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Sul quesito se sia più nocevole a l'uomo l'ozio, o la fatica
 

Vengo, o dotti Accademici, a proporvi una questione, che sarà stata forse, a mio credere, altre volte trattata, ed anche decisa. L'ozio infamia, ed obbrobrio dell'uomo, non che nocevole a la società, e al buon costume ardisce in quest'oggi di paragonarsi con la studiosa fatica che è, senza alcun dubbio l'ornamento di un colto soggetto, e il distintivo di un animo nobile, e civile. Benchè molto sia superiore di forza, e di ragione lo studio, a la negligenza, non sarà tuttavìa cotanto disprezzabile la proposta quistione. Entro dunque nella controversia, ed affermo esser più nocevole a l'uomo l'ozio totale, che la fatica. Per affermare una tal cosa vi abbisogna certamente distinguere l'ozio totale dall'ozio moderato, e la stessa distinzione si deve dare, allo studio, e alla fatica. Parlando dei due estremi, cioè di un ozio senza termine, o di una fatica senza limite difficile sarà il decidere qual de' due sia più nocevole. Una smoderata applicazione debilita, una accidia continua annoja, e apporta nausea, ed ipocondria. Ambe son quasi egualmente nocevoli per una parte, ma non accade il medesimo per l'altra. L'ozio infastidisce, ed è totalmente inutile all'uomo; la fatica debilita, ma quasi sempre è amabile, giovevole, ed è l'ornamento maggiore di un uomo, che ama il buon nome, e il proprio onore. La negligenza, è una totale rilassatezza della mente il che dà ordinariamente libero il corso a le passioni, ai passatempi, ai piaceri; lo studio, è come una catena, che costringe l'intelletto ad attendere, e ad applicare. Queste definizioni sembrano certamente di un aspetto contrario alla fatica ma una matura riflessione vi farà ben presto cangiar di parere. Quei continui piaceri quegl'interminabili passatempi, quell'ozio smoderato apportan languore tedio, e maninconia: Se ne veda la prova fra gli agricoltori. Supponiamo che qualcuno di essi solito a trattar la marra, a stimolare i buoi, ad aprire il seno alla terra col duro vomere, a tornare tutto molle di sudore al povero albergo dopo, che già si nascose il sole, e sparirono ancora i lucidi crepuscoli forieri di vicina notte: supponiamo, io dico, che questi annojato di sì lunga fatica lasci il lavoro, ed il campo, e nella sua abitazione cerchi un continuo riposo non interrotto da alcuna operazione: qual utile egli avrà da quest'ozio continuato, da questa insensata pigrizia? snervamento di forze, perdita di robustezza; volendo ancor tacere il danno de' suoi interessi, e delle sue, benchè scarse sostanze. Se all'opposto l'industre agricoltore suda, si affatica ora ne' domestici impieghi, ora nelle campagne, e nelle terre n'acquisterà vigore, e sanità non che fruttifero renderà il suolo, e copiosa messe ed abbondante provisione trar ne potrà a sostentamento di se, e di sua famiglia. Appropriate una tal similitudine all'uom non ignobile, a quelli, che non sudan nei campi, che non si affatican nelle vigne, che non s'impiegan nel render fertile il terreno ma o qual faticoso agricoltore allo studio si applicano, o qual neghittoso bifolco all'ozio sol si abbandonano. Fate tra questi il paragone, e decidete voi stessi. A voi io mi rimetto, e avendo patrocinato la mia causa come miei giudici a voi l'abbandono sicuro di favorevole, benigna sentenza. Le vostre azioni i vostri pensieri appalesano; onde nella equità che nel pronunziar fra voi stessi la decisione di questa sì disugual lite conservar dovrete io tranquillamente riposo.


