se non talvolta (e in tempi assai posteriori anche ai principii della Chiesa greca) qualche passo di Padri o scrittori ecclesiastici latini rivolto in greco; ma ben di rado, massime in proporzione delle molte autorità di padri greci ec. che recavano i latini, [1053] voltandoli nel loro linguaggio. E generalmente l'uso de' padri ec. latini nella Chiesa e scrittori greci, fu sempre senza paragone minore di quello delle autorità greche nella Chiesa e Scrittori ecclesiastici latini, non ostante la riconosciuta supremazia della Chiesa Romana. (15. Maggio 1821).

Considerando per una parte quello che ho detto p. 937. seguenti, intorno alla naturale ristrettezza e povertà delle lingue, e come la natura avesse fortemente provveduto che l'uomo non facesse fuorchè picciolissimi progressi nel linguaggio, e che il linguaggio umano fosse limitato a pochissimi segni per servire alle sole necessità estrinseche e corporali della vita; e per l'altra parte considerando le verissime osservazioni del Soave (Appendice 1. al capo 11. Lib. 3. del Saggio di Locke) e del Sulzer (Osservaz. intorno all'influenza reciproca della ragione sul linguaggio, e del linguaggio sulla ragione, nelle Memorie della R. Accadem. di Prussia, e nella Scelta di Opusc. interessanti, Milano 1775. vol. iv. p. 42-102.) intorno alla quasi impossibilità delle cognizioni senza il linguaggio, e proporzionatamente della estensione e perfezione ec. delle cognizioni, senza la perfezione, ricchezza ec. del linguaggio; considerando, dico, tutto ciò, si ottiene una nuova e principalissima prova, di quanto il nostro presente [1054] stato e le nostre cognizioni sieno direttamente e violentemente contrarie alla natura, e di quanti ostacoli la natura vi avesse posti. (15. Maggio 1821).

Come senza una lingua sono quasi impossibili le cognizioni e nozioni, massime non corporee, o immateriali, e senza una lingua ricca e perfetta, la moltitudine e perfezione delle dette cognizioni ed idee, e il perfezionamento o il semplice incremento delle lingue conferisce assolutamente a quello delle idee, conforme ha evidentemente dimostrato, oltre a tanti altri e più antichi da Locke in poi, (Sulzer, l. cit. qui dietro, p. 101. nota del Soave) e massime più moderni, il Sulzer nelle Osservazioni citate nella pag. qui dietro; così proporzionatamente senza una lingua (propria) arrendevole, varia, libera ec. è difficilissima la perfetta cognizione, e il perfetto sentimento e gusto dei segni proprii delle altre lingue, mancando o scarseggiando l'istrumento della concezione dei segni, come nell'altro caso sopraddetto, l'istrumento della concezione chiara e fissa, determinata e formata delle cose e delle idee, e della memoria di dette concezioni. (15. Maggio 1821).

Non solo la greca parola ψυχή, come dissi altrove, deriva da spirare ec. ma anche la latina animus e quindi anima da ἄνεμος, vento. Vedi Sulzer, luogo cit. alla pag. qui dietro, p. 62. E l'antico significato di vento nella parola anima fu spesso usato da' latini. (Credo massime i più antichi, o loro imitatori.) Vedi il Forcellini, e il Saggio sugli Errori popolari degli antichi. (15 Maggio 1821).

[1055]  Couper dee venire da χόπτειν. (16. Maggio 1821).

Quanto sia vero che la scrittura Chinese si possa quasi perfettamente intendere, senza saper punto la lingua, vedi se vuoi, Soave, Append. 2. al Capo 11. Lib. 3. del Compendio di Locke, Venez. 3a ediz. t. 2. p. 63. principio. (16. Maggio 1821).

L'incredulità in qualunque genere è spesso propria di chi poco sa, e poco ha pensato, per lo stesso motivo per cui questi tali non conoscono o si trovano imbrogliati nel trovar la cagione o il modo come possano esser vere tante cose che non possono negare. Conoscendo poche cose conoscono un piccol numero di cagioni, un piccol numero di possibilità, un piccol numero di maniere di essere, o di accadere ec. un piccol numero di verisimiglianze. Chi oltre il sapere e il pensar poco, non ragiona, facilmente crede, perchè non si cura di cercare come quella cosa possa essere. Ma chi, quantunque sapendo e pensando poco, tuttavia ragiona, o si picca di ragionare, non vedendo come una cosa possa essere, e sapendo che quello che non può essere, non è, non la crede; e questo non in sola apparenza, o per orgoglio, affettazione di spirito ec. ma bene spesso in buona coscienza, e naturalmente. (17. Maggio 1821).

[1056]  Alla p. 1038. La lingua latina prima del detto tempo, ebbe anzi alcuni scrittori veramente insigni, e come scrittori di letteratura, e come scrittori di lingua; alcuni eziandio che nel loro genere furono così perfetti che la letteratura romana non ebbe poi nessun altro da vincerli. Lasciando gli Oratori nominati da Cicerone e principalmente i Gracchi (o C. Gracco), lasciando tanti altri scrittori perduti, come alcuni comici elegantissimi, basterà nominar Plauto e Terenzio che ancora ammiriamo, l'uno non mai superato in seguito da nessun latino nella forza comica, l'altro parimente non mai agguagliato nella più pura e perfetta e nativa eleganza. E certo (se non erro) la Comedia latina dopo Cicerone e al suo stesso tempo, andò piuttosto indietro, di quello che oltrepassasse il grado di perfezione a cui era stata portata da' suoi antenati. E pure chi mette la perfezione della lingua latina, o la sua formazione ec. piuttosto nel secolo di Terenzio, che in quello di Cicerone e di Virgilio? E Lucrezio un secolo dopo Terenzio, si lagnava, com'è noto, della povertà della lingua latina.