 
Caesarem Tyrannum fuisse rationibus probatur
 

Regis Tarquinii tyrannis odiosa Quirini populum exacerbavit: pulsus iste Roma fuit; Consules annui civitatem rexerunt, aurea libertas Urbe potita fuit. Decemvirorum summam potestatem non tulerunt Romani, merito poenam isti patiere, delictaque sua sanguine ac vita laverunt. Caesarem populus execravit; occisus mortuusque ipse procubuit, Libertasque adhuc vinculis alligata ejus vidit mortem, exanimeque corpus laeta aspexit. Tyrannis ergo ejus vera non creditur, dignumque negatur fuisse populi Romani indignatione? hoc videatur, aeternumque odium Caesarem merere, tandem clarum apertumque omnibus fiat.

Tyrannis quid sit adspicite quaeso. Non crudelitas barbara, non sanguinis execranda cupiditas, quae omnia terrori afficiunt horrorique. Nunc sic creditur non ita apud transactos quirites. Tyrannis summa potestas significat, summum imperium, summa dominatio. Quid horum in Caesare non invenitur? ille defensorem Reipublicae Pompejum Magnum propugnavit et vicit; ille Catonem, Scipionemque Consulem bello superavit Affricano; ille Pompeji Magni filium, atque unicum tum Romae defensorem Hyspanico proelio devicit; quid ultra quaeritur? Quam caussam ipse habebat ad Romae propugnandas supremas auctoritates? historiae percurrantur, aspiciantur codices, observentur memoriae, commentariique Caesaris ipsius nulla invenietur caussa, quae Caesarem cogeret ad oppugnandas Reipublicae summas potestates. Petietur mihi forsan ad invicem quam caussam haberent ii qui adversus Caesarem bellum fecerunt. Prompta est, evidensque responsio. Is qui contra aliquam civitatem arma confert, is qui spernit jussa Reipublicae, urbemque minatur an oppugnari non potest a Reipublicae defensoribus? Quis hoc neget? Si aliquis haec omnia non credat in Caesare fuisse, ipsa decurrat sua annalia, Rubiconisque transitum contra Romae jussum ibi cernet, omniaque quae dixi ad ipso Caesare comprobata videbit. Vicit ergo Caesar, Romamque redivit. Cur libertatem abstulit populo Romano? Si contra Pompejum, natum, Scipio nemque justa caussa meritoque pugnavit qua re suprema potitus est auctoritate? quare per petuam sumpsit Dictaturam? Si ipse jam Italiae pacem attulerat an haec opportebat?

Sed mihi objicietur forsan ejus non crudelis, sed mitis gubernatio; mihi mentio fiet Senatus edictorum, quae illi Dictaturam donabant. Primae objiectioni ita respondeo. Cum nullam caussam Caesar habuerit ad imperium possidendum non odiosus solum, sed execrandus, horribilisque fuisset, si crudelitatem amasset. An laudem meruit Caesar quia hoc non fecit, quod facere non debebat? Quam potestatem ille habuit ad crudelitatem exercendam? Laudandus is non est, qui malum non fecit, sed qui bene operatus est; bonum Caesar non fecit, ut jam ostendi, quam igitur laudem in hoc meret? Secundae sic respondeo. Caesari Dictaturam donaverunt Senatus edicta: quae edicta? Illa quae armorum vi Caesar obtinuit. Si ipse milites suos reliquisset ut Romae eidem jussit, atque sine armis Dictaturam petiisset, notis justissimis caussis Senatus porro negasset. Tyrannus fuit ergo Caesar; tyrannum omnes agnoscant, Romanaeque Libertatis ruinae caussa in Caesare clare videbitur.