Quanto più dunque dovrà valere il mio argomento per gli scrittori del trecento. De' quali eccetto tre soli, nessuno appartiene alla letteratura.

Ma non ostante la vastissima letteratura del cinquecento non però la lingua italiana si potè ancora nè si può dire perfetta. Non basta l'applicazione di una lingua [1057] alla letteratura per perfezionarla, ed interamente formarla. Bisogna ancora che sia applicata ad una letteratura perfetta, e perfetta non in questo o quel genere, ma in tutti. Altrimenti ripeto che il secolo principale della lingua latina, non sarà quello di Cicerone, ma di Plauto o di Terenzio, come secolo più antico e primitivo, e meno influito da commercio straniero.

Ora lascerò stare che in quelle medesime parti di letteratura che più soprastanno, e più furono coltivate in Italia; in quelle medesime dove noi primeggiamo su tutti i forestieri, la nostra letteratura è ben lungi ancora dalla perfezione e raffinatezza della greca e latina, che in queste tali parti sono, e furon prese effettivamente a modelli, da' nostri scrittori: e per conseguenza propriamente parlando, sono ancora imperfette. Ma la nostra eloquenza, e più la nostra filosofia (e nella filosofia trovava povera la lingua latina Lucrezio) non sono solamente imperfette, ma neppure incominciate. Quanti altri generi di letteratura, (prendendo questa parola nel più largo senso), e di poesia come di prosa, o ci mancano affatto, o sono in culla, o sono difettosissimi! Lasciando gl'infiniti altri, la lirica italiana, quella parte in cui l'Italia, a parere del Verri (Pref. al Senofonte del Giacomelli), [1058] e della universalità degl'italiani, è senza emola, eccetto il Petrarca che spetta piuttosto all'elegia, chi può mostrare all'Europa senza vergogna? Gli sforzi del Parini (veri sforzi e stenti, secondo me) mostrano e quanto ci mancasse, e quanto poco si sia guadagnato.

Oltracciò supponendo che i generi coltivati da noi nel 500. o anche nel 300. fossero tutti perfetti, chi non sa che uno stesso genere cambiando forma ed abito, e quasi genio e natura, col cambiamento inevitabile degli uomini e de' secoli, la perfezione antica non basta ad una lingua nè ad una letteratura, s'ella non ha pure una perfezione moderna in quello stesso genere? Se Lisia fu perfetto oratore al tempo de' 30. tiranni, Demostene ed Eschine non meno perfetti oratori a' tempi di Filippo e di Alessandro, appartengono ad una specie del genere oratorio sì diversa da quella di Lisia, che si può dire opposta (᾽ἰσχνός, e il δεινός); e certo assolutamente parlando, lo vincono di molto in pregio ed in fama. E potremmo recare infiniti esempi di tali rinnuovate e rimodernate perfezioni di uno stesso genere, nelle medesime letterature antiche, e nella stessa italiana dal 300 al 500, e forse anche dentro i limiti dello stesso Cinquecento. Ora se la letteratura italiana non ha perfezione [1059] moderna in nessun genere, anzi se l'Italia non ha letteratura che si possa chiamar moderna, se ec. (ricapitolate il sopraddetto) come dunque la lingua italiana si dovrà stimare perfetta, e così perfetta che non le si possa niente aggiungere di perfezione nè di ricchezza (cosa che non accade a nessuna cosa umana che pur si possa chiamare degnamente perfetta); quando è costantissimo che nessuna lingua si perfeziona se non per mezzo della letteratura? e che la perfezione delle lingue dipende capitalmente dalla letteratura? (17. Maggio 1821).

La scrittura chinese non è veramente lingua scritta, giacchè quello che non ha che fare (si può dir nulla) colle parole, non è lingua, ma un altro genere di segni; come non è lingua la pittura, sebbene esprime e significa le cose, e i pensieri del pittore. Sicchè la letteratura chinese poco o nulla può influir sulla lingua, e quindi la lingua chinese non può fare grandi progressi. (18. Maggio 1821).