 
Sul quesito se la Logica sia necessaria allo studio della Filosofia
 

Ad onta del lor parere contrario affatto allo studio della prima filosofica scienza furonvi alcuni, che si applicarono ad esporne i precetti, ad insegnarne le regole, ed a facilitar la via di uno studio da essi creduto inutile. Fuvvi chi disse, potersi nel corso di quattro soli giorni apprendere quanto ritrovasi di atto a formare, ed ammaestrare l'umana mente nella sopraddetta scienza, dal che ben si vede poca esser la stima, che egli ne avea, credendo potersi in sì breve tempo trascorrere, e conoscere tutte le Logiche utilità. Egli nondimeno in un lungo manoscritto tutti distese, spiegò, ed espose gli avvertimenti di una scienza da lui negletta, il qual poi, dato alle stampe, spianò ed aprì una più sicura strada a quelli, che applicar si volessero nello studio delle Logiche verità. Convien dirsi adunque, aver egli dipoi conosciuto l'utile che arrecar può lo studio di questa scienza, che certo a mio credere necessaria non può chiamarsi. Considerando la sua definizione, le sue parti, il suo scopo, nulla mi sembra scorgervi che possa dirsi necessario allo studio delle posteriori scienze. Si osservi il suo oggetto, il suo fine, la sua definizione. Logica significa l'arte di pensare, cioè di disporre, e di dirigger la mente alla cognizion del vero; il suo scopo adunque è il conoscere il vero per mezzo delle idee ben disciplinate, ed insieme di diriggere, ed ammaestrar la mente al già detto fine. Dà adunque la Logica cognizion delle idee, e dei pensieri, il che chiaramente vedesi esser senz'alcun dubbio di grand'utilità ad uno che voglia intraprendere la difficile al certo, ma gloriosa, insieme, ed amabile filosofica carriera. Chiunque però maturamente consideri l'oggetto, a cui si diriggono gli ammaestramenti di questa per altro utilissima scienza, toccherà con mano, esser eglino assolutamente non necessarii, poichè ciascuno che scorra, e contempli le logiche verità, potrà chiaramente conoscere esserci esse insegnate dalla stessa natura, il che parmi evidente: poichè ognuno avendo alcun poco di penetrazione, apertamente comprende non potersi dall'uomo formare alcuna idea se non per mezzo dei sensi; che l'idea di un centauro è composta da due cognizioni insieme unite, cioè da quella del corpo umano, e del corpo di un cavallo; che alcune idee sono in noi nel nostro nascere da Dio infuse, e chiaramente conosce quali sieno gli usati segni ad esprimere l'idee, quali sieno le tre parti di una proposizione, quali le condizioni, che ricercansi onde perfetta possa chiamarsi una divisione, percepisce insomma tutti quei mezzi atti a dirigger la mente alla cognizione del vero, i quali vengono a noi dalla Logica insegnati. In quanto poi a quella parte di questa scienza, in cui si dimostra il modo di costruir gli argomenti; le regole, la di cui osservanza è necessaria affinchè retti dir si possano; l'arte di ribattere le obbjezioni, che alla verità si oppongono; e il metodo facile di provar qualsivoglia proposizione, le quali cose tutte esserci dalla stessa natura insegnate non si può in alcun modo affermare, parmi nondimeno, che una qualche benchè superficial cognizione aver se ne possa negli studj rettorici. Ma poichè, come ho di già confessato, queste cognizioni dir non si possono sode, e mature, e danno soltanto una superficiale idea della soppradetta parte di Logica, perciò questa scienza dee senza dubbio chiamarsi utilissima allo studio delle posteriori scienze; ma parmi non di meno per le sopraddette ragioni che dir non si possa affatto necessaria.