Non è egli un paradosso che la Religion Cristiana in gran parte sia stata la fonte dell'ateismo, o generalmente, della incredulità religiosa? Eppure io così la penso. L'uomo naturalmente non è incredulo, perchè non ragiona molto, e non cura gran fatto delle cagioni [1060] delle cose. (Vedi p. 1055. ed altro pensiero simile, in altro luogo.) L'uomo naturalmente per lo più immagina, concepisce e crede una religione, cosa dimostrata dall'esperienza, nello stesso modo che immagina, concepisce e crede tante illusioni, ed alcune di queste, uniformi in tutti; laddove la religione è immaginata da' diversi uomini naturali in diversissime forme. La metafisica che va dietro alle ragioni occulte delle cose, che esamina la natura, le nostre immaginazioni, ed idee ec.; lo spirito profondo e filosofico, e ragionatore, sono i fonti della incredulità. Ora queste cose furono massimamente propagate dalla religione Giudaica e Cristiana, che insegnarono ed avvezzarono gli uomini a guardar più alto del campanile, a mirar più giù del pavimento, insomma alla riflessione, alla ricerca delle cause occulte, all'esame e spesso alla condanna ed abbandono delle credenze naturali, delle immaginazioni spontanee e malfondate ec. Vedi p. 1065. capoverso 2. E sebben tutte le religioni sono una specie di metafisica, e quindi tutte le religioni un poco formate si possono considerare come cause dell'irreligione, ossia del loro contrario, (mirabile congegnazione del sistema dell'uomo, il quale non sarebbe irreligioso se non fosse stato religioso); contuttociò questa qualità principalmente, come ognun vede, appartiene alla Religione giudaica [1061] e Cristiana.

Ed è veramente curioso il considerare in questa medesima Religione, ed in questo medesimo nostro tempo, le fasi, le epoche, e le gradazioni dello spirito umano, tutte ancor sussistenti, ed accumulate in un medesimo secolo; e quasi una serie di generazioni, delle quali nessuna è peranche estinta, e tutte seguitano a vivere, senza lasciar di produrne delle nuove, che vivono insieme colle primitive. Eccone quasi un albero genealogico.

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Religione Giudaica

conservantesi ancora presso gli Ebrei, che rigettano la modificazione fattane da Gesù Cristo, e si attengono e conservano appresso a poco la sua forma primitiva

Ü

Religion Cattolica,

che conserva la forma primitiva della detta modificazione fatta da Gesù Cristo alla Religione Giudaica.

Ü

Religioni Luterana, alvinista,

ed altre sussistenti, e chiamate ereticali, che sono nuove modificazioni della detta modificazione, oltre le molte altre già estinte nello spazio di tempo intermedio fra questa e quelle, e che si sono rifuse, o perdute, parte nella primitiva Religion Cristiana, ossia nella [1062] Cattolica, parte in qualcuna delle dette ereticali.

Ü

Nuove modificazioni, alterazioni, suddivisioni

ancora esistenti, del Luteranismo, del Calvinismo, e d'altre simili sette.

Ü

Incredulità religiosa

che deriva primitivamente dalla Religione Giudaica (e questa ancora esistente), ma via via per mezzo delle dette successive modificazioni e quasi generazioni di essa Religione. (18. Maggio 1821). vedi p. 1065. capoverso 1.

 Alla p. 1034. Altro è che la letteratura influisca sulla lingua del popolo, la modifichi, la formi, la perfezioni, quando questa lingua è sostanzialmente la stessa che la scritta; altro è che possa cambiare affatto la lingua del popolo, e fargli parlare una lingua sostanzialmente o grandemente diversa da quella che parlava; (quantunque ella possa alterare e corrompere la lingua popolare introducendoci parole e frasi appoco appoco) e ciò in tempi ne' quali la letteratura ed era debolissima, scarsissima e barbara per se stessa, e non aveva quasi alcuna influenza sulla moltitudine, e i letterati, anzi pure gli studiosi, e sopratutto gli scrittori erano rarissimi e pochissimi. (18. Maggio 1821).

Quanto giovi la riflessione alla vita; quanto il sistema di profondità, di ragione, di esame, sia conforme alla natura; quanto sia favorevole, anzi compatibile [1063] coll'azione vediamolo anche da questo. Considerando un poco, troveremo che l'abito di franchezza, disinvoltura, ec. che tanto si raccomanda nella società, che è indispensabile pel maneggio degli affari d'ogni genere, e che costituisce una gran parte dell'abilità degli individui a questo maneggio, non è altro che l'abito di non riflettere. Abito che il giovane alterato dall'educazione, non riesce a ricuperare se non appoco appoco, e spesso mai, specialmente s'egli ha grande ingegno, e di genere profondo e riflessivo (come quello di Goethe, il cui primo abordo dice Mad. di Staël, ch'è sempre un peu roide finch'egli non si mette à son aise.)

Il fanciullo è sempre franco e disinvolto, e perciò pronto ed attissimo all'azione, quanto portano le forze naturali dell'età. Le quali egli adopera in tutta la loro estensione. Se però non è alterato dall'educazione, il che può succedere più presto o più tardi. E tutti notano che la timidità, la diffidenza di se stesso, la vergogna, la difficoltà insomma di operare, è segno di riflessione in un fanciullo. Ecco il bello effetto della riflessione: impedir l'azione; la confidenza; l'uso di se stesso, e delle sue forze; tanta parte di vita. Il giovanetto alterato [1064] dall'educazione è timido, legato, irresoluto, diffidentissimo di se stesso. Bisogna che col frequente e lungo uso del mondo, egli ricuperi quella stessa qualità che aveva già di natura, ed ebbe da fanciullo, cioè l'abito di non riflettere, senza il quale è impossibile la franchezza, e la facoltà di usar di se stesso, secondo tutta la misura del suo valore. E ciò si vede in tutti i casi della vita, e non già nelle sole occasioni che abbisognano di coraggio, e che spettano a pericoli corporali. Ma chi non ha ricuperato fino a un certo punto l'abito di non riflettere, non val nulla nelle conversazioni, non può nulla colle donne, nulla negli affari, e massime in quelle circostanze che portano, dirò così, un certo pericolo, non fisico, ma morale, e che abbisognano di franchezza e disinvoltura, e di una, dirò così, intrepidezza sociale. Qualità impossibile a chi per abito riflette, e non può deporre al bisogno la riflessione, e non può abbandonarsi, e lasciar fare a se stesso, che sono le cose e più ricercate e pregiate, e più necessarie a chi vive nella società, e generalmente in quasi ogni sorta e parte di vita. E vedi gli altri miei pensieri sulla impossibilità delle stesse azioni fisiche senza l'abito di non riflettere, [1065] abito che rispetto a queste azioni, avendolo tutti da natura, pochi lo perdono, ma perduto, rende impossibili le operazioni più materiali, e giornaliere, e naturali. (19. Maggio 1821).

Alla p. 1062. La Religion Cristiana, quando anche si voglia considerare come parto della ragione umana posta nelle circostanze di quei tempi, di quei luoghi ec. è innegabile che ha vicendevolmente influito assaissimo sopra la stessa ragione, rivoltala al profondo, all'astruso, al metafisico; propagatala forse più di quello che abbia fatto qualunque altro mezzo; e cagionato grandissima e principalissima parte de' suoi progressi. Ora è manifesto che l'incredulità religiosa deriva dai progressi della ragione, e che quando o l'uomo, o le nazioni non ragionavano, credevano, ed erano religiose. (19. Maggio 1821).

Alla p. 1060. Le religioni sono il principio, e nel tempo stesso la parte principale e più rilevante della metafisica, ed oltracciò la parte la più intensamente metafisica della medesima metafisica; appartenendo alla natura, all'ordine, alle cagioni più remote, più nascoste, e più generali delle cose. (19. Maggio 1821).

Dalle mie osservazioni sulla necessaria varietà delle lingue, risulta che non solo le lingue furono naturalmente molte e diverse anche da principio, per le [1066] impressioni che le medesime cose fanno ne' diversi uomini; le diverse facoltà imitative, o le diverse maniere d'imitazione usate da' primi creatori e inventori della favella; le diverse parti, forme, generi, accidenti di una medesima cosa, presi ad imitare e ad esprimere da' diversi uomini colla parola significante quella tal cosa; (vedi Scelta di Opuscoli interessanti, Milano. Vol. 4. p. 56-57. e p. 44. nota) ma eziandio che introdotta e stabilita una medesima favella, cioè un medesimo sistema di suoni significativi, uniformi e comuni in una medesima società; questa favella ancora, inevitabilmente si diversifica e divide appoco appoco in differenti favelle. (19. Maggio 1821).

Lampa, lampo, lampare, lampante, come pure lampeggio, lampeggiare, lampeggiamento derivano manifestamente dal greco λάμπειν ec. co' suoi derivati ec. del quale, e de' quali non resta nel latino scritto altro vestigio (ch'io sappia), fuorchè la voce lampas, gr. λάμπάς, ital. lampada, lampade, lampana, co' suoi derivati, lampada ae, lampadion, lampadias, lampadarius. Vedi il Forcellini, e il Du Cange. (20. Maggio 1821).

Quanta sia la superiorità degl'italiani nell'attitudine a conoscere e gustare la lingua latina, si può argomentare proporzionatamente dalla superiorità riconosciuta in loro, nel bello scriver latino, ossia nella imitazione [1067] degli scrittori latini, quanto alla vera e propria ed ottima lingua latina. E certo chi è superiore nell'imitare, chi è superiore nel maneggiare e adoperare, è necessario che lo sia pure nel conoscere e nel gustare, e quella prima superiorità, suppone questa seconda. Ora di questa superiorità degl'italiani nello scriver latino, dal Petrarca fino a oggidì, vedi Andrès t. iii. p. 247-248. e quivi le note del Loschi, p. 89-92. p. 99-102. t. iv. p. 16. e le Epistole del Vannetti al Giorgi. (20. Maggio 1821).

Le parole di qualunque genere, (cioè particelle, come re, preposizioni, come ad ec., nomi ec.) che si prepongono ai verbi nella composizione, li chiama Varrone, e dietro lui Gellio, praeverbia. Vedi Forcellini. (20. Maggio 1821).

Le cause per cui la lingua greca formata fu liberissima d'indole e di fatto, a differenza della latina, sono:

1. Che la sua formazione accadde in tempi antichissimi, o si vogliano considerare quelli di Omero, o quelli di Pindaro, di Erodoto ec. o anche quelli di Platone ec. tempi che sebbene assai colti e civili (dico questi ultimi) anzi il fiore della civiltà greca, nondimeno conservavano ancora assai di natura. A differenza della lingua latina formata in un tempo di piena [1068] adulta e matura, anzi corrotta civiltà, universale nella nazione; negli ultimi tempi di Roma, nella sua decadenza morale, nel tempo ch'era già cominciata la servitù degli animi romani; nell'ultima epoca dell'antichità.