 
Sul quesito se sia più utile all'uomo la ricchezza, o la povertà
 

Trattar volendo una sì intrigata questione sono alcerto esente dal timore, che sia la mia fatica rigettata, e proscritta da un qualche severo Platonico per esser ella come nuova interdetta dalle troppo austere leggi del Socratico Discepolo nella sua rigorosa Repubblica; poichè, a mio credere, dacchè pronunziar si udirono i nomi sì opposti di ricchezza, e povertà avranno i sapienti disputato se fosse all'uomo di maggior utilità, e giovamento il possedere fertili campagne, feconde terre, danari numerosi, ovvero esser di ciò privo, e languire nella miseria, e nella indigenza. Una tal questione sarà già stata più volte decisa, ma ora di nuovo è d'uopo esaminare le ragioni, che dall'una, e dall'altra parte apportar si possono, onde ciascuno conosca qual sia più giovevole all'uomo, la ricchezza, o la povertà. A favor della prima vedo i ricchi tutti non solo, ma i poveri ancora che non conoscendo i pregi del loro stato, e i pericoli dell'altro desiderano essere a parte della gioja apparente dei ricchi, e lasciar la miserabile lor vita priva a lor parere d'ogni contento, e d'ogni ristoro. Ma dall'altra parte rimiro a favor della seconda i più sensati Filosofi, e i più sapienti uomini di questo secolo non solo, ma ancora di quelli, che dall'edace tempo furon già consumati. Ciascuno da tutto ciò ben comprende a qual partito io sia per appigliarmi, il quale sarà certo quello, che dalle più forti ragioni, e dai più savj Filosofi vien confermato. Entrando adunque nella controversia fra tanti divisi pareri, fra tante opposte ragioni, fra tante opinioni diverse io arditamente sì, ma non senza fortissime causse affermo essere all'uman vivere più giovevole la povertà, che la ricchezza. A questa decisione pronunziata da uno privo di ogni cognizione equivalente al peso di sciogliere una sì ardua lite io vedo fremere quelli, che proteggono il partito dei grandi del secolo, e dei ricchi opulenti, ma se questi vorranno servirsi della sana ragione nel ponderar la mia sentenza chiaramente vedranno esser questa ragionevolmente pronunziata; onde per meglio dimostrare la sua verità proveremo dapprima esser la povertà in quanto al temporale più giovevole all'uomo della ricchezza, e quindi passeremo a dimostrare esserlo ancora in quanto allo spirituale.

Odo di già le voci dei miei avversarj, che vedendomi pronto a mostrare esser la povertà più giovevole all'uomo della ricchezza in quanto al temporale esclamano gioiosamente con Antifane = Pecuniae sunt sanguis et vita mortalibus; quisquis eis destituitur ille inter vivos mortuus stabulat = Come dunque soggiungono può mai la ricchezza posporsi in quanto al temporale alla povertà? Rispondo che appunto perchè il denaro è la vita, ed il sangue dei mortali ogni piacere ogni gioia ogni contento divien veleno al ricco, il quale al dir di Fedro = tristis audit musicum citharae sonum, quem tibiarum macerat jucunditas; obsoniorum pretia cui gemitum exprimunt; qui dum quadrantes aggerat patrimonio coclum fatigat sordido perjurio = e che i poveri i quali di ricchezze son privi, e che però questo sangue non posseggono non per questo debbon chiamarsi morti abitanti fra i vivi, che anzi dovrebbono esser detti vivi abitanti fra i morti poichè non son sottoposti ai travagli dei Grandi. Onde i poveri non solo debbon soffrire pazientemente il loro stato, ma debbon anzi esser di questo contenti come il chiarissimo Padre Daniel Bartoli prova con evidenti ragioni nell'aureo suo libro della povertà contenta dedicato ai ricchi da lui giustamente chiamati non mai contenti. Poichè se un avversario muova contro di essi una lite, per cui possano venir spogliati dei loro beni ovvero, se un qualche nemico con formidabile armata contro l'impero, e il regno si avventa, o se tasse gravose s'impongono ai doviziosi, essi tosto nuotano in un mar di timori, di angoscie, e d'affanni mentre i poveri tranquillamente riposano, come afferma il Liberto di Augusto Lib. 4. Fab. 4 = Quemcumque populum tristis eventus premit, periclitatur magnitudo principum, minuta plebes facili praesidio latet = e altrove Lib. 1. Fab. 15. = In principatu commutando civium, nil praeter domini nomen mutant pauperes = Nè ciò ancor basta poichè sebbene a tutte queste avversità il ricco non sia soggetto egli è sempre non dimeno al dir del Venosino Poeta = Magnas inter opes inops = poichè come afferma il Satirico = Crescit amor nummi quantum ipsa pecunia crescit = e perciò crescendo sempre la brama di ricchezze l'uomo che ad essa è soggetto è in tutto simile all'idropico, che frenar non sa l'ardente sua sete, la quale sempre più si accresce coll'esser soddisfatta come appunto scrive il Lirico Poeta Lib. 2. Car. Ode 2. = Crescit indulgens sibi dirus idrops; nec sitim pellit nisi caussa morbi fugerit venis, et acquosus albo corpore languor = Le quali cose tutte chiaramente conoscesi non avvenir nei poveri, i quali vivon contenti di quello, che acquistar possono colle loro fatiche, imperocchè come afferma il sopraccennato Poeta = Vivitur parvo bene = Ed assai più lor piace il pane asperso del lor sudore, e le ruvid'erbe frutto dei loro lavori, che le superbe vivande, e i cibi de' Ricchi, come già affermò Ciro ancor giovane, il quale sedendo con Astiage Rè della Media a sontuoso banchetto contro l'uso di Persia disse essere a lui più gradite le poche carni, e il rozzo pane di cui imbandivansi le mense Persiane, che le saporite vivande, che d'innanzi a lui erano apprestate, il che dal sopraddetto Padre Daniel Bartoli nell'accennata operetta vien riferito. Onde io posso sicuramente chiudere le prove di già apportate, le quali dimostrano esser la povertà più giovevole all'uomo della ricchezza in quanto al temporale con le seguenti parole di Flacco il quale scrivendo a Licinio nell'ode.7. del Libro. 2. così dice = Saepius ventis agitatur ingens Pinus et celsae graviore casu Decidunt turres, feriuntque summos Fulmina montes = Onde chiaramente vedesi da ciò, che più sicuri sono e più felici in vita i poveri, e i bisognosi, che i nobili, ed i grandi.