2. Anche la lingua latina si andò formando appoco appoco, ed ebbe buoni ed insigni scrittori prima del suo secolo d'oro. Ma la lingua greca non ebbe propriamente secolo d'oro. I suoi scrittori antichissimi non furono inferiori ai moderni, nè i moderni agli antichi. Da Omero a Demostene non v'è differenza di autorità o di fama rispetto alla letteratura greca in genere, ed alla lingua. Questo fece che nessun secolo della Grecia (finch'ella fu qualche cosa) dipendesse da un altro secolo passato in fatto di letteratura. Non vi fu secol d'oro, tutti i secoli letterati e non corrotti della Grecia competerono fra loro, e nel fatto e nell'opinione. Quindi la perpetua conservazione, la radicazione profonda della libertà della loro letteratura, e della loro lingua. Dico della libertà sì d'indole che di fatto. Non così è accaduto alla lingua italiana, sebben libera per indole della sua formazione. Ma ella ebbe i suoi secoli d'oro come la latina. Laddove la lingua e letteratura greca, si andò [1069] via via perfezionando e formando e crescendo insensibilmente, e quasi con egual misura in ciascun tempo, così che nessun secolo potè vantarsi di averla formata, come succede all'italiano, al francese ec. e come successe al latino. In maniera che non si stimò mai che i suoi progressi dovessero esser finiti, perchè non s'erano veduti tutti raccolti con soverchio splendore e superiorità in una sola epoca.

3. È già noto che le regole nascono quando manca chi faccia. Ma in Grecia non mancò fino agli ultimi tempi della sua esistenza politica. E sebbene allora nacquero (o almeno si propagarono e crebbero) anche fra' greci le regole, e le arti gramatiche, ec. ec. nondimeno il lungo uso e consolidamento della sua libertà rispetto alla lingua, impedì che le regole le nuocessero, sebbene non così accadde alla letteratura. Laddove la letteratura latina quasi spirata con Virgilio, e col di lei secolo d'oro, e parimente l'italiana, lasciarono largo e libero campo alle regole, ed a tutti i beatissimi effetti loro. Giacchè sebbene il 500. non mancava di regole (ne mancò però del tutto il 300.), quelle non aveano che fare coll'esattezza e finezza ec. [1070] e servilità delle posteriori, e si possono paragonare (massime in fatto di lingua) a quelle che in fatto di rettorica o di poetica ec. ebbero anche i greci ne' migliori tempi. Che se i latini n'ebbero di molte e precise, perchè le riceverono dai greci già fatti gramatici e rettorici, questa è pure una delle ragioni della poca libertà della loro lingua formata ec. ec. e resta compresa nella soverchia civiltà di quel tempo, che ho già addotta da principio, come cagione di detta poca libertà. (20. Maggio 1821). Vedi p. 743-746. principio.

Quello che ho detto intorno alla novità delle parole cavate dalla propria lingua, si deve anche applicare alla novità de' sensi e significati d'una parola già usitata, alla novità delle metafore ec. Vedi Scelta di opuscoli interessanti. Milano. vol. 4. p. 54.58-61. I quali nuovi e diversi significati d'una stessa parola, non denno però esser tanti che dimostrino povertà, e producano confusione, ed ambiguità, come nell'Ebraico. (20. Maggio 1821).

Alla p. 807. marg. Dice Varrone che gli uomini (in sermones non solum latinos, sed omnium hominum necessaria de causa) Imposita nomina esse voluerunt quam paucissima, quo citius ediscere possent, intendendo per nomi imposti, le parole radicali [1071] (Varro, De ling. lat. lib. 7.) (p. 2. del I. libro de Analogia nella ediz. che ho del 400). (21. Maggio 1821).

Un antichissimo significato della parola inter che ordinariamente è preposizione, e in questo caso sembra essere stata usata avverbialmente, significato non osservato dai Gramatici nè da' Lessicografi (il Forcellini non ne fa parola alla vedi Inter, benchè citi molti gramatici), fu quello di quasi, mezzo, e simili. Del qual significato resta un evidente vestigio nelle parole intermorior, intermortuus, mezzo morto, che anche noi diciamo tramortire, tramortito, e quindi tramortigione, tramortimento. Ora questo antichissimo significato, dimenticato fino dai gramatici latini, e di cui negli scrittori latini non si trova, ch'io sappia, altra ricordanza che la sopraddetta, si conservò alla voce inter, nel latino volgare, sino a passar nella lingua francese, che nello stessissimo senso l'adopra nella composizione di alcuni verbi come entr'ouvrir, entrevoir ec. Elle signifie aussi dans la composition de quelques verbes une action diminutive, dice l'Alberti della preposizione entre, che è lo stesso che inter. Nè si creda che questo significato sia rimasto in francese alla detta parola, solamente in alcuni verbi che questa lingua abbia presi dal latino, già così composti e formati, e colla detta significazione. [1072] Giacchè 1. i detti verbi così composti, e col detto senso non si trovano nel latino, se non ci volessimo tirare il verbo interviso, che ha veramente un altro significato da quello di voir imparfaitement ec. dell'entrevoir (vedi l'Alberti.). Sicchè in ogni modo questi verbi non trovandosi negli scrittori latini, si verrebbero a dimostrar derivati dall'uso latino volgare. 2. La parola entre nel detto senso si trova anche, nella composizione, unita a parole non latine affatto, come in entre-baillé, mezzo chiuso, o socchiuso. Laonde è manifesto che il detto significato passò dall'antichissimo latino al francese, (certo non per altro mezzo che del volgare latino) come propriamente aderente alla parola entre, quantunque nella sola composizione. Si potrebbono anche riferir qua le nostre parole traudire, e travedere, (co' derivati) che vagliono ingannarsi nell'udire o nel vedere, cioè vedere a mezzo, vedere imperfettamente, come entrevoir, sebbene fissate ad un senso derivativo da questo primo. (21. Maggio 1821). Vedi il Du Cange, se ha nulla al proposito.