Convinti adunque i Ricchi di ciò, che la povertà apporta all'uomo più utilità della abbondanza inquanto al temporale non ardiranno alcerto alzar la voce contro l'altra mia proposizione, la quale afferma esser la povertà più giovevole all'uomo della ricchezza inquanto allo spirituale, poichè ella è provata dalle parole istesse del Redentore, il quale nella sua predicazione inculcò sempre una tal massima, e da tanti Eroi di santità che abbandonaron le paterne dovizie, e sforzaronsi di far tutto il possibile, onde goder la prediletta lor povertà, per essere in tutto simili al lor Divino modello. Un saggio avviso ora a dar mi rimane a quelli, che fanno della loro ricchezza l'unico oggetto delle loro cure, e del loro affetto. Poveri, e ricchi, nobili, e plebei, Grandi del secolo, e miserabili bifolchi, udite. = Pallida mors aequo pulsat pede Pauperum tabernas, Regumque turres = Non val la ricchezza non val la nobiltà non val la potenza a preservarci dalla morte; ella contro gli opulenti, e contro i bisognosi si avvanza = aequo pede = con passo sempre eguale, nè rispetta la dignità, il merito, la grandezza, ma tutti inesorabilmente uccide. Ed essendo ciò vero come quotidianamente scorgesi, perchè cotanto desiderio di ammassar ricchezze, perchè cotanta sete di oro, perchè cotanta avidità di denaro? = Abiturus illuc, quo priores abierunt, Quid mente coeca miserum torques spiritum? Tibi dico, avare, gaudium haeredis tui, Qui thure superos ipse te fraudas cibo = Vane cure! pazze ricerche! stolta cupidità. Meritamente può dirsi con l'Esopiano Poeta, che = opes invisae merito sunt forti viro = La sola virtù, la sola sapienza può render l'uomo nobile, e ricco, come il Satirico afferma dicendo = Nobilitas sola est, atque unica virtus =, e come l'Oratore arpinate prova con forti ragioni nel sesto, ed ultimo suo paradosso. Onde io posso arditamente concludere con il medesimo; Parad. 1. = Nunquam mehercule ego neque pecunias divitum, neque testa magnifica, neque opes, neque imperia, neque eas, quibus maxime adstricti sunt voluptates in bonis rebus, aut expetendis esse duxi: quippe cum viderem rebus his circumfluentibus, ea tamen desiderare maxime, quibus abundarent.


EDIZIONE DI RIFERIMENTO: "Giacomo Leopardi, Tutte le opere", a cura di Lucio Felici, Lexis Progetti Editoriali, Roma, 1998







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