Alla p.362. Immaginiamoci un pastore primitivo o selvaggio, privo di favella, o di nomi numerali che volesse, com'è naturale, rassegnare la sera il suo gregge. Non potrebbe assolutamente farlo se non in maniera materialissima; come porre la mattina tutte le pecore in [1073] fila, e misurato o segnato lo spazio che occupano, riordinarle la sera nello stesso luogo, e così ragguagliarle. Ovvero, che è più verisimile, raccorre, poniamo caso, tanti sassi quante sono le pecore: il che fatto, non potrebbe mica ragguagliarle esattamente coi sassi mediante veruna idea di quantità. Perchè non potendo contare nè quelle nè questi, molto meno potrebbe formare nessun concetto della relazione scambievole o del ragguaglio di due quantità numeriche determinate: anzi non conoscerebbe quantità numerica determinata. Converrebbe che si servisse di un'altra maniera materialissima, come porre da parte prima una pecora ed un sasso, indi un'altra pecora e un altro sasso, e così di mano sino all'ultima pecora, e sino all'ultimo sasso. Vedi p. 2186. principio.

Certo è che l'invenzione dei nomi numerali fu delle più difficili, e l'una delle ultime invenzioni de' primi trovatori del linguaggio. L'idea di quantità, non solo assoluta e indeterminata (anzi questa è meno difficile, essendo materiale e sensibile l'idea del più e del meno, e quindi della quantità indeterminata), ma anche determinata, anche relativa a cose materialissime, considerandola bene, è quasi totalmente astratta e metafisica. Quando noi vediamo le cinque dita della mano, ne concepiamo subito il numero, [1074] perchè l'idea del numero è collegata nella mente nostra mediante l'abito, e l'uso della favella, coll'idea che ci suscita il vedere una quantità d'individui facili a contare, o di cui già sappiamo il numero. E l'idea di contare vien dietro alla detta vista, per la detta ragione. Non così l'uomo privo de' nomi numerali. Egli vede quelle cinque dita come tante unità, che non hanno fra loro alcuna relazione o attinenza numerica (come in fatti non l'hanno per se stesse), componenti una quantità indefinita (della quale non concepisce se non se un'idea confusa, com'è naturale trattandosi d'indefinito) e non gli si affaccia neppure al pensiero l'idea di poterla determinare, o di contare quelle dita. Meno metafisica è l'idea dell'ordine. Giacchè (seguitando a servirci dell'esempio della mano) che il pollice, ossia il primo dito, stia nel principio della serie, che l'indice, cioè il secondo dito, venga dopo quello che è nel principio della mano, cioè il pollice, e che il medio cioè il terzo succeda a questo dito, e sia distante dal pollice un dito d'intervallo; sono cose che cadono sotto i sensi, e che destano facilmente l'idea di primo di secondo e di terzo e via discorrendo. Lo stesso potremmo dire di un filare d'alberi ec.

Così che io non credo che le denominazioni de' numeri ordinativi non abbiano preceduto nelle lingue primitive quelle de' cardinali (contro ciò che pare a prima vista, e che forse è seguito nelle lingue colte ec.); e che in dette lingue [1075] la parola secondo si sia pronunziata prima che la parola due. Perchè la parola secondo esprime un'idea materiale, e derivata da' sensi, e naturale, cioè quella cosa che sta dopo ciò che è nel principio, laonde la forma di quest'idea sussiste fuori dell'intelletto. Infatti nel latino, posterior vuol dire secundus ordine, loco, tempore (Forcellini), e così propriamente il greco ὔστερος: χυριώτερα τὰ ὔστερα νομίζεται χαὶ βεβαιότερα τῶν πρώτω. Plutarco, Convival. Disputat. l.8. (Scapula) quantunque possa venir dopo, o dietro, anche quello che non è secondo. Così pure nell'italiano posteriore ec. Ma la parola due significa un'idea la cui forma non sussiste se non che nel nostro intelletto, quando anche sussistano fuori di esso le cose che compongono questa quantità, colla quale tuttavia non hanno alcuna relazione sensibile, materiale, intrinseca o propria loro, ed estrinseca alla concezione umana. Vedi l'Encyclopédie méthodique. Métaphisique. art. nombres, preso, io credo, da Locke.

Quella cosa che è nel principio, ha una ragione propria per esser chiamata prima, e quella che gli sta dopo, per esser chiamata seconda, cioè posteriore: così che questi nomi ordinali sono relativi alle cose. Ma quella non ha ragione propria perchè l'uomo nel contare la chiami uno, e quest'altra due; e questi nomi cardinali non sono relativi alle cose reali, ma alla quantità, che è solamente idea, ed è separata dalle cose, nè sussiste fuori dell'intelletto. (22. Maggio 1821). Vedi p.1101. fine.

Quelli che non sogliono mai far nulla, e che per conseguenza hanno più tempo libero, e da potere impiegare, sono ordinariamente i più difficili a trovare il tempo per una occupazione, ancorchè di loro premura, a ricordarsi di una cosa che bisogni fare, di una [1076] commissione che loro sia stata data, e che anche prema loro di eseguire. Al contrario quelli che hanno la giornata piena, e quindi meno tempo libero, e più cose da ricordarsi. La cagione è chiara, cioè l'abito di negligenza nei primi, e di diligenza nei secondi (22. Maggio 1821). E lo stesso differente effetto si vede anche in una stessa persona, secondo i diversi abiti e metodi temporanei di attività e diligenza, o inattività e negligenza.

Alla p.761. Anzi questa facoltà de' composti di due o più voci, è proprissima anche oggidì del linguaggio italiano familiare (e credo anzi del linguaggio familiare di tutte le nazioni, massime popolare): e specialmente del toscano lo è stato sempre, e lo è. Il qual dialetto vi ha molta e facilità e grazia; e il discorso ne riceve una elegante e pura novità, ed una singolare efficacia; come tagliacantoni, ammazzasette, pascibietola, (del Passavanti) frustamattoni, perdigiorno, pappalardo e simili voci burlesche o familiari antiche e moderne. Sicchè non si può dire che questa medesima facoltà sia neppur oggi perduta: (giacchè sarebbe ridicolo l'impedire di fare altri composti simili ec.) nè che la nostra lingua non ci abbia attitudine; e neppure che non si possano estendere oltre al burlesco o familiare, giacchè il burlesco o familiare di questi composti deriva non tanto dalla composizione, quanto dalla natura delle voci che li formano. Ma altre voci, purchè fosse fatto con giudizio, e senza eccesso [1077] di lunghezza, nè forzatura delle parti componenti, si potrebbero benissimo comporre allo stesso modo, senza toglier nulla alla gravità, nè indurre nessuna apparenza di buffonesco o di plebeo. E così fece giudiziosamente il Cesarotti nell'Iliade, e credo anche nell'Ossian. Omero, Dante, e tutti i grandi formano nomi dalle cose. Quintiliano, e tutti i Gramatici l'approvano: quando calzino appunto, come qui, dove Tiberio schernisce la cinquannaggine, che Gallo voleva, de' magistrati. Davanzati (Annali di Tacito Lib.2. c.36. postilla 3.) in proposito del verbo incinquare da lui formato per rendere il latino quinquiplicare di Tacito. (23. Maggio 1821). Era però già stato usato da Dante.

Il tempo di Luigi decimoquarto e tutto il secolo passato, fu veramente l'epoca della corruzione barbarica delle parti più civili d'Europa, di quella corruzione e barbarie, che succede inevitabilmente alla civiltà, di quella che si vide ne' Persiani e ne' Romani, ne' Sibariti, ne' Greci ec. E tuttavia la detta epoca si stimava allora, e per esser freschissima, si stima anche oggi, civilissima, e tutt'altro che barbara. Quantunque il tempo [1078] presente, che si stima l'apice della civiltà, differisca non poco dal sopraddetto, e si possa considerare come l'epoca di un risorgimento dalla barbarie. Risorgimento incominciato in Europa dalla rivoluzione francese, risorgimento debole, imperfettissimo, perchè derivato non dalla natura, ma dalla ragione, anzi dalla filosofia, ch'è debolissimo, tristo, falso, non durevole principio di civiltà. Ma pure è una specie di risorgimento; ed osservate che malgrado la insufficienza de' mezzi per l'una parte, e per l'altra la contrarietà ch'essi hanno colla natura; tuttavia la rivoluzione francese (com'è stato spesso notato), ed il tempo presente hanno ravvicinato gli uomini alla natura, sola fonte di civiltà, hanno messo in moto le passioni grandi e forti, hanno restituito alle nazioni già morte, non dico una vita, ma un certo palpito, una certa lontana apparenza vitale. Quantunque ciò sia stato mediante la mezza filosofia, strumento di civiltà incerta, insufficiente, debole, e passeggera per natura sua, perchè la mezza filosofia, tende naturalmente a crescere, e divenire perfetta filosofia, ch'è fonte di barbarie. Applicate a questa osservazione le barbare e ridicolissime e mostruose mode (monarchiche e feudali), come guardinfanti, pettinature d'uomini e donne ec. ec. che regnarono, almeno in Italia, fino agli ultimissimi anni del secolo passato, e furono distrutte in un colpo dalla rivoluzione (Vedi la lettera di Giordani a Monti §. 4.) E vedrete che il secolo presente è l'epoca di un vero risorgimento da una vera barbarie, anche nel gusto; e qui può anche notarsi quel tale raddrizzamento della letteratura in Italia oggidì. (23. Maggio 1821). Vedi p.1084.

Altro esempio e conseguenza dell'odio nazionale presso gli antichi. Ai tempi antichissimi, quando il mondo non era sì popolato, che non si trovasse [1079] facilmente da cambiar sede, le nazioni vinte, non solo perdevano libertà, proprietà ec. ma anche quel suolo che calpestavano. E se non erano portate schiave; o tutte intere, o quella parte che avanzava alla guerra, alla strage susseguente, e alla schiavitù, se n'andava in esilio. E ciò tanto per volontà loro, non sopportando in nessun modo di obbedire al vincitore, e volendo piuttosto mancar di tutto, e rinunziare ad ogni menoma proprietà passata, che dipendere dallo straniero: parte per forza, giacchè il vincitore occupava le terre e i paesi vinti non solo col governo e colle leggi, non solo colla proprietà o de' campi o de' tributi ec. ma interamente e pienamente col venirci ad abitare, colle colonie ec. col mutare insomma nome e natura al paese conquistato, spiantandone affatto la nazione vinta, e trapiantandovi parte della vincitrice. Così accadde alla Frigia, ad Enea ec. o se non vogliamo credere quello che se ne racconta, questo però dimostra qual fosse il costume di que' tempi. (23. Maggio 1821).

Alla p. 366. In una macchina vastissima e composta d'infinite parti, per quanto sia bene e studiosamente fabbricata e congegnata, non possono non accadere dei disordini, massime in lungo spazio di tempo; disordini [1080] che non si possono imputare all'artefice, nè all'artifizio; e ch'egli non poteva nè prevedere distintamente nè impedire. Vedi p. 1087. fine. Di questo genere sono quelli che noi chiamiamo inconvenienti accidentali nell'immenso e complicatissimo sistema della natura, e nella sua lunghissima durata. Che sebben questi non ci paiano sempre minimi, bisogna considerarli in proporzione della detta immensità, e complicazione, e della gran durata del tempo.

Per iscusarne da una parte la natura, e dall'altra parte, per conoscere se sieno veramente accidentali e contrari al sistema e non derivati da esso, basta vedere se si oppongono all'andamento prescritto e ordinato primitivamente dalla natura alle cose, e se ella vi ha opposti tutti gli ostacoli compatibili, che spesso possono riuscire insufficienti come nella macchina la meglio immaginata e lavorata. Quando noi dunque nella infelicità dell'uomo troviamo una opposizione diretta col sistema primitivo, e scopriamo che la natura vi aveva opposti infiniti e studiatissimi ostacoli, e che ci è bisognato far somma forza alla natura, all'ordine primitivo ec. e lunghissima serie di secoli per ridurci a questa infelicità; allora essa infelicità per grande, e universale, e durevole, ed anche irrimediabile ch'ella sia, non si può considerare [1081] come inerente al sistema, nè come naturale. Nè dobbiamo lambiccarci il cervello per metterla in concordia col sistema delle cose (il che è impossibile), nè immaginare un sistema sopra questi inconvenienti, un sistema fondato sopra gli accidenti, un sistema che abbia per base e forma le alterazioni accidentalmente fatteci, un sistema diretto a considerare come necessarie e primitive, delle cose accidentali e contrarie all'ordine primordiale: ma dobbiamo riconoscere formalmente l'opposizione che ha la nostra infelicità col sistema della natura; e la differenza che corre fra esso, fra gli effetti suoi, e gli effetti della sua alterazione e depravazione parziale e accidentale.

Lasciando che molti inconvenienti che son tali per alcuni esseri, non lo sono per altri; e molti che lo sono per alcuni sotto un aspetto, non lo sono per li medesimi sotto un altro aspetto ec. ec.

Dimostrando dunque i diversissimi e gagliardissimi ostacoli opposti dalla natura al nostro stato presente, io vengo a dimostrare che questo (e l'infelicità dell'uomo che ne deriva) è accidentale, e indipendente dal sistema della natura, e contrario all'ordine delle cose, e non essenziale ec. (23. Maggio 1821). Vedi p. 1082.

[1082] Se fosse veramente utile, anzi necessario alla felicità e perfezione dell'uomo il liberarsi dai pregiudizi naturali (dico i naturali, e non quelli figli di una corrotta ignoranza), perchè mai la natura gli avrebbe tanto radicati nella mente dell'uomo, opposti tanti ostacoli alla loro estirpazione, resa necessaria sì lunga serie di secoli ad estirparli, anzi solamente a indebolirli; resa anche impossibile l'estirpazione assoluta di tutti, anche negli uomini più istruiti, e in quelli stessi che meglio li conoscono; e finalmente ordinato in guisa che anche oggi (lasciando i popoli incolti) in una grandissima, anzi massima parte degli stessi popoli coltissimi, dura grandissima parte di tali pregiudizi che si stimano direttamente contrari al ben essere ed alla perfezione dell'uomo? Anzi perchè mai gli avrebbe solamente posti nella mente dell'uomo da principio? (24. Maggio 1821).

Alla p. 1081. fine. Per lo contrario, dimostrando come le illusioni ec. ec. ec. sieno state direttamente favorite dalla natura, come risultino dall'ordine delle cose ec. ec. vengo a dimostrare ch'elle appartengono sostanzialmente al sistema naturale, e all'ordine delle cose, e sono essenziali e necessarie alla felicità e perfezione dell'uomo. (24. Maggio 1821).


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(1) V. The Monthly Repertory of english literature, Paris, June 1811, no. 51. vol 13. p. 317. 325. 326.

(2) Articolo del Monthly Magazine, nello Spettatore di Milano, 15 ottobre 1816, quaderno 62, p. 78-79, intitolato Lingua persiana. Parte straniera.

(3) Intorno a Marcaurelio puoi vedere la p. 2166, fine


EDIZIONE DI RIFERIMENTO: "Giacomo Leopardi - Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura", volumi I-VII, Successori Le Monnier, Firenze, 1898-1907  ( Vedi: - 1 -  - 2 -  - 3 -  - 4 -  - 5 -  - 6 -  - 7 -  )







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